oi hellenes kai ai gynaikai

Recital  su ” I Greci e le donne”

L = lettore, U = uomo, D = donna

L. La diffidenza e il disprezzo verso le donne hanno origini antiche. I Greci, padri della nostra civiltà, sono in questo cattivi maestri, anche se in maniera estremamente ambigua e problematica.

Per Esiodo ( VII sec. a.C. ) è Pandora, la prima donna – al pari della biblica Eva – la causa di tutti i mali che affliggono l’umanità.

Da  ESIODO, Teogonia vv. 570-602 e Opere vv. 59-104 (sintesi tra i due brani, che può essere letta sia da un uomo che da una donna, o da entrambi)

Zeus nascose agli esseri umani i mezzi  di sostentamento, adirato nel suo animo, perché Prometeo, il dio dall’intelligenza tortuosa, l’aveva ingannato: aveva rapito il fuoco per donarlo agli uomini. Gli disse allora, sdegnato, Zeus  che raduna le nubi: “ Figlio di Iapeto, più di ogni altro esperto di astuzie, tu gioisci di avere rapito il fuoco contro il mio volere, ma hai procurato grande affanno a te stesso e agli uomini futuri: a loro io donerò, in cambio del fuoco, un malanno del quale essi, tutti quanti, si rallegreranno, accogliendo con amore la propria rovina”. Subito, per ordine di Zeus, l’inclito Efesto plasmò dalla terra un’immagine simile a casta vergine; e la glaucopide Atena la cinse e l’ornò di candida veste, e sul capo di sua mano le pose un velo ricamato, meraviglia a vedersi, e verdi  amabili ghirlande di erba fiorita, e sulla testa un aureo diadema, opera dell’inclito Efesto: su di esso scolpì molte immagini artistiche,  tutti  i mostri terribili che nutre la terra ed il mare, e grazia su tutti aleggiava, un prodigio a vedersi. E le Grazie divine e la Seduzione possente le posero tutt’intorno sulla pelle monili d’oro. Quindi Ermes, l’araldo degli dei, nel petto le infuse inganni e scaltri discorsi e indole subdola – così aveva deciso il tonante Zeus – e infine le diede voce, e chiamò questa donna Pandora, perché tutti gli dei che sull’Olimpo  hanno dimora la colmarono di doni, malanno per gli uomini industri. Poi, dopo avere creato un affascinante malanno in cambio di un bene, la condusse davanti a tutti gli altri essere divini e umani: stupore e ammirazione presero gli immortali e i mortali, quando videro l’astuto inganno, rovina che non lascia scampo agli uomini. Da lei, infatti, discende la razza delle donne, che, sciagura grande per i mortali, abitano insieme agli uomini, disposte a condividere con loro non la rovinosa Povertà, bensì la Ricchezza. Come quando negli alveari le api nutrono i fuchi, esseri inetti: quelle per l’intero giorno, finchè il sole tramonta, si affaticano senza sosta intorno ai candidi favi, quelli, invece, standosene al coperto, dentro gli alveari, si riempiono il ventre divorando l’altrui fatica;così allo stesso modo per i mortali Zeus fece un malanno, le donne, creature moleste. Infine il padre degli dei mandò Pandora in dono a Epimeteo.                                                            

L. Era il fratello di Prometeo e aveva indole opposta alla sua: Prometeo era il Preveggente, colui che comprende IN ANTICIPO; Epimeteo era invece colui che comprende DOPO.

Costui accettò lo splendido dono, senza darsi pensiero degli avvertimenti di Prometeo. Solo in seguito, quando fu sommerso dai guai, comprese l’errore. Prima, infatti, vivevano sulla terra le stirpi degli uomini  lontano dai mali, senza la tremenda fatica e le penose malattie, che portano gli uomini alla morte. Ma la donna, togliendo con le sue mani il grande coperchio del vaso disperse tutti i mali, e procurò agli uomini  pene amare. Sola vi restò la Speranza, perché Pandora rimise il coperchio al vaso. Gli altri infiniti mali  tra gli uomini si aggirano: di mali è piena la terra, ne è pieno il mare; e le malattie, a loro piacere, di notte e di giorno vagano tra i mortali.

L. Ma il culmine della misoginia è rappresentato dalla violenta invettiva contro le donne  di Ippolito, protagonista dell’omonima tragedia euripidea. Egli ha appreso, per bocca dell’anziana nutrice di Fedra, la giovane moglie di suo padre, che la matrigna ha concepito per lui un’ardente, scandalosa passione.

Euripide, Ippolito coronato, vv. 616-668  ( U)

Ippolito: Zeus, perché mai hai portato alla luce questo ambiguo malanno, le donne? Se, infatti, tu volevi   che si propagasse il genere umano, non dovevi permettere che questo si realizzasse per mezzo delle donne, ma che i mortali, offrendo nei tuoi templi  oro o argento o bronzo, potessero acquistare seme di figli, ciascuno secondo il valore dell’offerta, e che vivessero in libere case, senza femmine. Ora, invece, quando ci accingiamo a portare in casa questa peste, per prima cosa siamo costretti a sperperare i beni familiari. Da questo risulta evidente che la donna è una gran disgrazia: persino il padre che l’ha generata e allevata le procura una dote e la manda a vivere in un’altra casa, per liberarsi da un malanno. A sua volta, chi si è preso in casa questa mala pianta , è felice di ricoprirla di gioielli preziosi, come un idolo malvagio, e si affanna a rivestirla di bei pepli, il disgraziato, intaccando il patrimonio domestico. E’ poi soggetto all’obbligo, se ha la fortuna di essersi imparentato con persone perbene, di tenersi una moglie sgradevole, oppure, al contrario, se ha sposato una brava donna, di sopportare suoceri inutili  e abbraccia, insieme  a un bene, anche un fastidioso inconveniente. La cosa migliore per chiunque è portarsi in casa una nullità, una donna innocua per  la sua scempiaggine. La donna intelligente, la odio. Che non vi sia mai, in casa mia, una donna che abbia una cultura superiore a quella che si addice al suo sesso! Poiché Cipride ingenera il male soprattutto nelle donne colte e intelligenti: la donna sciocca , proprio grazie al suo cervello limitato, è preservata dalle azioni folli. Bisognerebbe, poi, che alle donne non si avvicinasse mai una serva, ma che convivessero con mostri  feroci e privi di parola, cosicchè   non potessero né rivolgere la parola ad alcuno, né, a loro volta, ascoltare discorsi altrui. Ora invece le donne perverse tramano perversi disegni, e le loro ancelle li portano fuori. Così anche tu, maledetta, sei venuta  da me per indurmi a sconvolgere il letto inviolabile di mio padre: proposte da cui io voglio purificarmi  con acque correnti, lavandomi anche le orecchie. Come dunque potrei macchiarmi di una simile colpa io, che considero un’impurità anche solo l’avere ascoltato proposte del genere? Sappilo bene: è la mia pietà religiosa che ti salva, donna. Se non mi trovassi vincolato, incautamente, da un sacro giuramento, mai mi sarei trattenuto dal rivelare tutto questo a mio padre. Ora, finchè  Teseo, mio padre, è lontano, vado via di casa, e manterrò la bocca chiusa. Ma voglio vedere, tornando insieme a mio padre, con quale coraggio potrai guardarlo in viso, tu e la tua padrona. Ma la tua sfrontatezza io la conosco, per averla già sperimentata. Possiate morire! Io non sarò mai sazio di odiare le donne, neanche se qualcuno mi accusa di ripetere sempre lo stesso ritornello: sempre, infatti, anch’esse sono  malvagie. Qualcuno insegni loro ad essere virtuose, oppure mi lasci  sempre imprecare contro di loro!

A queste accuse replica Medea, la più famosa delle eroine euripidee, contrapponendo alle ragioni dei misogini la più lucida analisi della condizione femminile che l’antichità ci abbia trasmesso.

Da Euripide, Medea, vv . 230- 266 ( D )                    

Medea:    Tra tutti gli esseri che hanno vita e coscienza, noi donne siamo la razza più sventurata; noi che, per prima cosa, a caro prezzo dobbiamo comprarci un marito e prendere un padrone del nostro corpo: e di un simile male questo è un male ancora più odioso. E in questa operazione c’è un rischio gravissimo: prendere, invece di un buon marito, uno pessimo. Infatti le separazioni rovinano la reputazione delle donne, né è possibile ripudiare lo sposo. Bisogna, inoltre, che una donna, se si viene a trovare tra usanze e leggi diverse, sia un’indovina per capire, non avendolo appreso in casa sua, quale comportamento dovrà tenere con il suo compagno. Se, a prezzo di fatica e sacrificio, ci  riesce, e lo sposo convive volentieri con lei, senza  sopportare controvoglia il  vincolo coniugale, è una vita  invidiabile: se no, meglio morire. L’uomo, quando si annoia a stare in casa con i suoi familiari, andando fuori  libera il suo cuore da ogni fastidio, frequentando amici e coetanei. Per noi donne, invece, è obbligatorio frequentare una sola persona.  Dicono, poi, che noi  viviamo una vita priva di pericoli, in casa, mentre gli uomini  devono affrontare i rischi della guerra. Ma sbagliano : io preferirei tre volte imbracciare lo scudo in battaglia anziché partorire una sola volta. Ma lo stesso discorso non è valido per te e per me: tu hai una patria, e  casa paterna, e mezzi per vivere e compagnia di persone care. Io, essendo sola, senza patria, subisco oltraggio da mio marito, dopo essere stata portata via come una preda da una terra straniera,  senza avere né madre, né fratello, né familiari presso cui  trovare scampo da questa sventura. Questo favore vorrei ricevere da te: se trovo un mezzo , un espediente, per far pagare a mio marito il fio dei suoi misfatti, e per vendicarmi di colui che gli ha dato in moglie sua figlia, e della donna che l’ha sposato, ti chiedo di tacere. Poiché la donna per il resto è piena di paura , inadatta alla lotta e alla vista di un’arma. Ma quando è offesa nei suoi diritti e nel suo letto di moglie, non esiste un altro cuore più del suo assetato di sangue.

L.  Medea è tre volte emarginata: in quanto donna,in quanto straniera, in quanto “intellettuale” (σοφή, sofé) in grado    di conoscere ciò che è ignoto agli altri e di mettere in luce verità scomode. In un contesto a lei ostile ed estraneo, in cui è, per lei, problematico ipotizzare un futuro per i figli, matura il suo terribile proposito di vendetta.

Da Euripide, Medea, vv. 1021- 1080  ( D )

Medea: O figli, figli, voi avete dunque una patria e una casa, in cui, lasciando me sventurata, abiterete sempre, privati di vostra madre: io vado esule in un’altra terra,prima di avere pienamente goduto di voi e di avervi visto felici, prima di avervi preparato il talamo e la  sposa e i lavacri nuziali, e di avere levato in alto le fiaccole. O me sventurata per il mio orgoglio! Dunque invano, o figli, vi ho nutrito, invano mi sono affaticata  e ho sofferto per voi, sopportando dolori lancinanti nel parto. Certamente allora  io, l’ infelice, avevo riposto in voi grandi speranze, che vi sareste presi cura di me, da vecchia, e, una volta morta, mi avreste con le vostre mani, onorevolmente composta nella tomba, sorte invidiabile per i mortali: ma ora è perita ogni dolce speranza. Infatti, privata di voi, condurrò una vita amara e per me dolorosa. Voi non vedrete più con gli occhi vostra madre, essendo partiti per un’altra forma di vita. Ahimè,ahimè! Perché, figli, mi guardate così con i vostri occhi? Perché mi sorridete  con il vostro ultimo sorriso?  Ahimè, che devo fare? Il cuore mi manca, donne, quando vedo lo sguardo luminoso dei miei figli. No, non potrei. Propositi precedenti, addio. Condurrò via i miei figli da questa terra. Perché mai dovrei, per punire il  padre con la loro morte, procurare a me stessa mali due volte più gravi? No, non lo farò. Addio, miei propositi. Ma poi … che cosa devo subire? Voglio diventare oggetto di scherno, lasciando impuniti i miei nemici? Devo avere il coraggio di farlo. E’ segno della mia viltà anche presentare al mio animo queste argomentazioni  che rammolliscono. Rientrate  in casa, bambini. Chi non ritiene giusto assistere al mio sacrificio, provveda per sé: non lascerò tremare la mia mano.  Ahimè, ahimè! No, mio cuore, no, non fare questo! Lasciali andare, infelice, risparmia i figli! Anche in esilio, vivendo insieme a te, ti daranno gioia!

Ma no, per gli dei vendicatori dell’Ade, non sarà mai che io permetta ai miei nemici di oltraggiare i miei figli. In ogni caso, è inevitabile che muoiano. Poiché è necessario, sarò io a ucciderli, io che ho dato loro la vita. La mia decisione è irrevocabile, ormai. Non posso evitarlo. Ecco: sul suo capo ha già il diadema, nel suo peplo la giovane sposa, la sovrana, già sta morendo, io lo so con certezza. Orsù, io mi avvio per la strada più sciagurata, e avvierò i miei figli per un’altra ancora più sventurata. Voglio dire addio ai miei bambini. O figli, date, porgete a vostra madre la mano destra, che io vi abbracci. O mano amatissima, bocca a me cara, figura e nobile viso dei figli, siate felici, ma lontano da qui: il padre vostro vi ha privato della felicità di questa vita. O dolce abbraccio, morbida pelle, respiro dolcissimo dei miei figli, addio, addio. Non ho più il coraggio di guardarvi,  sono sopraffatta dal dolore. Sono consapevole del male che sto per compiere, ma  l’orgoglio e la passione sono più forti dei miei voleri: sono essi per i mortali causa dei mali più gravi.

L. Medea, dunque, uccide i suoi figli, verso i quali nutre un ambiguo sentimento di amore-odio, perché sono l’unico legame che la tiene ancorata all’infedele Giasone, e quindi soggetta a umiliazione, persecuzione ed emarginazione. La sua terribile scelta ha motivazioni complesse: la vendetta – doverosa, da parte di un’aristocratica -, ma anche la constatazione della mancanza di un futuro per  i figli di una maga straniera odiata e temuta in un ambiente ostile, e infine la percezione dei bambini come parte di se stessa, e non come persone autonome. Il suo è, in fondo, un gesto di auto-distruzione, oltre che di annientamento dei suoi nemici. Ma – sembra chiedersi Euripide – è lei l’unica responsabile? Perché una donna – creatura solitamente mite e pacifica – può diventare un mostro spietato se colpita nei suoi sentimenti più profondi: l’amore, la dignità, l’affetto per i figli. Così Fedra si vendica di Ippolito, che ha respinto con disprezzo il suo amore; Clitemestra uccide il marito, che ha sacrificato la figlia Ifigenia alla sua sete di conquista; Ecuba fa scontare in modo atroce all’infido Polimestore l’assassinio del suo Polidoro.

Da Euripide, Ifigenia in Aulide, vv. 1146-1195 ( D)

Clitemestra: Ascolta dunque! Voglio parlarti apertamente, senza più ricorrere ad ambigue allusioni. Prima di tutto – di questo ti accuso – mi hai sposato contro la mia volontà, prendendomi a forza, dopo avere assassinato Tantalo, il mio primo marito, e dopo avere sbattuto a terra il mio bimbo, vivo, strappato con violenza  dal mio seno. E i miei fratelli, figli di Zeus, scintillanti nelle loro armi, sui loro cavalli, ti fecero guerra. Ma il mio vecchio padre, Tindaro, ti salvò, poiché diventasti suo supplice, e così ottenesti il mio letto. Mi riconciliai con te e con la tua casa: e devi riconoscere che sono stata una moglie irreprensibile, fedele in amore e attenta a fare prosperare la tua casa, cosicché tu eri felice quando tornavi e orgoglioso quando uscivi di casa: rara fortuna per un uomo avere in sorte una sposa simile: non è affatto insolito, invece,avere una cattiva moglie. Poi  ti partorisco questo bimbo, oltre a tre ragazze: e tu vuoi strapparmene una, in modo atroce! E se qualcuno ti domandasse perché vuoi ucciderla, dimmi, che cosa risponderesti? O devo essere io a esporre le tue ragioni? Per Elena, perché Menelao possa riaverla: bella ragione davvero, pagare l’acquisto di una donna scellerata a prezzo della vita dei propri figli! Suvvia, se partirai per questa spedizione lasciandomi nella reggia, e se tornerai dopo una lunga assenza, quale cuore credi che avrò, restando in casa, quando vedrò la sua sedia vuota, vuote le sue stanze di fanciulla, e siederò in lacrime, sola, a piangere per lei, sempre? “Ti ha assassinato, figlia mia, il padre che ti ha generato, sgozzandoti con le sue stesse mani, non un altro, con mano estranea”. Te ne andrai lasciando nella tua casa un simile peso di odio? Basterà un piccolo pretesto, perché io e le tue figlie superstiti ti accogliamo , al tuo ritorno, come meriti. No, dunque, in nome degli dei, non costringermi a diventarti nemica e perfida nei tuoi confronti, e non diventarlo tu nei miei. Ebbene … sacrificherai tua figlia: dopo, quali preghiere potrai rivolgere agli dei? Quale bene potrai invocare per te stesso, se sgozzi tua figlia? Un ritorno funesto, dato che te ne vai dopo avere commesso un turpe crimine! E per me, sarebbe giusto augurarti qualche bene? Non giudicheremmo  sciocchi gli dei, se da loro invocassimo il bene per gli assassini? E poi, tornando ad Argo, ti precipiterai ad abbracciare i tuoi figli? No, non ti sarebbe lecito. Chi di loro potrà anche solo guardarti in faccia ? E a quale scopo? Affinché tu, mentre l’abbracci, possa ucciderlo? Ti sono venute in mente queste considerazioni, o ti importa solo di avere lo scettro del potere e di comandare un esercito?

L. Una delle caratteristiche più inquietanti delle donne è – agli occhi dell’uomo greco – la loro σοφία, il loro sapere. Sono molto più tranquillizzanti, come dice Ippolito, le “ donne da nulla, innocue nelle loro stupidità”. Ma le donne intelligenti e “colte” sono pericolose. Perché la loro cultura è fatta spesso di  un sapere antico, trasmesso di madre in figlia, da donna a donna. Un sapere che riguarda le virtù delle erbe, i rimedi naturali, la conoscenza e la cura del corpo ( v. Medea)….nulla a che vedere con la cultura ufficiale, che è appannaggio dei maschi. Anche il modo di conoscere delle donne è diverso dal λόγος , dal raziocinio dei filosofi. Non che le donne siano irrazionali o incapaci di seguire una logica rigorosa ( le eroine euripidee  spesso formulano discorsi e pensieri costruiti con l’abilità dei sofisti del V secolo)…ma  la loro conoscenza si fonda a volte sull’intuito, sulla capacità di percezione di una realtà più profonda, su un dono divino. E’ un sapere che Sofocle definisce  φρονει̃ν  ( sapienza), in contrapposizione alla conoscenza tradizionale, fondata sulla ragione. Quest’ultima è spesso destinata al fallimento ( v. il caso di Edipo…) Ma il φρονει̃̃ν non può fallire, perché nasce da ispirazione divina: è la sapienza dei profeti, come Tiresia o come Cassandra, sapienza che consente    a chi la possiede di affrontare la tracotanza dei potenti o l’orgoglio dei vincitori, anche se non costituisce una difesa, bensì, a volte, un dono tremendo,fonte di dolore. E’ il caso di Cassandra, la profetessa figlia di Priamo, la quale, condotta, schiava, nella reggia di Agamennone, vede  l’orrendo passato  di quella casa macchiata di sangue, e prevede la morte del re e la sua stessa morte.

 

Da Eschilo, Agamennone, vv. 1072  e seguenti   ( 1 D, 1 U )

Cassandra   Otototoi, ahimè! O Terra, o Apollo, Apollo, dio che hai segnato la mia via, mio distruttore, mi hai annientata per la seconda volta! Dove mi hai condotta? A quale tetto?

Corifeo  A quello degli Atridi: se non lo sai te lo dico io, e dico il vero.

Cassandra  Dunque, a un tetto empio, che è in odio agli dei, un tetto testimone di  innumerevoli delitti tra consanguinei, macello di uomini, suolo che stilla sangue. Questo  tetto, non lo abbandona mai  un coro concorde ma infausto: ed ecco, dopo avere bevuto sangue umano  rimane nella casa la schiera   delle Erinni domestiche, ebbra, difficile da scacciare via. Hanno stabilito qui la loro dimora e cantano l’inno della cieca colpa originaria. A turno sputano, con orrore, nemiche a colui che calpestò il letto del fratello.

Corifeo  Provo stupore che tu, cresciuta al di là del mare, in una città straniera , di lingua differente, abbia colto nel segno, parlando come se fossi stata qui presente!

Cassandra  Ahi sventura!  Vedete questi fanciulli seduti nella casa, simili ad immagini di sogni? Bimbi uccisi per mano dei loro consanguinei, hanno le mani piene di carni, le loro proprie carni fatte cibo che il padre ha gustato! Io sento il loro pianto!

Corifeo  Già sapevamo della tua fama profetica. Ma qui non siamo in cerca di profeti.

Cassandra  Ahi ahimè, che cosa sta tramando? Perché questo nuovo lutto? Una grande, grande  calamità costei ordisce in  questa casa, sventura intollerabile agli amici, irrimediabile; e la difesa è lontana.  Ah, sciagurata, questo dunque farai?  Il tuo sposo, il compagno del tuo letto, mentre lo detergi con lavacri …. come potrò rivelare la fine?  Essa già incombe …  già lei stende la mano, pronta ad avventare colpi su colpi … egli cade nella vasca piena di acqua! Di un bagno che è insidia mortale io ti rivelo la sorte.

Corifeo   Non potrei vantarmi di essere un  esperto  di vaticini, ma queste parole mi sembrano presagio di sventura.

Cassandra Ahimè, quale infausto destino si abbatte su me! Dio, perché mi hai condotta qui, me infelice? Perché io morissi insieme a lui?

Corifeo Tu  sei in delirio, e su te stessa canti una canzone funebre, come il canoro usignolo che piange la sua vita carica di sventure!

Cassandra Del melodioso usignolo è felice la sorte: gli dei lo rivestirono di un corpo alato e gli diedero una vita dolce, lontana dal pianto. Me, invece, attende il colpo  di una scure a doppio taglio …. Ma perché, dunque, porto ancora scettro e bende profetiche intorno al collo, quasi a scherno di me stessa? Andate in malora! Arricchite un’altra, in mia vece, con i vostri doni di morte! Ecco, Apollo medesimo, il profeta che ha fatto di me una profetessa, mi ha condotta a questo destino … ma non morirò invendicata: verrà un giorno un altro a vendicarmi, il figlio matricida punitore dell’assassinio del padre; esule, errabondo, bandito da questa terra, tornerà per porre il colmo alle sciagure dei suoi familiari. Ma perché mai io indugio qui a lamentarmi? Io ho già visto  la mia città, Ilio, subire il destino che ha subito; e ho visto capovolgersi, per volere divino, la sorte dei suoi conquistatori. Andrò dunque ad affrontare il mio destino.  Le porte dell’Ade sono queste che io saluto.

Corifeo Donna sventurata e sapiente, se davvero conosci la tua sorte, perché, alla maniera di una vittima sacrificale, di tua volontà ti avvii verso l’altare?

Cassandra Non c’è via di scampo, stranieri, il tempo è scaduto. E’ arrivato il mio giorno e a poco mi gioverebbe la fuga. ( Si  avvia verso la reggia, ma subito si ritrae inorridita) Ahi, ahimè!

Corifeo  Perché così ti lamenti? Forse per un senso di ribrezzo?

Cassandra  La casa soffia strage, stilla sangue.

Corifeo  Come?  Questo è odore di offerte che bruciano sugli altari.

Cassandra E’ un fetore simile a quello che emana da una tomba. Ma io vado. Basta con la vita!

 

Ma la tragedia greca non ci presenta solo donne ribelli e perciò “cattive”. Molte eroine – euripidee, soprattutto – sono donne “esemplari”, almeno dal punto di vista maschile ( dei Greci antichi, s’intende …) E’ il caso di Alcesti, che accetta di morire al posto del marito, o  di Macaria, che muore volontariamente per salvare la sua patria dall’invasione nemica, o di Ifigenia, che decide di sacrificarsi per consentire alle navi achee una fausta partenza per la guerra di Troia : per affermarsi, per “esistere” – almeno agli occhi di coloro che amano – non hanno altra scelta che l’autodistruzione.

Euripide, Ifigenia in Aulide vv. 1368-1400 ( D )

Ifigenia: Madre, ascoltate le mie riflessioni! Inutilmente ti vedo adirata contro tuo marito: ma non è facile per noi opporci all’impossibile. Per quanto riguarda lo straniero, è giusto ringraziarlo per la sua disponibilità: ma bisogna che tu prenda in considerazione anche questo, che non sia screditato davanti all’esercito. Noi non ne trarremmo alcun vantaggio ed egli potrebbe invece incorrere in qualche sventura. Senti piuttosto ciò che , dopo lunga riflessione, mi è venuto in mente. Ho deciso di morire: voglio farlo con nobiltà, respingendo ogni sospetto di viltà. Rifletti insieme a me, madre, e vedrai che ho ragione: a me ora rivolge lo sguardo tutta quanta la Grecia, e da me dipendono la partenza delle navi e la sconfitta dei Frigi; perché non si permetta più ai barbari – qualora ne abbiano ancora la velleità -di rapire, in futuro, le donne dalla felice Ellade, e si faccia loro pagare il fio del rapimento di Elena. Tutto questo io potrò garantire, morendo, e guadagnerò la gloria di avere salvato la Grecia. Perciò non devo amare troppo la vita: per il bene comune di tutti i Greci  mi hai generato, non per me sola. Migliaia di uomini armati di scudi, migliaia di marinai che già impugnano i remi, poiché la patria è stata oltraggiata, avranno il coraggio di combattere con i nemici e di morire per la Grecia … e la mia  vita, la vita di una sola persona dovrebbe impedire tutto ciò? Ne avrei il diritto? Quale ragione avrei da opporre? E poi passiamo a un’altra questione: non è giusto che costui  scenda in guerra con tutti gli Argivi, né che muoia a causa di una  donna. E’ preferibile che veda la luce un solo uomo, piuttosto che mille donne. E se Artemide vuole prendere il mio corpo, io, essere mortale, potrò impedirlo a una dea? No, non è possibile: io dò il mio corpo all’Ellade. Sacrificatelo, distruggete Troia. Questo sarà il mio monumento funebre che vivrà a lungo, questi i miei figli, e le mie nozze e la mia gloria. E’ naturale, madre, che i Greci comandino sui barbari, e non i barbari sui Greci: quelli sono schiavi, questi sono uomini liberi.

Ma anche quando si comportano da mogli devote e indulgenti di fronte all’infedeltà del coniuge – come Deianira, protagonista de Le Trachinie di Sofocle – le loro azioni sortiscono effetti catastrofici.

 

 

 

Deianira vuole riconquistare   l’amore di suo marito, Eracle, che si è invaghito della giovanissima Iole, e gli regala una tunica imbevuta di  quello che lei crede un filtro d’amore. Si tratta, invece, di un potente veleno, che provoca la morte atroce dell’eroe. Alla sfortunata e mite eroina –  Deianira è una sorta di anti-Medea – non rimane, infine, che il suicidio.

Sofocle, Trachinie, sintesi dei seguenti brani: vv.1-48; 436- 467; 531- 585; 663- 722   (1 D)

Deianira: C’è un proverbio, da tempo immemorabile diffuso tra gli uomini: non si può giudicare felice o triste la vita di un essere umano, se non quando essa si sia già conclusa. Io, invece, anche prima di scendere nell’Ade, so perfettamente di avere vissuto, e di continuare a vivere, una vita infelice e piena d’angoscia: quando abitavo ancora nella casa di mio padre, le mie nozze furono per me motivo di ansia e di paura: i miei pretendenti erano mostri terrificanti. E io, disperata, mi auguravo di morire. Infine, con mia grande gioia, venne lui, l’eroe, il glorioso figlio di Zeus e di Alcmena. Si è battuto per me, mi ho salvata. In che modo si sia svolta la lotta, non saprei dirlo. Non lo so. Io, infatti, ero paralizzata dal terrore che la mia bellezza diventasse causa della mia rovina. Alla fine, per volere di Zeus, lo scontro ebbe un esito felice, se di felicità si può parlare. Sì, divenni la sposa di Eracle. Generammo dei figli. Ma egli è come un agricoltore che ha acquistato un campo fuorimano, e va a vederlo solo quando semina e quando raccoglie. Questo è il suo destino: tornare a casa per ripartire subito, senza sosta, al servizio di un altro. E io mi struggo nell’ansia e nella tristezza.

L. Finalmente Deianira riceve la “lieta” notizia: Eracle sta per tornare, dopo avere conquistato una città, Ecalia, a causa dell’ardente passione suscitata in lui da  Iole, la figlia del re sconfitto. Torna carico di un ricco bottino e di numerosi prigionieri, tra i quali si trova la ragazza bramata. Quando apprende la verità, Deianira, sebbene sconvolta, reagisce con mitezza:

Deianira:No, per il tonante Zeus, non nascondermi la verità! Non ti rivolgerai a una donna vendicativa, che non conosce il comportamento degli uomini: essi, per natura, non riescono ad accontentarsi sempre di ciò che hanno a disposizione; e sarebbe stolto combattere contro Eros, che domina persino sugli dei. Sarei pazza, se rimproverassi mio marito, o questa ragazza, che è partecipe di  qualcosa che non è vergognoso  per lei, né offensivo per me. Eracle si è unito con moltissime altre donne, e mai, nessuna di loro ha ricevuto da me una parola cattiva né un insulto. E nemmeno costei, neanche se Eracle si consumasse d’amore per lei. Io l’ho vista e ne ho provato grandissima pietà: la sua bellezza le ha distrutto la vita. Senza volerlo ha provocato la rovina e la devastazione della sua patria. Ma il flusso degli eventi segua pure il suo corso.

L. Malgrado i suoi propositi di paziente rassegnazione, Deianira  soffre atrocemente e si tortura, nel tentativo di trovare un espediente che le permetta i riconquistare l’amore del marito infedele:

Deianira: Ho accolto in casa una vergine – no, non lo è più, credo – come un marinaio prende sulla sua nave un carico funesto, mercanzia mortale per il mio cuore. E ora saremo in due ad attendere sotto la stessa coperta l’amplesso di Eracle. Questo è il contraccambio che Eracle, colui che da me era chiamato sposo buono e fedele, mi rende in cambio della mia lunga attesa. Io non riesco ad adirarmi con lui, che troppo spesso si ammala di questa malattia; ma convivere con un’altra, condividendo il letto coniugale, quale donna lo sopporterebbe? Vedo in lei risplendere la giovinezza, che in me sta ormai sfiorendo. Gli occhi maschili amano cogliere il fiore dell’età giovanile, ma rifuggono da una bellezza che volge al tramonto. Ecco dunque che cosa temo: che Eracle sia mio sposo solo di nome, ma che in realtà sia marito di costei, che è più giovane.

L. Ma Deianira, moglie devota e sottomessa, donna mite e piena di umanità, non ha in mente propositi vendicativi e sanguinari …

Deianira: Io non vorrei mai conoscere né apprendere perfide audacie, anzi detesto le donne che osano attuarle. Vorrei solo prevalere su questa giovane con filtri e incantesimi per riconquistare l’amore di Eracle.

L. Il presunto filtro d’amore di cui Deianira dispone è il sangue del centauro Nesso, che era stato trafitto e ucciso da Eracle, molti anni prima, perché aveva tentato di abusare di Deianira mentre la traghettava attraverso un fiume vorticoso. In punto di morte, il centauro aveva convinto la giovane a raccogliere e conservare il suo sangue che – a suo dire – era un potente talismano d’amore. In perfetta buona fede, la donna vi fa ricorso: ma l’esito del suo tentativo è catastrofico. Troppo tardi la poveretta si accorge dell’inganno:

Deianira: Poco fa, nel segreto della mia casa, ho unto la tunica con un bioccolo di lana e l’ho riposta, ben piegata, all’interno di uno scrigno, al riparo dal sole: è il mio dono per Eracle … ed ecco, rientrando in casa, osservo un fatto incomprensibile per una mente umana. Casualmente, avevo gettato il bioccolo con il quale avevo unto la tunica in  un luogo esposto ai raggi del sole. Ed esso, non appena ne fu riscaldato, si disgregò tutto e divenne polvere, in tutto simile alla segatura che puoi vedere quando si taglia il legno. E dalla terra, dove giaceva, ribolliva una schiuma a grumi, come quando si versa al suolo, dalla vite di Bacco, il denso succo del  grappolo glauco. E io sventurata non so che cosa pensare: mi accorgo di avere compiuto un’azione tremenda, Perché mai  quell’essere ferino, morendo, avrebbe dovuto provare benevolenza verso di me, che ero causa della sua morte? No, non è possibile; ma, volendo annientare chi l’aveva colpito, ha ingannato me: troppo tardi, quando non c’è più rimedio, me ne rendo conto. Io sola, dunque, io disgraziata – se le mie congetture sono vere – sarò responsabile della sua morte. Comunque, ho deciso: se egli morirà, morirò anch’io insieme a lui: vivere nel disonore è intollerabile, per chi tiene soprattutto al suo buon nome.

 

 

Lettore: Insomma, sembra di poter concludere, in una società che discrimina così pesantemente le donne, non occorre che una moglie tradita sia una maga crudele e vendicativa come Medea per provocare l’altrui e la propria rovina. Anche la più mite e animata dalle migliori intenzioni può diventare causa di una catastrofe. Può reggersi uno stato fondato sull’emarginazione e sulla disuguaglianza? O non finisce piuttosto, inevitabilmente, per auto-distruggersi? La democrazia ateniese è stato un esperimento unico nella storia dell’antichità, per molti aspetti mirabile. Ma non perfetto. I tragici ne analizzano con estrema lucidità i limiti e le contraddizioni, ne evidenziano i problemi. Uno dei problemi più rilevanti è, appunto, il rapporto tra le donne e la polis, cioè lo stato. Alla donna, nell’antica Grecia, è precluso lo spazio esterno, l’agorà, il mondo della politica, della guerra, degli affari. La donna è relegata nello spazio chiuso della casa. L’amore, gli affetti familiari costituiscono il suo orizzonte interiore. Forse, però, proprio per questa sua esclusione dalla sfera pubblica, a volte la donna si fa portavoce di istanze più profonde e universali, quelle che Sofocle definisce “ le leggi non scritte”, la cui violazione non comporta sanzioni penali, bensì disonore, disapprovazione unanime e, a lungo andare, rovina. Ne è un esempio Antigone di Sofocle, che sfida il divieto dello stratego Creonte per dare sepoltura al fratello- traditore della patria.

Sofocle, Antigone, vv. 441-526  ( 1 U, 1 D + corifeo o corifea)

Creonte: A te  parlo, che a terra chini il viso.

Ammetti o neghi: hai tu commesso il fatto?

Antigone: Ammetto: l’ho commesso e non lo nego.

Creonte: Su, dimmi in breve, ed in poche parole:

sapevi tu che era proibito donare sepoltura a quel cadavere?

Antigone: Sì, lo sapevo. Come avrei potuto

ignorarlo?  Il tuo bando è di pubblico dominio.

Creonte : e nonostante questo, tu hai  osato

calpestare le leggi, le mie leggi?

Antigone: Ma non è stato Zeus a proclamarle,

né la Giustizia  che abita sotterra

ha imposto mai simili leggi agli uomini.

Né io credevo che i tuoi editti avessero

tanta forza da spingere un mortale

a violare le leggi degli dei

immutabili, sacre, che da sempre

– non da oggi o da ieri – eterne vigono

e nessuno saprebbe dir da quanto

siano in vigore, né in che tempo apparvero.

Io non potevo certo, per timore

della tua tracotanza – sei un mortale! –

verso gli dei rendermi colpevole:

sapevo, certo, di dover morire

anche senza il tuo bando – come no?-

Morir  prima del tempo stabilito

è un guadagno per me: quando si  vive

tra le sventure, come me,  la morte

non è forse un guadagno?

Né un simile destino

è un dolore, per me. Ma se insepolto

io avessi lasciato mio fratello,

nato da quella che mi ha generato,

di questo sì mi addolorerei;

non soffro certo per le tue minacce.

E se per caso ora ti sembro folle,

forse un pazzo mi accusa di follia.

Corifeo: L’indole cruda di questa fanciulla

figlia di un padre crudo la rivela:

è incapace di cedere ai suoi mali.

Creonte: Ma sappi che i caratteri orgogliosi

assai spesso più degli altri crollano

e che , cotto e temprato dalla fiamma,

puoi vedere spezzato ed in frantumi

anche il ferro più rigido; e so bene

che anche i cavalli più focosi, spesso,

con un piccolo morso son domati:

perché non è possibile che sia

troppo superbo chi è soggetto ad altri.

Costei, allora, era ben consapevole

di commettere un gesto tracotante

calpestando le leggi  stabilite.

E poi, dopo la prima trasgressione,

ecco in aggiunta la seconda colpa:

l’orgoglio di vantarsene e gioirne.

Ma se resta impunita la sua audacia

io non sono più un uomo. L’uomo è lei.

Ma sia pur figlia di una mia sorella,

ed a me consanguinea anche più stretta

di Zeus, della mia stirpe protettore,

non potrà mai sfuggire alla condanna

più grave, né lei né sua sorella,

complice,certo, del seppellimento.

Chiamatela: l’ho vista smaniare

là fuori, poco fa, non più padrona

di se stessa. Ma chi trama nell’ombra

azioni delittuose, prima o poi

si smaschera da sé, è inevitabile.

Ma io odio soprattutto chi,

colto in flagranza di reato, osa

addirittura gloriarsi della colpa.

Antigone: Sono nelle tue mani. Vuoi qualcosa

di più che darmi morte?

Creonte: No, mi basta questo.

Antigone: Perché indugi allora?

A me nessuna delle tue parole

riesce gradita, né giammai lo possa;

e così pure a te sono sgradite

le mie parole, per natura. Certo,

che cosa mai poteva darmi

maggior gloria che porre nella tomba

il mio caro fratello? Anche costoro

mi approverebbero, se il timore a tutti

non serrasse la lingua.

Ma, fra gli altri vantaggi, la tirannide

anche questo possiede, che le è lecito

parlare e agire come vuole.

Creonte: Tu sola pensi questo, tra i Cadmei.

Antigone: Anche loro lo pensano, ma tacciono,

per timore  e riguardo verso te.

Creonte: E tu non ti vergogni di esser l’unica

a pensarla così, sola tra tutti?

Antigone: Non è  vergogna, no,  rendere  onore,

come è giusto, a chi è nato dalle stesse viscere.

Creonte: Non era, dunque, tuo fratello, l’altro

che è morto combattendo contro lui?

Antigone : Fratello, nato dalla stessa madre

e dal padre medesimo.

Creonte: Perché, dunque, rendi all’uno un onore empio per l’altro?

Antigone: No, non ti approverebbe il morto Eteocle.

Creonte: Sì, se gli rendi onore in modo uguale

a colui che ha tradito la sua terra.

Antigone: Non uno schiavo,  mio fratello è morto!

Creonte: … devastando la patria. L’altro, invece, lottando in sua difesa.

Antigone: Eppure riti uguali esige l’Ade.

Creonte: Ma  nell’ottenerli  il virtuoso non è pari all’empio.

Antigone: Chissà se anche laggiù sono in vigore questi principi.

Creonte: No di certo, nemmeno quando muore

il nemico può diventare amico.

Antigone: Non per odiare, per amare io nacqui.

Creonte: Dunque, se devi amare, va’ ad amare i morti, sotto terra : finché vivo

non sarà mai una donna a comandare.

L. Creonte non è un malvagio (se lo fosse, non ci sarebbe tragedia): è un uomo che ha assolutizzato la “ragion di stato” e ignora tutto il resto, non solo le “leggi non scritte”, ma gli affetti familiari, i legami di sangue, i sentimenti del figlio. Questa sua unilateralità lo porterà all’annientamento: continuerà a vivere, ma, privato di quegli affetti troppo a lungo sottovalutati, sarà ridotto a un “nulla”. Se la coscienza morale di una giovane donna evidenzia i limiti della “ragion politica” e ridimensiona l’importanza dello stato, quello che viene totalmente smantellato è uno dei miti più cari all’uomo antico: il mito della gloria guerriera. Nelle tragedie euripidee la guerra viene presentata in tutta la sua disumana brutalità, negli effetti devastanti che provoca nelle sue vittime principali, che sono le donne, i bambini, gli anziani.

Questo è il lamento della vecchia Ecuba sul cadavere di Astianatte,il suo nipotino ucciso dagli Achei vincitori che non potevano consentire al piccolo di diventare, un giorno, un uomo valoroso come suo padre Ettore.

Euripide, Le Troiane, vv. 1156-1250

Ecuba:  Deponete a terra lo scudo rotondo di Ettore, vista dolorosa e tremenda ai miei occhi.

Achei, che avete le lance più grandi  del senno e ne andate fieri, perché mai, per paura di questo bimbo, avete compiuto un delitto inaudito? Temevate forse che egli, un giorno, potesse ricostruire Troia, che è stata abbattuta? Non poté salvarla Ettore, quando era vivo e vinceva in battaglia, né un’altra infinita schiera: siamo caduti,  la città è stata presa e i Frigi sterminati. E voi avevate paura di questo bambino! Trovo assurdo il timore, quando è dettato da impulsi irrazionali.

Bimbo amatissimo, quale morte orribile ti ha colto! Se almeno tu fossi caduto in difesa della patria, dopo avere gustato la giovinezza, e le nozze e il potere regale, che rende gli uomini simili agli dei, saresti stato felice, se vi è felicità in questo. Ora invece, dopo avere appena intravisto , nella tua breve vita, o figlio, quei beni che avevi a disposizione, non li hai conosciuti né hai potuto goderne. Sventurato, come miseramente le mura patrie, le torri opera di Febo, ti rasarono via dal capo i riccioli, che tua madre spesso pettinava e copriva di baci: e ora da lì, dalle ossa spezzate, zampilla gorgogliando il sangue,  per non dire cose orrende.   Piccole mani, dolcemente simili alle mani paterne, giacete davanti a me disarticolate e languide. Cara bocca, che pronunciavi  molte infantili vanterie, sei  muta, ora, e hai mentito, quando, gettandoti sul mio letto,  -Nonna- dicevi, -in tuo onore mi taglierò una grande ciocca di riccioli, e alla tua tomba guiderò la schiera dei miei coetanei, rivolgendoti affettuose parole di saluto. Non sei tu a seppellire me, ma io te, io

vecchia, senza più patria, senza più figli, seppellisco il tuo povero corpo di bambino. Addio, carezze infinite, mie tenere cure, e quei tuoi sonni tranquilli … tutto è finito. Che cosa potrà scrivere un giorno un poeta sulla tua tomba? “ Questo bambino l’hanno ucciso gli Argivi per paura”? Che iscrizione infamante, per la Grecia! Ma, dato che non hai potuto raccogliere l’eredità paterna, avrai almeno il suo scudo di bronzo come giaciglio nella tomba. O scudo, che proteggevi il bel braccio di Ettore, hai perduto il tuo valoroso custode. Come  dolcemente, Ettore amato, nell’imbracciatura è rimasta la tua impronta, e, sul suo orlo ben tornito le tracce del tuo sudore, che dalla fronte, spesso, affaticato, lasciavi gocciolare appoggiandoti ad esso con il mento. Portate qualche ornamento per lo sventurato bimbo morto, tra il poco che ancora ci rimane: il destino non ci consente di celebrare esequie fastose. Accetta quello che ho. Tra i mortali è stolto chi credendo di essere felice gioisce della sua condizione come di un bene sicuro: la sorte capricciosa, come un uomo folle, salta ora qua ora là, e mai lo stesso uomo gode sempre di buona fortuna.

L. Le donne sono irriducibili nemiche della guerra. Poco sensibili alla retorica militaresca, esse escogitano l’unico mezzo efficace di lotta contro le smanie belliche dei loro uomini: lo sciopero del sesso. Piegati dalla forzata astinenza, Ateniesi e Spartani alla fine sono costretti a cedere.

(3 U, 1D più una comparsa, la Pace, che dovrebbe essere rappresentata da una bella ragazza nuda)

 

ARISTOFANE                  Lisistrata, vv.1072-1188

 

Corifeo    O allora gli arrivano gli ambasciatori di Sparta: e l’ avanzano trascinando la loro lunga barba, con una specie di gabbia da porcelli intorno alle hosce. O Spartani, prima di tutto, salve! O diteci in quali condizioni vu’ giungete hostì.

Spartano    Ma cchi  v’haiu a spiegari? CChi siti  orbi? No  viditi  comu semu arriddutti?

Corifeo    Ohi , ohi! O cos’è hodesta  malattia che provoha una tremenda irritazione della fava  e la peggiora sempre di più?

Spartano    E’ ‘na cosa ‘ndescrivibili!  Cchi vi pozzu diri?  A qualunqui  prezzu, comu egghiè, quarcunu   na fari fari  paci.

Corifeo   O vedo anche persone del mi paese: e li portano abiti succinti, come lottatori. E’ pare che abbiano  una malattia  da atleti.

Ateniese    Vu sapete dov’è la Lisistrata?  Noi omini, ecco come  s’  è ridotti.

Corifeo   Anche questa malattia è uguale a quell’altra. All’alba non vi prendono le honvulsioni?

Ateniese   Per  la maremma, siamo tutti distrutti!  E se qualcuno non  ci rihoncilia subito subito … ‘un c’è niente da fare: la  vi diho che si va tutti a trombare Clistene!

Corifeo    Se non siete grulli, o rimettetevi il mantello, perché  non vi veda qualhuno di quei  bischeri  che si divertono a mutilare le statue del dio Ermes…

Ateniese O tu dici bene allora!

Spartano    Minchia, veru è! Cummigghiamini subitu!

Ateniese    Salve, Spartani! O che dobbiamo subire  un male vergognoso?

Spartano   (ai suoi ) Amici,  ni casca la facci ‘n terra pa vergogna, si  nni vidunu ‘nti sti condizzioni.

Ateniese    Allora, Spartani! Perché vu’ sete hostì?

Spartano    Vinemu comu ambasciatori ppi negoziari la paci.

Ateniese    Vu dite bene, anche noi. O allora ‘hiamiamo la  Lisistrata, che gli è l’uniha in grado di rihonciliarci.  Ma, a quanto pare, non c’ è bisogno che la ‘hiamiamo. Lei stessa, appena la ci ha sentiti, la sta venendo hostì.

Corifeo  O salute a te, o donna che tu sei la più forte tra tutte. Ora bisogna che tu sia terribile e mite, buona e hattiva, autorevole e amabile, riccha di esperienza: poiché i primi tra i Greci, vinti dalla tua magia, ti cedono il posto e honhordemente rimettono a te tutte le questioni.

Lisistrata   Non gli è un hompito difficile, purchè uno tratti con gente  vogliosa di fare l’amore anziché la guerra. Lo saprò presto. Dov’è la Pace?  ( Appare la Pace, sotto l’aspetto di una bella ragazza nuda)  Va’ a prendere prima gli Spartani, e portali hostì, ma non hon mano dura e orgogliosa né home, stupidamente, hanno fatto i nostri uomini, ma home naturalmente si addice a noi donne, hon garbo e gentilezza. E se non ti danno la mano, afferrali per l’uccello. Va’ poi e porta hostì anche hodesti Ateniesi, e honducili hostì prendendoli … per quella parte che ti presentano. Spartani, state acchanto a me, e voi da quest’altro lato, e intendete le mi  parole. Io sono una donna, ma ho senno. Personalmente non sono messa male, in quanto a intelligenza, e poi, avendo ascoltato molti discorsi di mio padre e degli anziani, non sono male istruita. Dopo avervi hostì radunati, vi voglio rimproverare pubblihamente e hon giustizia: voi, home parenti, attingete acqua da uno stesso hatino e aspergete gli stessi altari, a Olimpia, a Pilo,  a Delfi – quanti altri ne potrei citare, se volessi dilungarmi! – e, mentre i nemici inhombono minacciosi con il loro esercito barbaro, distruggete vite umane e città di Grecia!  Qui si honclude il primo argomento del mio discorso.

Ateniese  ( guardando la Pace) … e io mi sto morendo dalla voglia e dall’eccitazione!

Lisistrata  In quanto a voi, Spartani – ora la mi rivolgerò a voi – vu non sapete che una volta il vostro honcittadino Periclide l’è venuto qui, supplice, a sedersi sui nostri altari, tutto pallido nel suo mantello rosso, a chiedere un esercito che lo aiutasse? A quel tempo inhombevano su di voi  la guerra messeniha e i terremoti. E Cimone venne in vostro socchorso con 4000 opliti  e salvò Sparta. E voi, pur avendo ricevuto hodesto beneficio dagli Ateniesi, devastate la terra di chi vi ha aiutato?

Ateniese Hommettono ingiustizia hostoro, per la maremma!

Spartano  U tortu è nostru,ma … (guardando la Pace) ddu culu, non si può diri quant’ è beddu!

Lisistrata O vu pensate forse  che io  prosciolga da ogni accusa voi Ateniesi? Non vu vi  rihordate che gli Spartani, a loro volta, quando voi portavate abiti servili, vennero in armi  e fecero strage di Tessali e dei seguaci e alleati del tiranno Ippia? O non hombatterono insieme a voi, quel giorno, essi soli ? O non vi liberarono e vi fecero indossare di nuovo il mantello degli uomini liberi?

Spartano  ( sempre guardando la Pace) N’ haiu visto mai  na fimmina cchiù … bona.

Ateniese  Una topa più bella … ti diho che non l’ho mai vista.

Lisistrata Perché,  dunque, dopo tanti benefici reciproci, hontinuate a hombattere tra voi? L’è una vergogna! Perché non vu vi riappacifihate? Che hosa ve lo impedisce?

Spartano ( con gli occhi sempre rivolti alla Pace) Nuatri semu d’accordu, bbasta ca ni tornunu … dda cosa cosa tunna …

Lisistrata   O tu dimmelo: quale, haro?

Spartano Dda purticedda … Pilo. Havi ‘nsacco di tempu  ca ciavemu disidderiu di … trasici..

Ateniese O per Poseidon,vu non lo farete|

Lisistrata  O vellino, lasciatelo a loro!

Ateniese  E noi allora, chi si  va a trombare?

Lisistrata   E  vu chiedete un’altra regione in hambio di questa.

Ateniese (sempre guardando la Pace) Quella, allora, vi diho, restituiteci quella per prima hosa … la ricciolina, cioè Echinunte, e il seno Maliaho … lì dietro, e le gambe di Megara, e l’isola di Skopelos.

Spartano Ma cchi siti pazzi? Ca quali, amicu miu, tu po’ scurdari.

Lisistrata O vien via, lascia perdere, tu vuo’ litigare per un par de gambe?

Ateniese O tu non lo vedi che già son nudo e voglio mettermi a lavorare la terra?

Spartano  E macari iu vogghiu cuncimari u tirrenu  di capu i matina!

Lisistrata  Quando vu avrete smesso di  litihare, vu lo potrete fare. Ma se vu  avete questa intenzione, deliberate e andate a homuniharlo agli alleati.

Ateniese Ohi che tu dici!  Ma che alleati, mia cara? Un tu lo vedi? Noi ce l’abbiamo ritto. Tutti gli alleati  saranno pienamente d’accordo hon noi su questo punto: trombare.

Spartano Sicuru, macari i nostri, ppi tutti gli dei!

Lisistrata Vu dite bene. Ora purifihatevi, perché noi donne vi si possa ricevere sull’ Acropoli  con quel che abbiamo … nelle ceste. Là vi scambierete reciprohamente giuramenti e haranzie di fedeltà. Dopo, ciascuno di voi potrà riprendere la propria donna e andarsene. Su, presto! Mi so’ lasciata intendere?

Spartano Portimi unni voi.

Ateniese Sì, il più presto possibile, per Zeus!

 

La traduzione di tutti i brani è mia. Per quanto riguarda Aristofane, dato che gli Ateniesi si esprimono in attico, e gli Spartani rigorosamente in dorico, per rendere l’idea ho ritenuto opportuno tradurre il primo in dialetto fiorentino       ( padre nobile della lingua italiana, come l’attico lo è del greco) e il secondo in siciliano, in quanto dialetto più “meridionale” e ugualmente nobile, e chissà, forse,  in qualche modo influenzato dal dorico, che nell’antica Sicilia greca era molto diffuso. Per la “risciacquatura dei panni in Arno” mi sono avvalsa della preziosa collaborazione di Rocco Burtone,  di professione stilista e fiorentino d’adozione. A lui va il mio grazie più caloroso.

 

                                                                                                         Orbilia

31-5-2011

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