A proposito del femminicidio

A proposito del femminicidio

Premessa (doverosa): non condivido certa retorica femminista. Le donne non sono per natura più giuste, più democratiche, più pacifiste degli uomini (là dove sono al potere ne hanno dato e continuano a darne ampia dimostrazione). Condivido pienamente quanto affermava G. B. Shaw: la donna non è che la femmina della specie umana, senza specifici fascini e specifiche imbecillità “naturali”. Detto questo, però, bisogna prendere atto della spaventosa diffusione del femminicidio, fenomeno che va analizzato “a freddo”, senza cadere nella trappola della retorica dominante (si condanna la violenza – è ovvio – si celebrano giornate della donna … perché tutto rimanga com’è).
La nostra epoca – epoca di imbarbarimento, di regresso culturale e civile, come sosteneva recentemente Sabina Guzzanti su “Il fatto”- è difficile per tutti, maschi e femmine. Occorrerebbe una seria e approfondita indagine di natura economica e sociale per mettere in luce le radici di questo imbarbarimento (radici che a me, per quanto non esperta di economia, sembrano riconducibili a un processo di ristrutturazione – a livello mondiale – del capitalismo: marginalizzazione di intere aree geografiche, espulsione di masse dal mercato del lavoro, pauperizzazione diffusa, e, per contro, arricchimento smodato di pochi … ). Il modello verso il quale tendiamo, con qualche decennio di ritardo, è quello della società e dell’economia U.S.A., modello a noi notissimo perché onnipresente nel cinema e nelle serie tv. Su di esso e sui suoi risvolti mostruosi si sono versati fiumi di inchiostro. Basterebbe rileggere Marcuse o Anders, i cui testi sono di una attualità sconvolgente, addirittura “profetici” per la nostra società. Il fenomeno più vistoso di questo nostro tempo disumanizzato è la spersonalizzazione, la riduzione degli esseri umani a oggetto, a puro strumento (l’opposto, cioè, di quanto sosteneva Kant, secondo il quale ogni uomo va considerato un fine, e non un mezzo). Se gli uomini – maschi – sono ridotti a cose, a maggior ragione lo sono le donne, storicamente “deboli” e bersaglio di vessazioni millenarie, “oggetti” di proprietà e di scambio da tempo immemorabile.
Le radici culturali dell’oppressione femminile sono antichissime, forse addirittura preistoriche: nel Vecchio Mondo potrebbe esserne un indizio la sostituzione della religione terrestre e “matriarcale” della grande dea madre mediterranea con il pantheon “maschilista” degli dei atmosferici. Potrebbe risalire insomma all’arrivo degli Indoeuropei (o, come diceva Engels, alle origini della famiglia e della proprietà privata … ). Gli antichi Greci e i Latini erano violentemente misogini (1). Ma l’influsso più decisivo, in tempi meno remoti, è quello esercitato dalle grandi religioni monoteistiche, e in particolare, per quanto ci riguarda – scontato l’antifemminismo dell’Islam, peraltro di diffusione recente e ancora limitata qui da noi – dal cristianesimo.
Non mi riferisco, ovviamente, al messaggio di Cristo (rivoluzionario anche in questo campo, tanto più straordinario se si tiene conto del contesto storico in cui viene diffuso), ma alla millenaria “cultura cristiana” elaborata dalla chiesa e trasmessa come dottrina o addirittura come tradizione vincolante per le coscienze dei credenti.
Le radici di tale cultura non sono affatto cristiane: all’origine di esse potrebbe esserci, oltre all’ebraismo, già antifemminista di suo, l’Orfismo, con la sua distinzione tra spirito – elemento divino – e materia, elemento spregevole e inferiore, degno del massimo disprezzo. Il corpo viene considerato “prigione dell’anima”, e quest’ultima, per accedere al contatto con la divinità, deve subire un processo di purificazione dalle impurità del corpo. Sulla stessa scia si collocano il platonismo e il neoplatonismo, che influenzano profondamente il cristianesimo delle origini. Coloro che sono definiti “padri della chiesa” scrivono cose terribili sulle donne ( e sul corpo, e sul sesso, e sul rapporto uomo – donna). Terribili nei confronti delle loro malcapitate compagne sono i comportamenti di personaggi definiti “santi” e proposti come modello ai credenti (vedi, ad esempio, Agostino). Perché la donna è associata al corpo, al sesso, alla materia, e quindi al peccato e all’impurità. Occorre addirittura un concilio per stabilire che anche le donne hanno un’anima. In un mondo dominato dai maschi, unici detentori del diritto di parola (vedi certe esortazioni di S. Paolo) l’idea di sesso e quindi di peccato (2) è associata al corpo femminile (come se i maschi fossero asessuati!) e così pure una serie di caratteristiche psichiche “negative” o almeno potenzialmente pericolose da tenere a freno: l’istinto, il sentimento, l’intuito, tutte – presunte – caratteristiche femminili, in contrapposizione alla razionalità maschile. Perciò le donne vanno tenute sotto tutela e sotto controllo perpetuo: prima il padre, poi il marito sono i tutori naturali della donna, che viene privata di qualsiasi autonomia. (Convinzione assai poco originale, per la verità: già nelle sue Baccanti, sul finire del quinto secolo avanti Cristo, Euripide aveva tracciato un quadro drammatico di questa “marginalizzazione” delle donne, mettendone in rilievo gli effetti catastrofici sulla società nel suo complesso). Poi c’è il Medioevo, con la caccia alle streghe, accusate – è la solita ossessione sessuale! – di avere rapporti carnali con il diavolo (cioè con una entità che, sulla base della dottrina cristiana tradizionale, dovrebbe essere puramente spirituale) e la demonizzazione di quel sapere elaborato dalle donne – escluse dalla cultura ufficiale – e trasmesso di madre in figlia, che verte soprattutto sulla conoscenza di erbe medicamentose e di rimedi naturali: quante donne sono state torturate e bruciate sul rogo nel corso di parecchi secoli, da quelli “oscuri” del Medioevo a quelli, ancora più bui, della “santa” Inquisizione? Ma anche in tempi più recenti, chi, come me, è abbastanza vecchia da avere sperimentato il clima e la mentalità cattolica degli anni Cinquanta, sa bene quale cappa di piombo ideologica opprimesse e mettesse a rischio la vita delle donne. Spesso private del diritto all’istruzione e obbligate a seguire le loro “missione naturale” di madri e mogli – missione, ovviamente, voluta da Dio, o meglio da chi pretendeva di farsene portavoce – le donne credenti, anche se affette da qualche grave patologia che, in caso di gravidanza poteva metterne a rischio la vita, erano obbligate a mettere al mondo tutti i figli che il cielo mandava loro: la contraccezione non era ammessa (non parliamo dell’aborto clandestino, scelta comunque drammatica e spesso ancor più rischiosa). L’unico modo per evitare una gravidanza a rischio era la rinuncia ai rapporti sessuali … ma anche questo era discutibile: una moglie virtuosa non poteva rifiutare a lungo di compiere il dovere coniugale. Avrebbe esposto il marito alla grave tentazione del sesso mercenario. Insomma, per una cattolica il matrimonio e la maternità erano un rischio mortale. Quanti femminicidi sono stati provocati da questa (pseudo)morale? Femminicidi nascosti, spesso esaltati come ideale di santità. Viene in mente l’invettiva di Cristo contro gli scribi e i farisei: ipocriti, sepolcri imbiancati, caricano sulle spalle altrui pesi insostenibili, che loro non sfiorerebbero nemmeno con un dito … o, più laicamente, il vecchio buon Lucrezio: “Tantum religio potuit suadere malorum!”
E perché, poi, la missione di un essere umano dovrebbe coincidere con la sua funzione riproduttrice? Di un uomo non si dice che la sua missione è la paternità (eppure la figura paterna è importante quanto quella materna, per un bambino). Perché mai un uomo – un maschio – dovrebbe poter decidere da sé qual è lo scopo della sua vita, mentre una donna dovrebbe accettare che siano altri a stabilirlo – magari a nome di Dio – ? E quanta ambiguità nel culto della Madonna – caricato del peggiore sentimentalismo e della più becera retorica “mammista”! Quanta distanza dalla sobrietà dei Vangeli!
Le madonne, del resto, cioè le madri – figure idealizzate che hanno sublimato ogni tratto sessuale – non sono che l’altra faccia delle donne perdute, delle peccatrici, pericolose tentazioni che rovinano gli uomini. A ragione uno slogan femminista degli anni Settanta – oggi, purtroppo, dimenticato – proclamava: né puttane, né madonne, ma solo donne. Perché la polarità donna perbene, cioè madre da una parte, e prostituta, o donna “facile”, comunque “preda” dall’altra, sta proprio alle radici del femminicidio. Un uomo, di solito – a meno che non sia affetto da turbe psichiche – non rivolge la sua violenza contro la madre, bensì contro le altre donne. Le quali, si badi bene, non sono mai bambine da proteggere o da aiutare a crescere. Nascono donne, oggetto sessuale fin dalla più tenera età, da giudicare o da predare: come dimenticare le parole di quel commissario di polizia, che giudicava “di dubbia moralità” la piccola Ottavia Di Luise, caduta vittima di un gruppo di pedofili e assassinata, circa un trentennio fa? Il suo corpo non è mai stato ritrovato – forse perché le ricerche sono state frettolose e superficiali.- Del resto, perché preoccuparsene troppo? Era “poco seria”. Che importa se era una bambina di soli dodici anni?
Ma la violenza contro le donne ha radici molteplici e complesse, certo non solo di origine religiosa. Una delle radici più antiche è costituita da motivazioni economico – sociali. Le donne andavano tenute sotto stretto controllo perché non si poteva rischiare di trasmettere l’eredità familiare a figli illegittimi. Le donne diventavano proprietà della famiglia del marito, oggetto di scambio tra famiglie, tribù, clan … A loro era strettamente legata l’idea del possesso; idea che ancora oggi è spesso tra le cause scatenanti del femminicidio. Certo, oggi l’idea del possesso ha manifestazioni e motivazioni diverse da quelle del passato: una maggiore fragilità degli uomini, incapaci di sopportare un frustrazione grave, una separazione o un divorzio, ( il femminicidio, spesso, è seguito dal suicidio del maschio abbandonato) oppure la perdita del lavoro e le difficoltà economiche (e in questo caso l’uomo non arriva a uccidere, si limita a picchiare la malcapitata compagna, facile valvola di sfogo e capro espiatorio dei problemi altrui). Ma la violenza peggiore, la più mostruosa, è quella che nasce dalla smania di possesso tout court, che non ha alcuna motivazione passionale: è brama di dominio pura e semplice. La donna è un oggetto usa e getta Fin troppo scontato ricordare il mondo della pubblicità, che fa del corpo femminile un oggetto di consumo. E che dire degli effetti devastanti, a livello educativo e di costume, del ventennio berlusconiano? Per farsi strada nella vita bisogna vendersi … ai miei tempi padri e fratelli della ragazza violentata o sedotta uccidevano il violentatore. Oggi sono i padri e le madri ad accompagnare le figlie a casa del potente di turno (non so che cosa sia più raccapricciante, se il delitto d’onore o la trasformazione dei genitori in magnaccia della propria figlia … )
Che fare? Intervenire con provvedimenti legislativi adeguati, certo; assicurare protezione alle donne perseguitate, non lasciarle sole. Mandare a casa – congedati con disonore – i rappresentanti delle istituzioni che colpevolizzano le vittime (come il commissario che indagava sull’assassinio della piccola Di Luise; i giudici che hanno considerato circostanza attenuante per i violentatori l’handicap mentale di una ragazza stuprata; quegli altri magistrati che hanno considerato consenziente alla violenza di un gruppo di militari la ragazza che è stata abbandonata, seminuda e morente, sulla neve fuori di una discoteca … salvata in extremis, ma con quali conseguenze?). E poi smetterla con l’eccesso di garantismo e di buonismo. Chi si macchia di delitti così atroci deve scontare per intero la sua pena. L’Italia è forse l’unico paese al mondo in cui non c’è alcuna certezza della pena. E contro i colpevoli del terzo tipo di violenza, quella più brutale e selvaggia, non ammettere mai sconti di pena e benefici per buona condotta. Se il fascista Izzo, l’assassino del Circeo, non fosse stato rimesso in libertà, oggi due altre donne – una quattordicenne e la sua mamma – sarebbero ancora vive. Bisogna mettere personaggi del genere in prigione e buttare via la chiave. Per sempre. Se si pentono e si redimono, buon per loro: se la vedano col buon Dio. Ma non si possono lasciare liberi di commettere altri delitti efferati.
Ma tutto ciò non basta. La via legislativa e giudiziaria è insufficiente. Occorre una profonda rivoluzione culturale. Ma chi dovrebbe attuarla? La scuola, naturalmente. Come sempre. Una scuola sempre più tagliata e devastata da riforme insensate. Si potrebbe magari introdurre, come materia obbligatoria, l’addestramento delle ragazze all’autodifesa. Ma la scuola non basta. Deve essere tutta la società a promuovere un profondo cambiamento di mentalità e di costumi. E intanto? Le rivoluzioni culturali esigono tempi lunghi, decenni. Quante altre donne devono morire, in attesa di questo cambiamento? E come sperare che questo cambiamento sia possibile, all’interno di un sistema che considera ogni essere umano, e le donne in particolare, come pura merce? Insomma, dobbiamo reagire in qualche modo, con l’ottimismo della volontà (e il pessimismo della ragione). Ma senza eccessive illusioni. La violenza contro le donne non è che un aspetto della più generale violenza insita nella nostra società.
Lucia Cutuli
Note: (1) Vedi recital su “I Greci e le donne”
(2) L’atteggiamento negativo della Chiesa cattolica – spiegabile come fenomeno storicamente influenzato da filosofie pagane – è però difficilmente conciliabile con la dottrina dell’Incarnazione: come si può disprezzare il corpo, la materia ecc. se si crede che Dio ha voluto incarnarsi in un corpo di uomo? E in che cosa consiste la Buona Novella, se non nell’annuncio della salvezza – e della resurrezione – non di puri spiriti, ma di esseri umani nella loro integralità, e della natura intera ?

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