Il neolitico siciliano

IL NEOLITICO SICILIANO
La fase più antica del Neolitico siciliano è rappresentata dalla cultura di Stentinello, identificata nel 1890 da Paolo Orsi, dal nome del villaggio da lui scoperto a pochi km. da Siracusa.
La cultura di Stentinello non si presenta come l’evoluzione delle culture paleolitiche precedenti. Al contrario, essa è radicalmente diversa, apporto di genti nuove, venute dal vicino Oriente.
Prima grande novità è la ceramica, sconosciuta ai paleolitici: una ceramica bruna, dapprima di impasto grossolano eseguito a mano (il tornio è ancora ignoto), decorata a crudo con incisioni o impressioni praticate con le unghie, o con punzoni, o con l’orlo del guscio di conchiglie (il Cardium e il Pectunculus), poi, con l’andare del tempo, sempre più raffinata e artisticamente ornata. Caratteristici di questa decorazione di tipo geometrico (linee parallele, oblique, a zig zag, punti ecc.) sono i rombi, che rappresentano occhi stilizzati (in qualche esemplare più “naturalistico” sono segnate anche le ciglia) i quali costituiscono un motivo apotropaico (cioè una sorta di portafortuna, o meglio una difesa contro il malocchio, come i nostri cornetti rossi, anch’essi, peraltro,sopravvivenza preistorica,come vedremo in seguito). I vasi più antichi hanno prevalentemente forma aperta (hanno, cioè, l’apertura più grande del “corpo”), quelli più recenti hanno invece forme “chiuse”, cioè apertura più stretta. Particolarmente interessanti alcune raffigurazioni fittili (di argilla, cioè) di animali.
Per quanto riguarda l’industria litica, la selce e la quarzite (materiali quasi esclusivi dell’industria paleolitica) diventano più rare, fino ad essere soppiantate dall’ossidiana di Lipari (vetro vulcanico con il quale si ottenevano lame e arnesi taglientissimi), alla quale si affiancano il basalto e la pietra verde (se ne ricavavano accette). Le armi delle genti neolitiche sono più evolute: tra queste la fionda. Ma anche l’osso veniva lavorato.
Le novità più rilevanti, però, riguardano la scoperta di più efficaci mezzi di sussistenza: l’AGRICOLTURA e l’ALLEVAMENTO. L’uomo neolitico non vive più di caccia e di raccolta dei frutti spontanei. Non ha bisogno di spostarsi continuamente per cercare nuovi territori da sfruttare o per seguire i branchi di animali migranti verso nuovi pascoli. Ora è in grado di produrre da sé il cibo necessario. Da nomade diventa sedentario. Non abita più nelle caverne o nei ripari sotto roccia, ma costruisce capanne raccolte in villaggi, spesso fortificati mediante fossati e trincee, come quelli di Stentinello, di Megara Hyblaea, di Matrensa . Sviluppa la navigazione e il commercio per mare, attività che diventano meno rischiose dei primi audaci tentativi messi in atto dai paleolitici. Pratica una qualche forma di religione e il culto dei morti. Ce ne rimane un’unica rilevante testimonianza, la tomba di Calaforno presso Monterosso Almo: una fossa ovale, circondata e pavimentata con grosse lastre di pietra.
Come si diceva, l’origine di questa cultura a ceramica impressa va ricercata nel Vicino Oriente, cioè tra l’Anatolia meridionale e il nord della Siria (lì le testimonianze di essa sono più ricche e abbondanti che in qualsiasi altro luogo). Ma si tratta di un fenomeno di amplissima diffusione che si espande, nel corso della sua lunghissima durata, nell’intero antico continente, Asia, Europa ed Asia: in principio dall’ Anatolia (Turchia) passa alla Grecia e al resto della penisola balcanica, quindi all’Italia centro – meridionale (Puglia e Abruzzo) per via marittima. Ma i neolitici non dispongono ancora di navi sicure con le quali poter affrontare lunghe traversate. Il Canale d’Otranto costituisce un ostacolo serio: quindi la navigazione è ancora verosimilmente costiera. La diffusione avviene attraverso le isole: Leucade, Corfù, Malta, le Eolie, e infine l’Elba e la Corsica (non a caso, in questi luoghi si trovano numerose testimonianze di questa cultura).
Qui in Sicilia essa arriva tardi, quando nel paese d’origine è ormai in declino, e sta per essere soppiantata dalle nuove culture a ceramiche dipinte. Gli avventurosi neolitici che sono giunti fortunosamente nel Gargano (attraverso le isole croate di Lagosta e Cazza, quindi Pelagosa, Pianosa e le Tremiti) trovano un nuovo ostacolo nei monti della Calabria. Preferiscono, dunque, attraversare i più accessibili valichi dell’Appennino centrale per espandersi nelle regioni centro – settentrionali che si affacciano sul Tirreno, e da qui poi spingersi verso la Provenza.
Non è un caso se il neolitico siciliano a ceramica impressa appare per diversi aspetti più evoluto che altrove: i villaggi fortificati, le decorazioni più raffinate e complesse, la presenza di idoletti fittili e di alcuni esemplari di ceramica dipinta associati a quella tipica di Stentinello sono un chiaro indizio del fatto che il “nostro” neolitico è più tardo rispetto non solo a quello anatolico, ma a quello continentale italiano.
Questo ci fornisce elementi utili per la datazione: nel Vicino Oriente la cultura a ceramica impressa viene soppiantata da una nuova cultura a ceramica dipinta (culture di Samarra e di Tell Halaf in Mesopotamia) all’inizio del IV millennio a. C. Quindi la diffusione della cultura a ceramica impressa nella penisola balcanica e in Italia deve essere iniziata prima che nella sede originaria cominciasse il suo declino ( cioè nel corso del V millennio), ma,dato che la cultura di Stentinello appare più evoluta rispetto alle altre a ceramica impressa dell’ Italia meridionale, possiamo supporre che essa si affermi più tardi qui in Sicilia, quando altrove già cominciavano ad espandersi le nuove culture a ceramica dipinta, dalla Mesopotamia alla Siria e all’Anatolia, quindi alla Grecia centrale (cultura di Sesklo), e da qui all’Italia meridionale, alle Eolie e infine alla Sicilia.
La seconda ondata di culture neolitiche a ceramica dipinta rappresenta una fase di notevole progresso rispetto al passato: oltre alla ceramica, nella quale si evidenzia un più raffinato gusto artistico, e ai numerosi idoletti fittili, che testimoniano un diffuso senso religioso, si comincia a praticare la lavorazione dei metalli (fusione del rame); anche la navigazione diventa meno rischiosa, grazie alla costruzione di imbarcazioni più efficienti.
Questa seconda ondata di culture neolitiche a ceramiche dipinte viene distinta, nella Grecia centrale (regione che influenza in modo particolare l’Italia e la Sicilia) in tre fasi successive, che trovano una precisa corrispondenza nel neolitico pugliese, lucano e abruzzese: una prima fase caratterizzata da ceramica dipinta a due colori, una seconda dipinta a tre colori, con motivi meandro – spiralici, una terza decorata con incrostazioni di colore bianco.
Una analoga successione – che ci offre la possibilità di stabilire una cronologia relativa – può essere riscontrata negli scavi di Lipari ( effettuati da Bernabò Brea, massimo studioso della preistoria siciliana e autore del testo da cui sono tratti questi appunti ). Le isole Eolie, grazie alla lavorazione e al commercio della pregiatissima ossidiana, eruttata dai crateri vulcanici di Lipari (Forgia Vecchia e Monte Pelato), avevano raggiunto nel neolitico un livello elevatissimo di ricchezza e di progresso.
A Castellaro Vecchio, presso Quattropani, gli scavi hanno portato alla luce lo strato più antico (primo periodo del neolitico eoliano): vi abbondano le ceramiche impresse dello stile di Stentinello, ma vi sono presenti anche esemplari di ceramica dipinta a due colori e pochi frammenti di quella a tre colori (bande rosse marginate in nero). A un certo punto non si trovano più tracce di frequentazione umana: il sito, evidentemente, viene abbandonato.
La vita ora si sposta sul Castello di Lipari, che – per nostra fortuna – è una sorta di tell, cioè una piccola altura formata dai depositi degli abitati che si sono succeduti nelle varie epoche. Nello strato più antico, quello più in basso, che poggia direttamente sulla roccia (secondo periodo del neolitico eoliano), la ceramica impressa è rara, quasi scomparsa. Vi è invece presente quella dipinta a bande rosse marginate di nero (dello “stile di Capri”, così chiamata perché a Capri ne sono state rinvenute le prime testimonianze numerose e significative) insieme ad una ceramica (piccole olle sferoidali con un orlo basso,e verticale) grigia o nera, lucida e levigata, di fattura raffinata, per lo più inornata, o decorata sobriamente con dei graffiti a volte sottolineati in rosso ocra. Troviamo anche un terzo tipo di ceramica con decorazione incisa in cui è presente, per la prima volta, il motivo del meandro e della spirale. In questo strato sono stati anche rinvenuti un idoletto fittile, e abbondantissimi frammenti di ossidiana (oggetti e scarti della lavorazione), mentre gli strumenti di selce – importati – sono ormai una vera rarità.
Nel secondo strato a partire dal basso – ovviamente più recente del precedente : terzo periodo del neolitico eoliano – troviamo una ceramica ornata con il motivo del “tremolo” o con decorazioni meandro spiraliche che caratterizzano anche le anse (i “manici”) complicatissime, costituite da nastri tubolari di argilla ripiegati e avvolti su se stessi ( questo stile è detto di “Serra d’Alto” dalla località in cui è stato scoperto, in Lucania, il villaggio più rappresentativo di questa facies culturale). Vi sono presenti anche alcuni sigilli fittili a forma di timbro, chiamati pintadere (con nome spagnolo) perché sono stati rinvenuti in abbondanza nella penisola iberica.
Lo strato successivo (quarto periodo del neolitico eoliano) ha uno spessore sottile, sul Castello di Lipari, il che significa che il villaggio ha breve durata. Nei reperti ceramici risulta evidente un cambiamento di gusto: scompare lo stile eccessivamente adorno di Serra d’Alto, e si diffonde una ceramica monocroma rossa (monos = solo, chroma= colore, cioè di un solo colore), con anse piccole, costituite da semplici nastri tubolari o a forma di rocchetto. Una novità rilevante è costituita dal rinvenimento di scorie di fusione del rame: a quest’epoca la metallurgia è già nota nelle Eolie.
Ma il villaggio sul Castello viene presto abbandonato, soppiantato da un altro, molto più sviluppato, ai piedi dell’acropoli, nella contrada di Diana (da cui prende il nome la ceramica monocroma rossa). Qui i reperti archeologici sono molto ricchi e abbondanti, e attestano il trapasso graduale dallo stile di Serra d’Alto a quello di Diana. Nello strato più alto, infine, l’ultimo in ordine cronologico, si nota una certa decadenza nel gusto artistico e nella fattura dei vasi, grigiastri o violacei. Il neolitico eoliano ha probabilmente chiuso la sua fase creativa.
Se ci siamo tanto soffermati sul neolitico delle Eolie , che apparentemente sembra “fuori tema” o marginale rispetto all’argomento di cui ci occupiamo, c’è un preciso, e non secondario, motivo: In Sicilia sono state trovate testimonianze degli stili fin qui descritti, ma in modo sparso, isolate, piuttosto rare: se non conoscessimo l’evoluzione delle culture neolitiche grazie alla stratigrafia di Lipari, non avremmo nessun elemento per delineare l’evoluzione del neolitico siciliano; il quale, come appare chiaro, è identico a quello di Lipari, e non solo: anche in Italia meridionale troviamo la stessa successione di facies culturali. E persino a Malta, nel periodo in cui fiorisce la sua straordinaria architettura megalitica, è presente ceramica rossa dello stile di Diana. Ma, più in generale, questa evoluzione e successione di culture che presenta caratteri simili dappertutto ha – come sempre – origine in Oriente, nell’area egeo – anatolica, da cui si irradia in tutto il bacino del Mediterraneo, mentre invece l’Italia settentrionale è influenzata dal neolitico settentrionale (culture danubiane).

Lezione U.P.G.C. La Sicilia nella preistoria: il Paleolitico

LA SICILIA NELLA PREISTORIA

Nelle fasi più antiche del Pleistocene (1), quando altrove fioriva la civiltà della “Pietra Antica” ( Paleolitico inferiore e medio) sembra che la Sicilia non fosse abitata da esseri umani (2).Nei siti archeologici più antichi, gli strati “culturali” (quelli, cioè, in cui si trovano manufatti dell’uomo) sono sovrapposti a strati argillosi più antichi, in cui non c’è traccia di presenza umana. Questi strati di argilla, che risalgono alla fase più antica della glaciazione di Wurm, sono invece ricchi di resti fossili di animali. Si tratta di una fauna tipica dei climi caldi (grazie alla sua posizione geografica , la Sicilia non conobbe mai un clima veramente freddo, neanche durante la glaciazione): grandi pachidermi, leoni, specie primitive di iene, ghiri, cinghiali e una specie di equide zebrato, l’equus hydruntinus (cavallo d’Otranto) ecc. La specie più caratteristica e singolare era però quella degli elefanti nani (3), specie diffusa in diverse isole del Mediterraneo (Sardegna, Cipro, Malta alla quale la Sicilia a quel tempo era collegata) i cui resti ossei, in particolare quelli del cranio, potrebbero costituire l’origine del mito dei Ciclopi: la cavità della proboscide sarebbe stata scambiata, dai nostri antichi antenati delle epoche successive, per cavità oculare, di un unico grande occhio in mezzo alla fronte.
Quando l’uomo fece la sua prima apparizione in Sicilia, nel Paleolitico superiore, all’incirca 30.000 anni fa, la glaciazione di Würm era già in una fase avanzata. Il clima della Sicilia era più piovoso che freddo. Comunque la fauna tipica dei climi caldi – ad eccezione dell’equus hydruntinus) – era scomparsa da millenni e sostituita da una fauna più tipica dei climi moderati; l’uomo di Neanderthal era già da tempo estinto, e il nostro diretto avo, l’Homo Sapiens Sapiens si era diffuso in Europa, dando vita a culture litiche (4) più evolute: a una di queste, cioè all’Aurignaziano avanzato risalgono le tracce più antiche fino ad ora scoperte in Sicilia, nel sito di Fontana Nuova, presso Marina di Ragusa. Ma la maggior parte dei siti e dei reperti noti risalgono a una fase ancor più avanzata del Paleolitico Superiore (5), cioè al Gravettiano ( tombe di S. Teodoro, presso Milazzo), facies culturale caratterizzata dall’industria microlitica (cioè dalla produzione di strumenti di pietra di piccole dimensioni – dal greco “mikros” piccolo e “lithos” pietra -).
Non ci dilungheremo qui a ad elencare la distribuzione topografica dei siti (basta dire che la maggior parte di essi è prevalentemente costiera), né a descrivere minuziosamente i reperti litici ( sarebbe un discorso troppo tecnico). Ci limiteremo, invece, a citare le cinque tombe di S. Teodoro, unico esempio, in Italia, insieme a quelle liguri dei Balzi Rossi e delle Arene Candide, di sepolture paleolitiche. Si tratta di semplici fosse, nelle quali erano deposti i corpi, supini e con le braccia distese lungo i fianchi (ad eccezione di uno, che aveva una mano accanto alla testa). Intorno ad essi, il corredo funebre: una collana di denti di cervo, un pezzo del corno di un cervo, dei ciottoli levigati. Sulle tombe era sparso uno strato di ocra rossa macinata: il rosso, simbolo della vita, è un probabile indizio della credenza in una vita ultraterrena.
Ma i reperti più significativi del Paleolitico Siciliano sono costituiti da due serie di raffigurazioni rupestri, alcune incise, altre dipinte,scoperte verso la metà del secolo scorso, la prima in una grotta di Cala dei Genovesi, nell’isola di Levanzo (Egadi), la seconda all’Addaura, vicino Palermo. A quel tempo, nel Paleolitico superiore cioè, Levanzo, come la vicina Favignana dovevano essere unite alla Sicilia, e la grotta doveva essere più accessibile di quanto non lo sia oggi ( la grotta, che si affaccia su una caletta rocciosa, è raggiungibile per mezzo di una barca, quando il mare è perfettamente calmo, oppure attraverso un lungo e accidentato percorso campestre). Vale comunque la pena di affrontare qualche disagio per vedere uno tra gli esempi più rilevanti e pressoché unici dell’arte paleolitica in Italia (v. figure 1 e 2) . Le figure, tracciate sulla parete interna della grotta, furono eseguite in epoca diversa, da autori differenti, con tecniche diverse: parte incise, parte dipinte in rosso e in nero. Il primo gruppo – il più antico, sicuramente databile alla cultura gravettiana e associabile ai reperti litici scoperti nella grotta – è costituito prevalentemente da figure di animali, di cui viene inciso il profilo (senza dettagli anatomici) con tratto sicuro ed esperto, in modo naturalistico ed artisticamente efficace. Vi possiamo riconoscere una fauna tipica dei climi freddi (glaciazione di Würm): cervi, bovidi (Bos primigenius) e l’Equus hydruntinus, equide che – insieme ai crostacei e ai frutti di mare come la Patella ferruginea- doveva costituire uno dei piatti forti nella dieta dei nostri lontani antenati, a giudicare dall’abbondanza dei resti ossei che se ne sono rinvenuti tra gli avanzi di pasto.
Le figure dipinte, invece, sono schematiche, geometrizzanti, lontanissime dal vivace naturalismo di quelle incise. Sono prevalentemente figure antropomorfe di colore nero accostabili agli idoletti stilizzati diffusi nel Mediterraneo durante il neolitico: l’esempio più noto è quello degli idoli cicladici (v. figura a) a forma di violino, di bottiglia, ecc.
Una sorta di collegamento tra le figure del primo e quelle del secondo gruppo è costituita da tre immagini di uomini danzanti, uno dei quali barbuto, stilizzate come quelle delle figure dipinte, ma, al contrario di queste, incise; e da un’altra figura antropomorfa, dipinta in rosso, ma più naturalistica e più simile alle figure graffite (v. figura 3). Questa seconda serie di raffigurazioni è sicuramente di epoca più tarda rispetto alla prima: sulla base delle somiglianze con le pitture e le sculture rinvenute nelle Cicladi, a Troia e a Creta, il Graziosi – eminente studioso di preistoria e della grotta di Levanzo in particolare – ritiene che esse debbano essere datate alla prima fase età del bronzo.
Più complesse e interessanti le raffigurazioni scoperte dalla Marconi Bovio nella grotta dell’Addaura, sulle pendici settentrionali del Monte Pellegrino ( vedifig.4). Qui non troviamo più in prevalenza immagini di animali, o figure umane isolate, bensì gruppi in cui gli uomini interagiscono tra loro. Ma procediamo con ordine.
Il primo gruppo è costituito da figure umane (tra cui una donna incinta con un grosso fardello sulle spalle) e animali incise con mano sicura e leggera, poco marcate e apparentemente non legate tra loro da alcuna connessione. Uno degli uomini ha sul viso una strana maschera da uccello (per la celebrazione di un rito a noi ignoto?)
Le figure del secondo gruppo, più fortemente incise, rappresentano una scena complessa che è stata oggetto di varie discussioni e diverse interpretazioni. Dieci uomini nudi danzano in cerchio attorno a due figure maschili giacenti, presumibilmente uno accanto all’altro (in realtà uno sopra l’altro, ma ciò è dovuto alla mancanza di prospettiva, sconosciuta – ovviamente – agli artisti paleolitici) e apparentemente costretti in una posizione innaturale (li si direbbe, con termine moderno, “incaprettati”). Altri uomini assistono alla scena. Uno accorre portando una lunga asta. Poco distante, in basso, un grosso daino. Gli uomini sono rappresentati in modo naturalistico, ma senza dettagli anatomici (né piedi, né mani, né i tratti del viso). Sembrano dotati di folte e lunghe capigliature, e alcuni portano una strana maschera a forma di testa di uccello. Secondo alcuni studiosi (Blanc, Chiappella) si tratta di una macabra scena raffigurante un supplizio o un sacrificio umano. Secondo altri (la Marconi, scopritrice delle raffigurazioni) si tratterebbe, invece, di un rito di iniziazione sessuale (dato che gli attributi sessuali maschili sono rappresentati con una certa attenzione).
Due figure di bovidi, isolate e tracciate con mano pesante, piuttosto rozze e approssimative costituiscono un terzo gruppo, di livello artistico decisamente inferiore.
Altre raffigurazioni rupestri, simili a quelle dell’isola di Levanzo, sono state scoperte anche nella grotta Niscemi, sulle pendici orientali del Monte Pellegrino: anche qui troviamo vivaci figure di animali, tra cui spiccano, con la loro corporatura massiccia e le zampe corte e sottili alcuni bovidi, e poi il solito equus hydruntinus con la sua criniera a spazzola che lo fa rassomigliare a una zebra.

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La nascita della polis e della moneta

SCHEDA: LA NASCITA DELLA POLIS E L’INTRODUZIONE DELLA MONETA IN GRECIA
L’elemento che più di ogni altro caratterizza la storia greca dell’età arcaica (secoli VIII – VI a. C.) e classica (V – IV a. C.) è la polis, la città – stato. Ma che cos’è esattamente una polis? E quando nacque?
POLIS non è semplicemente la città, ma uno stato, che comprende un territorio (χώρα) più o meno vasto ( da un’estensione di pochi km ² a un’intera regione, come, ad esempio, l’Attica), ed è dotato di un centro urbano (ἄστυ), che ne costituisce il “cuore” politico, amministrativo e culturale.
Il centro urbano può essere costituito da una “normale” città, con i suoi quartieri, le sue vie, i suoi monumenti e la sua cinta muraria (Atene), o da un insieme di villaggi disseminati nella campagna, senza mura (come Sparta: perché sono i cittadini a dover difendere la loro città, e non viceversa). Ma ha comunque un’acropoli (l’altura sulla quale in età micenea sorgeva il palazzo del wanax, la rocca in cui i cittadini trovavano rifugio in caso di pericolo, e che, in età storica, è sede dei principali templi e degli edifici destinati al culto) e una agorà (la piazza, cuore dell’attività politica e commerciale); è governata da una serie di organismi politici che sono espressione della comunità dei cittadini (in contrapposizione ai non cittadini), maschi (le donne ne sono escluse), e liberi ( in antitesi agli schiavi e ai servi di vario tipo). Alcuni storici moderni (Austin e Vidal – Naquet) distinguono tra due diversi tipi di polis: quella classica ( Atene ne è l’esempio più rappresentativo) e quella arcaica (come Sparta) non solo sulla base dell’assetto urbanistico, ma anche – e soprattutto – sulla base del maggiore o minore livello di demarcazione tra le categorie sociali degli abitanti. Nella polis di tipo classico le differenze tra cittadini e no, tra liberi e schiavi sono nette e invalicabili. Lo schiavo è una merce; appartiene al singolo individuo che lo acquista al mercato, come un qualsiasi animale da soma. Nella polis di tipo arcaico le differenze non sono così nette: esistono diverse categorie intermedie di cittadini. Ed esistono “schiavi” che non sono proprietà dei singoli, bensì dello stato: una sorta di “servi della gleba”, probabilmente discendenti di una popolazione più antica sottomessa dai nuovi dominatori (come gli iloti di Sparta; ma esistono, con nomi diversi, categorie simili in varie altre regioni e città della Grecia e delle colonie), oppressi e sfruttati, ma tuttavia, sia pure in modo subordinato, anch’essi partecipi, in una certa misura, della cittadinanza, in una situazione intermedia tra liberi e schiavi. Questa definizione di “polis” è il risultato di una astrazione, ottenuta mettendo a confronto le poleis che meglio conosciamo, cioè Atene e Sparta, e cogliendo, al di là delle differenze, gli elementi che sono comuni a entrambe e alle altre poleis a noi note. Si tratta, cioè, di un modello astratto, che serve a spiegare la concreta realtà storica, senza però identificarsi del tutto con una determinata, singola realtà.
Come succede con i telefonini o i computer: le funzioni fondamentali sono le stesse. Le applicazioni, gli “optional”, variano secondo la marca, il costo, il tipo … ma quando acquistiamo un nuovo cellulare o un nuovo computer, sappiamo quali prestazioni “di base” dobbiamo aspettarci ( secondo il “modello” astratto e generale che abbiamo in mente) e studiare, invece, ciò che vi è di nuovo e particolare …
E’ comprensibile, quindi, come sia difficile rispondere alle domande fondamentali (quando, come e perché) sulla nascita della polis. Gli scavi archeologici ci possono rivelare l’esistenza di centri urbani: ma questa non è una prova dell’esistenza della polis, perché gli scavi non possono dirci nulla sul modo in cui era organizzato e governato il suddetto centro urbano, se esso, cioè, possedeva i requisiti che sono stati esposti sopra. “Città” non significa, automaticamente, “polis”. Anche nei tempi più remoti poteva benissimo esistere una città. Ma non è detto che fosse una polis. Ancor meno facile è definire il modo in cui la polis è nata, le varie tappe della sua costituzione, come pure le cause della sua nascita. Sappiamo che le poleis classiche si trovano, di solito, nelle regioni che erano state, secoli prima, sede di centri micenei (v. cartina): il “fenomeno polis”, infatti, non riguarda l’intera Grecia, ma solo alcune regioni: la Beozia, l’Attica, la Megaride, l’Argolide, la Laconia e la Messenia. La maggior parte del territorio greco rimane estranea ad essa, e conserva i modi di vita del medioevo ellenico (in questi casi si parla di stati – ethnos, come, ad esempio, l’Acarnania, l’Etolia, la Doride, la Focide ecc.).
Non è esatto, quindi, dire che studiamo “la storia greca”: in realtà studiamo prevalentemente la storia della polis più importante, Atene, e delle sue rivali, Sparta e Tebe.
La polis nacque nel corso dei secoli oscuri. Omero, nell’Iliade (Ρ), cita delle città, ma non si può dire che esse siano delle poleis. L’unica prova concreta in nostro possesso risale all’VIII secolo a. C. ed è legata alla fondazione di colonie in Occidente: esse venivano fondate per decisione della metropoli, la madre-patria, che organizzava la spedizione; ed erano, fin dall’inizio, delle poleis. Il che significa che la polis doveva esistere già da parecchio tempo: da quanto, è impossibile dirlo. La più antica iscrizione riguardante una polis risale al VII secolo a. C. ed è stata rinvenuta a Creta: essa contiene la formula ”è stato deciso dalla polis” e riguarda il divieto di ricoprire per due volte la stessa magistratura prima che siano trascorsi 10 (iscrizione di Dero).
Legata alla nascita della polis, sempre nell’VIII secolo a. C., è l’introduzione della moneta, attuata –secondo la tradizione – dal tiranno Fidone di Argo. Fino ad allora, si era praticato in prevalenza il baratto, cioè lo scambio di determinate merci con altre merci. A volte erano stati usati come mezzi di scambio – con una funzione,cioè, premonetaria – armi e utensili di metallo pregiato: lo sappiamo perché gli archeologi hanno rinvenuto spade, lance ecc. che non sono mai state affilate, e quindi mai usate in combattimento: evidentemente la loro destinazione era diversa. La moneta vera e propria esisteva già da tempo in Oriente: è proprio dall’Asia Minore – le cui coste, nel corso del Medioevo greco, erano state colonizzate dai Greci – che essa venne importata in Grecia.
Ma quando ci occupiamo di monete antiche, si faccia attenzione a un dato importante: per noi moderni la moneta ha un valore puramente nominale, di per se stessa è solo un pezzo di carta o di metallo di scarso pregio. La moneta antica, invece, aveva un valore reale, il valore, cioè, dei metalli di cui era fatta. Si trattava, di solito, di una lega di oro e di argento con il rame o con altri metalli meno pregiati (l’oro e l’argento, da soli, non si possono lavorare). Particolarmente pregiato era l’elettro di Sardi, un “miscuglio” di oro e argento che in Asia esisteva allo stato naturale, e che altrove, invece, veniva realizzato artigianalmente. Il valore della moneta, dunque, dipendeva dalla quantità di metallo pregiato che conteneva. Quando veniva svalutata, si diminuiva la quantità di metallo pregiato contenuto nella lega.
Ma la moneta non aveva un’importanza esclusivamente economica: essa era l’emblema della polis. Solo la polis aveva il diritto – esclusivo – di coniarla. Su di essa veniva inciso il simbolo della città: ad esempio, sulle monete di Siracusa era raffigurata la testa della ninfa Aretusa circondata dai delfini; su quelle di Selinunte era raffigurato il sedano, la pianta (selinous) da cui la città prendeva il nome, sulle monete di Gela il toro, e così via. In particolari occasioni – una vittoria, un evento rilevante nella vita della polis – venivano coniate monete particolari, che celebravano e commemoravano l’avvenimento (un po’ come succede oggi con i francobolli): le monete, insomma, sono oggi una fonte importante per ricostruire la storia di una città. La scienza che studia le monete antiche si chiama numismatica.
Ma l’introduzione della moneta non è rilevante solo dal punto di vista archeologico – antiquario: essa pone dei problemi cruciali, la cui soluzione condiziona l’interpretazione di tutta la storia successiva. Qual è il ruolo e il significato che la moneta assume nell’economia della Grecia Antica? Questa è la domanda fondamentale alla quale gli storici odierni cercano di dare risposta.
Secondo la tesi tradizionale, ancor oggi dominante, e risalente allo storico Meyer (fine Ottocento – primo Novecento), l’introduzione della moneta segna una svolta cruciale nella storia greca. Sono fenomeni ad essa connessi:
- La ripresa del commercio, dopo la parentesi dei “secoli oscuri”
- Lo sviluppo degli scambi tra colonie e madrepatria
- L’inizio di un’economia monetaria destinata ad affiancarsi a quella agraria, che nell’VIII sec. a. C. è in crisi, e ad assumere un ruolo preminente nei secoli successivi.
Lo sviluppo dell’artigianato è condizionato e stimolato dal movimento colonizzatore, che gli offre nuovi mercati. La fioritura dell’artigianato e del commercio, a loro volta, provocano l’emergere di una classe media, il δῆμος, costituito appunto da artigiani, commercianti, marinai. Questa classe, dotata di spirito di iniziativa e capacità imprenditoriale, diventa la principale antagonista dell’antica aristocrazia terriera e l’artefice delle successive trasformazioni in campo economico, politico, e culturale.
Questa teoria – che a me pare in larga misura condivisibile, perché fornisce un’interpretazione convincente dei fenomeni dell’età arcaica e classica – è oggi discussa e ridimensionata da alcuni studiosi ( Will e Vidal – Naquet sono i più famosi) i quali sottolineano l’importanza preminente dell’agricoltura nell’antica Grecia, anche dopo l’introduzione della moneta, e attribuiscono alla moneta un ruolo più etico che economico: Essa sarebbe – almeno in origine – espressione dei valori della polis, dello spirito comunitario che lega tra loro i cittadini, più che un mezzo di scambio puro e semplice. Essa nascerebbe, quindi, nell’ambito delle relazioni sociali più che in quello economico: lo proverebbe il fatto che, nelle emissioni di molte città, mancavano le monete di scarso valore, gli spiccioli insomma, quelli che avrebbero dovuto facilitare il piccolo commercio locale. Non è questa, comunque, la sede per discutere di questa tesi. Preferisco riportare qui – sia pure in forma problematica – la tesi classica e più largamente condivisa del Meyer. Del resto la storia antica – come qualsiasi altra disciplina – non può mai essere considerata come un sapere acquisito in modo definitivo: la ricostruzione del passato è sempre precaria e provvisoria. Una nuova scoperta, l’emergere di nuovi dati possono rimettere tutto in discussione e indurci a ripensare e a riorganizzare tutto ciò che crediamo di sapere.

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L’OTTAVO SECOLO

2) L’OTTAVO SECOLO- L’ARCAISMO
(secoli VIII-VI a. C.)
L’ottavo è un secolo – cerniera, che funge da “spartiacque” tra il “medioevo” e l’età arcaica della storia greca (secoli VII – VI a. C.). E’ un periodo di crisi economica e di profonde tensioni sociali, che sfociano nel secondo grande movimento colonizzatore, ai quali sono in vario modo connessi alcuni eventi cruciali:
a) Le prime testimonianze sull’esistenza della polis
b) L’introduzione della moneta
c) La redazione di leggi scritte e l’affermazione di legislatori e tiranni
d) L’introduzione dell’alfabeto fonetico (a ogni suono corrisponde un segno)
e) La fioritura dell’arte geometrica e la ” nascita del tempio greco” (v. scheda sull’argomento).

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Dal Medioevo greco All’Arcaismo

STORIA GRECA: 1) DAL MEDIOEVO GRECO ALLARCAISMO

Nel corso dei “secoli oscuri” (XI – IX a.C.), conclusasi la fase delle migrazioni, le varie genti avevano trovato il loro assetto definitivo. La società era radicalmente mutata: il mondo miceneo era ormai solo un ricordo lontano, che forniva materiale leggendario ai canti degli aedi. Proseguiva, però, l’espansione – iniziata dai Micenei – sulle coste dell’Asia Minore. Non si trattava più, però, di semplice ricerca di scali commerciali, ma della fondazione di colonie stabili (apoikiai), con un ampio retroterra: esse costituivano un importante tramite culturale tra Oriente e Grecia. Fu, probabilmente, in questo lungo lasso di tempo che dall’originaria “biforcazione” tra dialetto dorico arcaico e dialetto miceneo si differenziarono i dialetti storici: l’eolico, lo ionico – attico, affine per molti aspetti al miceneo, l’acheo – che del miceneo era la diretta prosecuzione – e il più conservativo dorico, distinto nella variante nord – occidentale e in quella meridionale (è questa la tesi di Chadwick). Quindi nelle colonie greche dell’Asia Minore si distinse tra Eolide (a nord), Ionia (al centro) e Doride (al sud); mentre, nella Grecia continentale e nelle isole, la distribuzione dei dialetti (v. cartina) rispecchia, probabilmente, i complessi esiti delle migrazioni interne verificatesi tra il XII e XI sec. a. C.). Fu, però, nel campo politicoche il medioevo greco produsse le sue innovazioni più rilevanti: l’”invenzione” della polis (v. scheda) e il declino delle monarchie di tipo omerico, sostituite dovunque da regimi aristocratici.
Già nei poemi omerici possiamo notare la posizione, piuttosto precaria, del βασιλεύϛ : essa non rispecchia affatto la realtà storica dell’epoca micenea, che si vorrebbe rappresentare. Né Agamennone, né Odisseo, e nemmeno lo stesso Zeus sono dei Ϝάνακτεϛ: Agamennone viene insultato e minacciato da Achille, che si reputa, non a torto, suo pari, ma non solo: anche il plebeo Tersite lo attacca pubblicamente, rinfacciandogli esattamente le stesse cose di cui lo accusava Achille. Odisseo a fatica e con grave rischio personale riconquista la sposa, la casa e i beni che i turbolenti aristocratici delle isole Ionie gli insidiavano, ben decisi a non cedere né di fronte alle legittime pretese dell’erede Telemaco,né di fronte a un eventuale ritorno dell’eroe, e disposti a ricorrere persino al delitto … Lo stesso Agamennone – come ci testimonia il mito – al suo ritorno a Micene cade vittima di una congiura di palazzo, ordita dalla moglie e dal cugino Egisto (un principe della sua stessa stirpe, dunque). I miti contengono un nocciolo di verità storica: probabilmente Agamennone, Odisseo, ecc. non sono mai esistiti. Ma è certamente vero che, alla fine dell’età micenea e nel corso dei secoli oscuri la regalità è dovunque insidiata – e poi sopraffatta – dall’aristocrazia, che ne eredita i poteri e le prerogative, distribuendoli tra quei magistrati – tutti di estrazione aristocratica, ovviamente – che alle soglie dell’età arcaica troviamo al governo delle poleis. Questi aristocratici sono i grandi proprietari terrieri (“grandi” nel senso che detengono la maggiore estensione dello scarso terreno coltivabile: come è noto, la Grecia, per la sua configurazione fisica, non dispone di grandi pianure) e gli allevatori dei ghene e degli oikoi (cioè delle grandi famiglie e delle casate nobiliari): turbolenti, orgogliosi, animati da un forte senso di appartenenza a una classe sociale di “origini divine o eroiche”, da un fortissimo senso di indipendenza, per nulla disposti a sottostare ad un’autorità estranea a loro, e ancor meno disposti a subordinare i loro interessi o le loro aspirazioni a quelli della collettività. Così, alle sue origini la polis è spesso un “club” di nobili, gelosi della loro libertà, fieri di non dover sottostare a nessun re, “uguali” tra loro. Il popolo e i contadini stanno ai margini, sono esclusi da ogni decisione politica, guardati con diffidenza e disprezzo dagli aristocratici. Fin dalle origini, dunque, la polis si fonda su un’esclusione; e la sua storia è contrassegnata da lotte infinite per l’inclusione di sempre più numerose categorie sociali nella categoria di cittadini di pieno diritto.

Introduzione alla preistoria

INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA PREISTORIA

Chiamiamo preistoria quella fase lunghissima della storia umana che possiamo ricostruire unicamente sulla base di resti fossili e archeologici.
Numerose scienze concorrono allo studio della preistoria:
- L’archeologia: ricerca e analisi dei reperti che sono il risultato dell’ industria o comunque della presenza dell’uomo (strumenti litici, cioè di pietra, manufatti vari, avanzi di pasto …) e dei siti abitati (caverne, ripari sotto roccia, resti di capanne).
- La paleontologia (studio dei fossili) associata alla paleozoologia (studio dell’antica fauna) e alla paleobotanica (studio della flora antica) : per ricostruire l’ambiente e il clima che furono teatro delle vicende dei nostri lontani antenati, è importante vedere a quali fossili animali e vegetali sono associati i resti umani. Anche lo studio dei pollini delle piante preistoriche (palinologia) può fornire utili indicazioni.
- La geologia (studio della terra e della sua storia, della natura e dell’età delle rocce, ecc.). Particolarmente importante ai fini della datazione dei reperti fossili o dei manufatti litici è l’analisi della stratigrafia: nel corso della sua lunghissima storia la crosta terrestre ha subito numerose modifiche. Eruzioni vulcaniche, glaciazioni, fasi alluvionali hanno lasciato tracce perenni nei vari strati geologici che si sono sovrapposti gli uni agli altri nel corso di milioni e milioni di anni. Così, se noi “tagliamo” una porzione di terreno, possiamo “leggere” nella successione e nella diversa composizione dei vari strati (rocce eruttive, argilla ecc.), come in una torta millefoglie, la sua storia. Se riusciamo a datare i vari strati, possiamo, di conseguenza, datare i fossili o i resti di industria umana che vi sono rimasti imprigionati, come l’uvetta nella torta. Ovviamente, i fossili e i manufatti che si trovano negli strati inferiori sono i più antichi, e, viceversa, i più superficiali sono i più recenti.
- La biologia molecolare: attraverso l’analisi del DNA dell’uomo moderno e degli attuali primati (le scimmie antropomorfe: scimpanzé, gorilla, orango, gibbone) si cerca di stabilire il grado di affinità tra di essi a livello genetico, e di risalire a un lontano antenato comune.
I sostenitori di questo metodo d’indagine partono da un presupposto: l’accettazione della teoria evoluzionistica di Darwin, secondo il quale le specie sono il risultato di lunghissimi processi di selezione naturale, e la specie umana non fa eccezione. Questa tesi è accettata, oggi, dalla maggioranza ( ma non dalla totalità) degli studiosi.

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UPGC Presentazione della commedia di Aristofane “Ecclesiazuse”

ARISTOFANE: Le donne all’assemblea (Ecclesiazuse)

Quando mette in scena questa commedia, la penultima tra quelle a noi pervenute, cioè nel 392 a. C. , Aristofane si avvia alla conclusione della sua carriera poetica e della sua vita (morirà pochi anni dopo, presumibilmente nel 385). Il “secolo d’oro” di Atene è ormai tramontato. La città è stremata da decenni di guerra (la trentennale guerra del Peloponneso contro Sparta), umiliata dalla potente rivale, logorata da sconvolgimenti interni (due colpi di stato, la sanguinaria dittatura dei Trenta Tiranni, la guerra civile per il ristabilimento della democrazia, con il suo strascico di rancori e di vendette … ). All’alba del IV secolo essa tenta, faticosamente, di riconquistare l’antico splendore, in un quadro politico generale profondamente mutato, caratterizzato da un perenne stato di guerra tra le poleis per l’affermazione di un’egemonia che nessuno più è in grado di esercitare, e dall’interventismo della Persia, che attizza le rivalità intestine tra le città greche, per affermare meglio i suoi interessi . Insomma, la crisi della polis è ormai inarrestabile, e la sua vicenda storica si concluderà, negli ultimi decenni del secolo, con l’avvento della monarchia macedone.
Il teatro, profondamente legato alla vita della polis, ne condivide la sorte: la grande tragedia classica è morta insieme ai suoi massimi rappresentanti, Euripide e Sofocle ( tra il 406 e il 405); la commedia antica, (Arkhaia), fondata sulla satira politica e culturale, con la scomparsa dei suoi principali bersagli polemici (Cleone, Euripide, Socrate …) ha ormai perduto mordente, tende a staccarsi dall’attualità, a rifugiarsi nel mondo dell’utopia, dando inizio a quella evoluzione che, attraverso la fase intermedia della Mese (la commedia di mezzo) sfocerà nella nuova (Nea) commedia borghese di Menandro.
In effetti, Le Ecclesiazuse è una commedia diversa dalle altre: in primo luogo, perché manca la parabasi (letteralmente: “marcia da vicino”) che è un elemento caratterizzante della commedia antica, e poi perché i riferimenti all’attualità sono ridotti al minimo (si limitano a battute beffarde nei confronti di personaggi minori). Essa dà l’avvio a quella “seconda maniera” di Aristofane che noi conosciamo poco e che prelude ai successivi sviluppi del teatro “comico” greco. Eccone, in sintesi, l’argomento:
E’ l’alba. Entra in scena, travestita da uomo, Prassagora, che ha convinto le altre donne di Atene a realizzare un audace progetto politico: prendere il potere, togliendolo ai maschi, che si sono rivelati incapaci di gestirlo , amministrando lo stato nel modo peggiore che si possa immaginare: guerre,squilibri sociali, corruzione, dissesto economico … ben presto si riuniscono intorno a lei le donne del coro, in abiti maschili e camuffate con barbe posticce. Così travestite, andranno in assemblea per far approvare – in modo legale- la loro audace riforma. Davanti a loro Prassagora tiene, per prova, il discorso che ha preparato: si tratta di una divertente parodia di orazione politica, in cui viene enunciato un programma rivoluzionario, che prevede l’instaurazione del comunismo. Dopo aver preso gli opportuni accordi, le donne escono per recarsi all’ecclesia.
Entra in scena Blepiro, il marito di Prassagora, ridicolmente acconciato in abiti e calzature femminili (il giallo è colore tipico da donna, nell’antica Grecia, come lo è per noi il rosa): spinto da un urgente bisogno corporale a uscire di casa, non ha più trovato né il suo vestito, né le sue scarpe, inspiegabilmente scomparsi insieme a sua moglie ed è stato costretto a utilizzare quelli di Prassagora. Dopo un breve, buffo dialogo con un vicino di casa, che si stupisce nel vederlo conciato in quel modo, e lamenta la stessa “misteriosa” sparizione di sua moglie e dei suoi indumenti, Blepiro , che ha problemi di … evacuazione, leva i suoi lamenti, invocando persino Ilizia, la dea del parto. Torna dall’assemblea Cremete, un altro vicino, con una notizia sensazionale: l’assemblea ha deliberato di dare tutto il potere alle donne. Dopo un breve intermezzo corale, rientra Prassagora, la quale fa credere al marito di essere uscita all’alba per assistere un’amica durante il parto, e finge di apprendere da lui ciò che ha deliberato l’assemblea. Ma quando Blepiro comincia ad enunciare le nuove leggi, messa da parte ogni esitazione, Prassagora espone la sua riforma, che prevede il comunismo dei beni, degli uomini e delle donne (con l’abolizione, di fatto, della famiglia e della proprietà privata): essendo tutto comune, non ci saranno più squilibri sociali, né motivi per delinquere, né cause di conflitto. Tutti hanno uguali diritti e uguali doveri, o meglio, i maggiori oneri di gestione dello stato e di ciò che prima era il privato, spetteranno alle donne. Agli uomini toccherà una “vita beata”, senza preoccupazioni di sorta, perché a tutto penseranno le donne: banchetti, feste e “libero amore” saranno le loro uniche attività (il che significa che si è verificato – sia pure solo a livello immaginario – un radicale rovesciamento della prospettiva tradizionale: gli uomini, presentati nell’espletamento delle loro funzioni più “corporali” e animalesche, sono ridotti alla loro funzione riproduttiva. Come stalloni, insomma). E, dato che tutti hanno uguale diritto al piacere sessuale, i giovani belli e aitanti non potranno fare l’amore con la loro donna, se prima non avranno soddisfatto anche una donna vecchia e brutta, e lo stesso vale per le ragazze attraenti, che avranno l’obbligo di “accontentare” le voglie di un uomo brutto e vecchio, prima di andare col loro innamorato … Anche se esposta in forma comica, con dei risvolti paradossali, l’utopia del comunismo dei beni e dell’abolizione della famiglia era tutt’altro che peregrina: se ne discuteva da tempo, era – come si suol dire – “nell’aria”. Già un tale Falea di Calcedonia l’aveva ipotizzata. Ma sarebbe stato il grande Platone, pochi anni dopo, a teorizzarla compiutamente (Repubblica e Leggi).
Dopo le iniziali perplessità, Blepiro e Cremete sono conquistati dalle idee rivoluzionarie di Prassagora. Blepiro è fiero di essere il marito della leader … (ancora il consueto rovesciamento dei ruoli: di solito era la donna “del capo”a essere fiera della sua posizione di “gloria riflessa”). Il coro esegue una breve danza, che fa le veci della parabasi (che si sarebbe dovuta trovare a questo punto) dopo di che tutti escono di scena.
Nella Commedia Antica, alla parabasi seguiva l’Agone tra due personaggi del coro che sostenevano tesi opposte. Qui , invece dell’agone troviamo un buffo dialogo tra l’entusiasta Cremete, che si affretta a raccogliere tutti i suoi averi per consegnarli e metterli in comune, e uno scettico, che non intende consegnare un bel nulla, e prima vuole vedere che faranno gli altri, e inventa ogni pretesto per tenersi la sua roba. La discussione è interrotta dall’arrivo di una donna – araldo che invita tutti al banchetto comune, già pronto. I due uomini si avviano a godere dei vantaggi del nuovo ordinamento, anche l’uomo che non ha voluto contribuire per nulla alla “ricchezza comune”, felice di “scroccare” allo stato il più possibile.
Ora la scena cambia: alla finestra c’è una vecchia imbellettata, che attende con ansia l’arrivo di qualche giovanotto. Alla finestra di fronte, una ragazza aspetta il suo innamorato. C’è uno scambio di battute salaci e piuttosto velenose tra le due donne, quindi, al sopraggiungere del malcapitato, la vecchia impone l’osservanza delle nuove leggi. Ma appaiono improvvisamente altre due vecchie, l’una più brutta e ripugnante dell’altra, che accampano i loro diritti di precedenza … il povero giovane conteso potrà andare dalla sua amata solo avere soddisfatto le megere …
Mentre il poveretto esce di scena, trascinato via dalle sue “rapitrici”, arriva un’ancella ubriaca, che torna dal banchetto e, per ordine di Prassagora, va in cerca di Blepiro, l’unico che non ha ancora pranzato. Trovatolo, lo invita al banchetto comune insieme alle ragazze del coro. Intanto la corifea si rivolge al pubblico e in particolare ai giudici ( si tenga presente che la commedia partecipava ad una gare tra cinque concorrenti, tra le quali i giudici dovevano scegliere la vincitrice) esortandoli ad assegnare la vittoria alle Ecclesiazuse (anche l’invito ai giudici di gara e la polemica contro gli altri commediografi tradizionalmente facevano parte della parabasi). Infine l’ancella invita tutti allo straordinario banchetto in cui verrà servito un fantastico manicaretto fatto con gli ingredienti più assurdi e disparati (come se noi volessimo servire ai nostri ospiti una torta di cioccolato, salsicce, vongole e pesce alla griglia … ) e tutti si avviano intonando un canto dionisiaco.
Secondo la maggior parte degli studiosi, Aristofane vuole mettere in ridicolo il comunismo e le donne. Io non ne sarei così certa. Sicuramente la commedia antica si fonda sulla satira e la ridicolizzazione di chi sta al potere. Obiettivo principale del poeta comico è far ridere. Ma Aristofane ha un atteggiamento ambivalente nei confronti dei bersagli delle sue canzonature: prende in giro Euripide, ne fa la parodia … e lo imita. Beffeggia violentemente Socrate ( non poteva prevedere che trent’anni dopo le sue burle avrebbero fornito argomenti ai suoi uccisori), ma, nei dialoghi platonici, lo vediamo interloquire tranquillamente con il filosofo, e sostenere tesi non troppo distanti dalle sue. Certo, il potere delle donne e il comunismo sono utopie presentate nei loro risvolti comici … non diversamente da quanto accade, ad esempio, negli Uccelli. Ma è come se il Poeta, stanco e amareggiato dalla negatività del suo presente, volesse rifugiarsi nell’utopia, con la pessimistica consapevolezza, però, che ogni regime finisce inevitabilmente per guastarsi, e trasformarsi in un nuovo stato di servitù. Il fantasioso manicaretto finale non è, in definitiva, che il simbolo dell’ irrimediabile guazzabuglio della storia umana.
Lucia Cutuli

UPGC A proposito del teatro comico dell’antica Grecia

Al primo approccio, la commedia greca antica – quella di Aristofane, per intenderci: è lui l’unico autore a noi noto – colpisce lo spettatore/lettore per una serie di motivi: In primo luogo, per l’oscenità e la crudezza del linguaggio e le continue allusione alle parti basse dell’anatomia umana, e alle loro funzioni; per la maggiore libertà compositiva di cui gode l’autore comico rispetto a quello tragico, per la scarsa organicità della trama in confronto a quella della tragedia; infine per la disinvolta violenza degli attacchi contro i personaggi più in vista della politica e della cultura (tanto che, a volte, quando si tratta di personaggi a noi poco noti, non sempre ci riesce facile capire le allusioni e le battute), e per l’irriverenza persino verso gli dei.
Questi caratteri, a prima vista “strani” diventano comprensibili se prendiamo in considerazione le origini della commedia e la funzione che essa svolgeva nella polis.
Come apprendiamo da Aristotele (Poetica IV) la commedia era nata dalle processioni falliche (falloforie) e dai riti in onore di Dioniso: dal κω̃μος (l’allegra baldoria delle feste dionisiache) deriverebbe il nome della commedia stessa. Della processione possiamo avere un’idea precisa perché, negli Acarnesi, una delle più antiche commedia di Aristofane a noi giunte, il protagonista, Diceopoli, per festeggiare la pace da lui privatamente stipulata con Sparta, ne organizza una di tipo familiare : precede sua figlia in funzione di canefora, cioè di colei che porta il cesto con le primizie da offrire al dio; seguono due schiavi, che reggono un enorme fallo (raffigurazione del sesso maschile, simbolo di fecondità e prosperità). Chiude il corteo lo stesso Diceopoli, in qualità di sacerdote, con una pentola in mano, mentre sua moglie funge da pubblico, affacciata dalla terrazza. Ed ecco l’invocazione che Diceopoli, dopo avere intimato il silenzio rituale, rivolge al dio: “O Dioniso mio signore, ti sia gradita questa processione che io, con i miei, conduco in tuo onore dopo aver sacrificato, celebrando felicemente le Dionisie agresti … O Fales (personificazione della potenza generatrice della natura, dio compagno di Dioniso), amico di Bacco e suo compagno di bagordi, nottambulo adultero e amatore di bei ragazzi, dopo cinque anni, tornando felicemente al mio villaggio, ti saluto, dopo avere stipulato per mio conto una tregua, ed essermi liberato dai guai, dalle battaglie e dai Lamachi (Lamaco era un famoso generale sbeffeggiato da Aristofane). Certo, è molto più piacevole, incontrando la procace schiava di Strimodoro che torna, con un fascio di legna rubata, dalla cava, sollevarla prendendola per la vita, gettarla a terra e … farsela! O Fales, o Fales, vieni a bere con noi, e, dopo la baldoria, all’alba, berrai una coppa di pace; e lo scudo resterà appeso al focolare”.
Come si può notare, la concezione dell’osceno dei moderni è distante migliaia di anni luce da quella degli antichi: Fales, la personificazione del fallo, è un dio. E tutto ciò che riguarda la sfera del sesso, e il corpo umano “dalla cintola in giù” con il comico, che ad esso è associato, è sacro e fa parte di un rituale religioso.
Che il sesso e il riso derivante dal riferimento ad esso abbiano funzioni propiziatorie è convinzione antichissima di tutti i popoli, presso tutte le latitudini, come ci attestano l’archeologia, il mito e il folclore: basta visitare un museo, nella sezione preistorica: si noteranno, nelle tombe (almeno dal neolitico in poi) in mezzo al corredo funebre del defunto, degli oggetti fittili che le guide, pudicamente, definiscono “cornetti”, spesso associati a uno strato di ocra rossa sparso sui resti: sono gli antenati dei nostri cornetti rossi contro il malocchio, e simboleggiano la vita e la rinascita dopo la morte(c’è bisogno di ricordare che non si tratta proprio di cornetti?.. O che i cornetti simboleggiano altro?). I popoli italici – e i Latini – in occasione di certe feste della fecondità, avevano l’usanza di fare l’amore nei campi appena seminati. E la fiaba russa di Nesmejana, la principessa che non sorrideva provocando il declino del suo popolo, ribadisce il legame tra fecondità – benessere – sorriso – sesso. Nel mito greco, Demetra, afflitta per il rapimento della figlia, non ride più: e la terra è preda di un perpetuo inverno, sterile e triste. E allora è la vecchia Baube a risolvere la situazione: si alza le vesti in un comico movimento di danza, mostrando quelle parti del corpo che di solito restano nascoste. Demetra scoppia a ridere: e il sole torna a brillare sulla terra, e ricomincia il ciclo della vita. I soldati romani, mentre seguivano il loro generale nella cerimonia solenne del trionfo, lo facevano oggetto di beffe salaci (“ Ecco, ora trionfa Cesare, che sottomise le Gallie; ma non trionfa Nicomede, che “sottomise” Cesare”). Come si può notare, noi moderni , con i nostri cornetti portafortuna e certi gesti “volgari” contro la sfortuna, siamo lontani dai nostri remoti antenati solo in apparenza …
Associato al linguaggio scurrile è l’attacco, spesso pesante, contro i personaggi più in vista nel campo della politica e della cultura. Se il poeta tragico Euripide, il politico Cleone e il filosofo Socrate sono i bersagli preferiti del sarcasmo di Aristofane, non bisogna però dimenticare una folla di personaggi minori della cronaca cittadina del V secolo, sbeffeggiati per le loro disonestà, per i loro difetti, per i loro comportamenti sessuali … la commedia antica, insomma, è all’origine della satira politica, per sua natura rivolta contro chi sta al potere o comunque in una posizione di prestigio.
Anche per questo aspetto può essere illuminante la notizia – sempre riferita da Aristotele nella sua Poetica,- la quale, purtroppo, è molto lacunosa proprio nella parte dedicata alla poesia comica – , che i Dori rivendicavano l’invenzione della commedia: essa sarebbe stata etimologicamente connessa non al Komos, cioè alla festa e alla baldoria dionisiache, ma a κώμη, villaggio, e in particolare all’usanza dei contadini e di coloro in genere che erano scontenti per avere subito prepotenze e torti dai potenti (o degli attori comici, disprezzati in città), di andare in giro per i villaggi di campagna, travestiti e con il viso imbrattato di feccia per non essere riconosciuti, denunciando i soprusi e le ingiustizie di cui erano stati vittime e beffeggiando i potenti. Certamente, anche se l’etimologia più corretta (per Aristotele come per noi) è quella che fa derivare “commedia” da κω̃μος, bisogna ipotizzare, per questo genere teatrale, un’origine composita, costituita da vari apporti: tra questi, un ruolo molto rilevante ebbe quello dei “comici” siciliani, come Epicarmo, e altri di cui non conosciamo che il nome. In origine la commedia doveva essere costituita dai cori delle feste dionisiache che indossavano bizzarri costumi a volte animaleschi, con buffe imbottiture sul sedere e sulla pancia, e con falli finti di dimensioni spropositate. Da rozzi primitivi contrasti tra semicori ebbero origine gli agoni, e, probabilmente, le parti dei singoli attori. Anche la tragedia , che, come genere “teatrale” ufficiale è più antica della commedia ( l’introduzione dei concorsi comici nelle feste dionisiache avvenne nel 486 a. C., circa 50 anni dopo l’istituzione degli agoni tragici) influì in modo rilevante su quest’ultima. I vari episodi – che, però, erano meno “costruiti” di quelli tragici, più liberi, meno legati gli uni agli altri, sono senz’altro dei “prestiti” del dramma serio, come pure l’alternanza tra parti corali e recitazione, l’introduzione del prologo e della parodo, la caratterizzazione linguistica, cioè l’attico dei personaggi e il dorico dei cori …)
Ma anche la poesia giambica del VII-VI secolo a. C. (Archiloco e Ipponatte) con la virulenza dei suoi attacchi personali, con la sua estrema libertà di linguaggio, che varia dal registro elevato a quello basso e scurrile, con la sua disinvoltura nei discorsi di argomento sessuale, può avere contribuito in misura significativa alla nascita della commedia. Così pure il teatro siceliota nelle sue varie forme, e in particolar modo quello del megarese Epicarmo. Ma il dramma antico – sia quello tragico che quello comico – come fatto artistico rilevante è un fenomeno essenzialmente ateniese: forse perché ad Atene in modo più consapevole che altrove l’ascesa del demos fu legata ad una profonda rivoluzione culturale che produsse risultati straordinari in tutti i campi. Il teatro è legato strettamente alla polis (e Atene è la polis per eccellenza…) e infatti vive in simbiosi con essa e muore insieme ad essa (o le sopravvive di poco). Il teatro non è evasione o spettacolo: è rito e fatto politico. E’ uno dei momenti fondanti l’identità del popolo ateniese. La tragedia ha la funzione di rimettere in discussione il passato storico – mitico (che per gli antichi coincidono) e la cultura aristocratica che i Greci di età classica hanno ereditato dai loro padri. Il conflitto tra vecchio e nuovo codice etico, e tutte le lacerazioni ad esso legate, rendono la vita dell’uomo un enigma segnato dal dolore e dalla sconfitta. La commedia, all’opposto, ha la funzione di suscitare il riso, mediante la parodia e la deformazione caricaturale di tutti quegli eccessi, quei comportamenti, quelle scelte personali e politiche che portano la città alla rovina. Questo, in una sintesi essenziale anche se riduttiva, è il senso e la funzione del teatro classico. Non a caso, la tragedia muore con Euripide e Sofocle, alla vigilia della caduta di Atene (404). La commedia ha una vita più lunga: quella Antica (Arkhaia), a noi nota esclusivamente attraverso le undici commedie di Aristofane a noi pervenute(ma i commediografi attivi ad Atene erano almeno una quarantina), fondata sulla satira politica e culturale, vive, come la tragedia, fino alla fine del V secolo (ma già le ultime commedia aristofanesche, come ad esempio le Ecclesiazuse e il Pluto, che è l’ultima, sono “diverse”); quella di mezzo (Mese) di cui non possediamo nulla, era basata soprattutto – pare – sulla parodia mitologica (del resto era stata emanata una legge che vietava di “onomastì komodein”, cioè di rivolgere beffe pesanti verso persone indicate per nome): la sua “vita” si estende dal 400 circa al 330 a. C.; e infine la Commedia Nuova (Nea), il cui massimo esponente è Menandro ( a noi noto perché ci sono pervenute alcune sue commedie quasi per intero e larghi frammenti di altre) con il quale la commedia vive una nuova stagione fortunata (fino al 260) per essere poi trasmessa ai Latini Plauto e Terenzio. Ma la commedia di Menandro è tutt’altra cosa rispetto a quella di Aristofane: castigata nel linguaggio e nelle situazioni, dramma borghese di individui, fondata su peripezie, riconoscimenti, equivoci, problemi nei rapporti di coppia e familiari, estranea alla politica, assai poco comica (la polis, del resto, è morta: prima Filippo e poi Alessandro, infine i Diadochi l’hanno sepolta, instaurando la monarchia), essa è diventata ormai spettacolo di intrattenimento, cessando di essere rito religioso e politico.
Lucia Cutuli