UPGC A proposito del teatro comico dell’antica Grecia

Al primo approccio, la commedia greca antica – quella di Aristofane, per intenderci: è lui l’unico autore a noi noto – colpisce lo spettatore/lettore per una serie di motivi: In primo luogo, per l’oscenità e la crudezza del linguaggio e le continue allusione alle parti basse dell’anatomia umana, e alle loro funzioni; per la maggiore libertà compositiva di cui gode l’autore comico rispetto a quello tragico, per la scarsa organicità della trama in confronto a quella della tragedia; infine per la disinvolta violenza degli attacchi contro i personaggi più in vista della politica e della cultura (tanto che, a volte, quando si tratta di personaggi a noi poco noti, non sempre ci riesce facile capire le allusioni e le battute), e per l’irriverenza persino verso gli dei.
Questi caratteri, a prima vista “strani” diventano comprensibili se prendiamo in considerazione le origini della commedia e la funzione che essa svolgeva nella polis.
Come apprendiamo da Aristotele (Poetica IV) la commedia era nata dalle processioni falliche (falloforie) e dai riti in onore di Dioniso: dal κω̃μος (l’allegra baldoria delle feste dionisiache) deriverebbe il nome della commedia stessa. Della processione possiamo avere un’idea precisa perché, negli Acarnesi, una delle più antiche commedia di Aristofane a noi giunte, il protagonista, Diceopoli, per festeggiare la pace da lui privatamente stipulata con Sparta, ne organizza una di tipo familiare : precede sua figlia in funzione di canefora, cioè di colei che porta il cesto con le primizie da offrire al dio; seguono due schiavi, che reggono un enorme fallo (raffigurazione del sesso maschile, simbolo di fecondità e prosperità). Chiude il corteo lo stesso Diceopoli, in qualità di sacerdote, con una pentola in mano, mentre sua moglie funge da pubblico, affacciata dalla terrazza. Ed ecco l’invocazione che Diceopoli, dopo avere intimato il silenzio rituale, rivolge al dio: “O Dioniso mio signore, ti sia gradita questa processione che io, con i miei, conduco in tuo onore dopo aver sacrificato, celebrando felicemente le Dionisie agresti … O Fales (personificazione della potenza generatrice della natura, dio compagno di Dioniso), amico di Bacco e suo compagno di bagordi, nottambulo adultero e amatore di bei ragazzi, dopo cinque anni, tornando felicemente al mio villaggio, ti saluto, dopo avere stipulato per mio conto una tregua, ed essermi liberato dai guai, dalle battaglie e dai Lamachi (Lamaco era un famoso generale sbeffeggiato da Aristofane). Certo, è molto più piacevole, incontrando la procace schiava di Strimodoro che torna, con un fascio di legna rubata, dalla cava, sollevarla prendendola per la vita, gettarla a terra e … farsela! O Fales, o Fales, vieni a bere con noi, e, dopo la baldoria, all’alba, berrai una coppa di pace; e lo scudo resterà appeso al focolare”.
Come si può notare, la concezione dell’osceno dei moderni è distante migliaia di anni luce da quella degli antichi: Fales, la personificazione del fallo, è un dio. E tutto ciò che riguarda la sfera del sesso, e il corpo umano “dalla cintola in giù” con il comico, che ad esso è associato, è sacro e fa parte di un rituale religioso.
Che il sesso e il riso derivante dal riferimento ad esso abbiano funzioni propiziatorie è convinzione antichissima di tutti i popoli, presso tutte le latitudini, come ci attestano l’archeologia, il mito e il folclore: basta visitare un museo, nella sezione preistorica: si noteranno, nelle tombe (almeno dal neolitico in poi) in mezzo al corredo funebre del defunto, degli oggetti fittili che le guide, pudicamente, definiscono “cornetti”, spesso associati a uno strato di ocra rossa sparso sui resti: sono gli antenati dei nostri cornetti rossi contro il malocchio, e simboleggiano la vita e la rinascita dopo la morte(c’è bisogno di ricordare che non si tratta proprio di cornetti?.. O che i cornetti simboleggiano altro?). I popoli italici – e i Latini – in occasione di certe feste della fecondità, avevano l’usanza di fare l’amore nei campi appena seminati. E la fiaba russa di Nesmejana, la principessa che non sorrideva provocando il declino del suo popolo, ribadisce il legame tra fecondità – benessere – sorriso – sesso. Nel mito greco, Demetra, afflitta per il rapimento della figlia, non ride più: e la terra è preda di un perpetuo inverno, sterile e triste. E allora è la vecchia Baube a risolvere la situazione: si alza le vesti in un comico movimento di danza, mostrando quelle parti del corpo che di solito restano nascoste. Demetra scoppia a ridere: e il sole torna a brillare sulla terra, e ricomincia il ciclo della vita. I soldati romani, mentre seguivano il loro generale nella cerimonia solenne del trionfo, lo facevano oggetto di beffe salaci (“ Ecco, ora trionfa Cesare, che sottomise le Gallie; ma non trionfa Nicomede, che “sottomise” Cesare”). Come si può notare, noi moderni , con i nostri cornetti portafortuna e certi gesti “volgari” contro la sfortuna, siamo lontani dai nostri remoti antenati solo in apparenza …
Associato al linguaggio scurrile è l’attacco, spesso pesante, contro i personaggi più in vista nel campo della politica e della cultura. Se il poeta tragico Euripide, il politico Cleone e il filosofo Socrate sono i bersagli preferiti del sarcasmo di Aristofane, non bisogna però dimenticare una folla di personaggi minori della cronaca cittadina del V secolo, sbeffeggiati per le loro disonestà, per i loro difetti, per i loro comportamenti sessuali … la commedia antica, insomma, è all’origine della satira politica, per sua natura rivolta contro chi sta al potere o comunque in una posizione di prestigio.
Anche per questo aspetto può essere illuminante la notizia – sempre riferita da Aristotele nella sua Poetica,- la quale, purtroppo, è molto lacunosa proprio nella parte dedicata alla poesia comica – , che i Dori rivendicavano l’invenzione della commedia: essa sarebbe stata etimologicamente connessa non al Komos, cioè alla festa e alla baldoria dionisiache, ma a κώμη, villaggio, e in particolare all’usanza dei contadini e di coloro in genere che erano scontenti per avere subito prepotenze e torti dai potenti (o degli attori comici, disprezzati in città), di andare in giro per i villaggi di campagna, travestiti e con il viso imbrattato di feccia per non essere riconosciuti, denunciando i soprusi e le ingiustizie di cui erano stati vittime e beffeggiando i potenti. Certamente, anche se l’etimologia più corretta (per Aristotele come per noi) è quella che fa derivare “commedia” da κω̃μος, bisogna ipotizzare, per questo genere teatrale, un’origine composita, costituita da vari apporti: tra questi, un ruolo molto rilevante ebbe quello dei “comici” siciliani, come Epicarmo, e altri di cui non conosciamo che il nome. In origine la commedia doveva essere costituita dai cori delle feste dionisiache che indossavano bizzarri costumi a volte animaleschi, con buffe imbottiture sul sedere e sulla pancia, e con falli finti di dimensioni spropositate. Da rozzi primitivi contrasti tra semicori ebbero origine gli agoni, e, probabilmente, le parti dei singoli attori. Anche la tragedia , che, come genere “teatrale” ufficiale è più antica della commedia ( l’introduzione dei concorsi comici nelle feste dionisiache avvenne nel 486 a. C., circa 50 anni dopo l’istituzione degli agoni tragici) influì in modo rilevante su quest’ultima. I vari episodi – che, però, erano meno “costruiti” di quelli tragici, più liberi, meno legati gli uni agli altri, sono senz’altro dei “prestiti” del dramma serio, come pure l’alternanza tra parti corali e recitazione, l’introduzione del prologo e della parodo, la caratterizzazione linguistica, cioè l’attico dei personaggi e il dorico dei cori …)
Ma anche la poesia giambica del VII-VI secolo a. C. (Archiloco e Ipponatte) con la virulenza dei suoi attacchi personali, con la sua estrema libertà di linguaggio, che varia dal registro elevato a quello basso e scurrile, con la sua disinvoltura nei discorsi di argomento sessuale, può avere contribuito in misura significativa alla nascita della commedia. Così pure il teatro siceliota nelle sue varie forme, e in particolar modo quello del megarese Epicarmo. Ma il dramma antico – sia quello tragico che quello comico – come fatto artistico rilevante è un fenomeno essenzialmente ateniese: forse perché ad Atene in modo più consapevole che altrove l’ascesa del demos fu legata ad una profonda rivoluzione culturale che produsse risultati straordinari in tutti i campi. Il teatro è legato strettamente alla polis (e Atene è la polis per eccellenza…) e infatti vive in simbiosi con essa e muore insieme ad essa (o le sopravvive di poco). Il teatro non è evasione o spettacolo: è rito e fatto politico. E’ uno dei momenti fondanti l’identità del popolo ateniese. La tragedia ha la funzione di rimettere in discussione il passato storico – mitico (che per gli antichi coincidono) e la cultura aristocratica che i Greci di età classica hanno ereditato dai loro padri. Il conflitto tra vecchio e nuovo codice etico, e tutte le lacerazioni ad esso legate, rendono la vita dell’uomo un enigma segnato dal dolore e dalla sconfitta. La commedia, all’opposto, ha la funzione di suscitare il riso, mediante la parodia e la deformazione caricaturale di tutti quegli eccessi, quei comportamenti, quelle scelte personali e politiche che portano la città alla rovina. Questo, in una sintesi essenziale anche se riduttiva, è il senso e la funzione del teatro classico. Non a caso, la tragedia muore con Euripide e Sofocle, alla vigilia della caduta di Atene (404). La commedia ha una vita più lunga: quella Antica (Arkhaia), a noi nota esclusivamente attraverso le undici commedie di Aristofane a noi pervenute(ma i commediografi attivi ad Atene erano almeno una quarantina), fondata sulla satira politica e culturale, vive, come la tragedia, fino alla fine del V secolo (ma già le ultime commedia aristofanesche, come ad esempio le Ecclesiazuse e il Pluto, che è l’ultima, sono “diverse”); quella di mezzo (Mese) di cui non possediamo nulla, era basata soprattutto – pare – sulla parodia mitologica (del resto era stata emanata una legge che vietava di “onomastì komodein”, cioè di rivolgere beffe pesanti verso persone indicate per nome): la sua “vita” si estende dal 400 circa al 330 a. C.; e infine la Commedia Nuova (Nea), il cui massimo esponente è Menandro ( a noi noto perché ci sono pervenute alcune sue commedie quasi per intero e larghi frammenti di altre) con il quale la commedia vive una nuova stagione fortunata (fino al 260) per essere poi trasmessa ai Latini Plauto e Terenzio. Ma la commedia di Menandro è tutt’altra cosa rispetto a quella di Aristofane: castigata nel linguaggio e nelle situazioni, dramma borghese di individui, fondata su peripezie, riconoscimenti, equivoci, problemi nei rapporti di coppia e familiari, estranea alla politica, assai poco comica (la polis, del resto, è morta: prima Filippo e poi Alessandro, infine i Diadochi l’hanno sepolta, instaurando la monarchia), essa è diventata ormai spettacolo di intrattenimento, cessando di essere rito religioso e politico.
Lucia Cutuli

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