Lisistrata fiorentina

ARISTOFANE Lisistrata, vv.1072-1188

Corifeo O allora gli arrivano gli ambasciatori di Sparta: e l’avanzano trascinando la loro lunga barba, con una specie di gabbia da porcelli intorno alle hosce. O Spartani, prima di tutto, salve! O diteci in quali condizioni vu’ giungete hostì.
Spartano Ma cchi v’haiu a spiegari? CChi siti orbi? No viditi comu semu arriddutti?
Corifeo Ohi, ohi! O cos’è hodesta malattia che provoha una tremenda irritazione della fava e la peggiora sempre di più?
Spartano È ‘na cosa ‘ndescrivibili! Cchi vi pozzu diri? A qualunqui prezzu, comu egghiè, quarcunu na fari fari paci.
Corifeo O vedo anche persone del mi paese: e li portano abiti succinti, come lottatori. E’ pare che abbiano una malattia da atleti.
Ateniese Vu sapete dov’è la Lisistrata? Noi omini, ecco come s’ è ridotti.
Corifeo Anche questa malattia è uguale a quell’altra. All’alba non vi prendono le honvulsioni?
Ateniese Per la maremma, siamo tutti distrutti! E se qualcuno non ci rihoncilia subito subito … ‘un c’è niente da fare: la vi diho che si va tutti a trombare Clistene!
Corifeo Se non siete grulli, o rimettetevi il mantello, perché non vi veda qualhuno di quei bischeri che si divertono a mutilare le statue del dio Ermes…
Ateniese O tu dici bene allora!
Spartano Minchia, veru è! Cummigghiamini subitu!
Ateniese Salve, Spartani! O che dobbiamo subire un male vergognoso?
Spartano (ai suoi ) Amici, ni casca la facci ‘n terra pa vergogna, si nni vidunu ‘nti sti condizzioni.
Ateniese Allora, Spartani! Perché vu’ sete hostì?
Spartano Vinemu comu ambasciatori ppi negoziari la paci.
Ateniese Vu dite bene, anche noi. O allora ‘hiamiamo la Lisistrata, che gli è l’uniha in grado di rihonciliarci. Ma, a quanto pare, non c’ è bisogno che la ‘hiamiamo. Lei stessa, appena la ci ha sentiti, la sta venendo hostì.
Corifeo O salute a te, o donna che tu sei la più forte tra tutte. Ora bisogna che tu sia terribile e mite, buona e hattiva, autorevole e amabile, riccha di esperienza: poiché i primi tra i Greci, vinti dalla tua magia, ti cedono il posto e honhordemente rimettono a te tutte le questioni.
Lisistrata Non gli è un hompito difficile, purchè uno tratti con gente vogliosa di fare l’amore anziché la guerra. Lo saprò presto. Dov’è la Pace? (Appare la Pace, sotto l’aspetto di una bella ragazza nuda) Va’ a prendere prima gli Spartani, e portali hostì, ma non hon mano dura e orgogliosa né home, stupidamente, hanno fatto i nostri uomini, ma home naturalmente si addice a noi donne, hon garbo e gentilezza. E se non ti danno la mano, afferrali per l’uccello. Va’ poi e porta hostì anche hodesti Ateniesi, e honducili hostì prendendoli … per quella parte che ti presentano. Spartani, state acchanto a me, e voi da quest’altro lato, e intendete le mi parole. Io sono una donna, ma ho senno. Personalmente non sono messa male, in quanto a intelligenza, e poi, avendo ascoltato molti discorsi di mio padre e degli anziani, non sono male istruita. Dopo avervi hostì radunati, vi voglio rimproverare pubblihamente e hon giustizia: voi, home parenti, attingete acqua da uno stesso hatino e aspergete gli stessi altari, a Olimpia, a Pilo, a Delfi – quanti altri ne potrei citare, se volessi dilungarmi! – e, mentre i nemici inhombono minacciosi con il loro esercito barbaro, distruggete vite umane e città di Grecia! Qui si honclude il primo argomento del mio discorso.
Ateniese ( guardando la Pace) … e io mi sto morendo dalla voglia e dall’eccitazione!
Lisistrata In quanto a voi, Spartani – ora la mi rivolgerò a voi – vu non sapete che una volta il vostro honcittadino Periclide l’è venuto qui, supplice, a sedersi sui nostri altari, tutto pallido nel suo mantello rosso, a chiedere un esercito che lo aiutasse? A quel tempo inhombevano su di voi la guerra messeniha e i terremoti. E Cimone venne in vostro socchorso con 4000 opliti e salvò Sparta. E voi, pur avendo ricevuto hodesto beneficio dagli Ateniesi, devastate la terra di chi vi ha aiutato?
Ateniese Hommettono ingiustizia hostoro, per la maremma!
Spartano U tortu è nostru,ma … (guardando la Pace) ddu culu, non si può diri quant’ è beddu!
Lisistrata O vu pensate forse che io prosciolga da ogni accusa voi Ateniesi? Non vu vi rihordate che gli Spartani, a loro volta, quando voi portavate abiti servili, vennero in armi e fecero strage di Tessali e dei seguaci e alleati del tiranno Ippia? O non hombatterono insieme a voi, quel giorno, essi soli? O non vi liberarono e vi fecero indossare di nuovo il mantello degli uomini liberi?
Spartano (sempre guardando la Pace) N’ haiu vistu mai na fimmina cchiù … bona.
Ateniese Una topa più bella…ti diho che non l’ho mai vista.
Lisistrata Perché, dunque, dopo tanti benefici reciproci, hontinuate a hombattere tra voi? L’è una vergogna! Perché non vu vi riappacifihate? Che hosa ve lo impedisce?
Spartano (con gli occhi sempre rivolti alla Pace) Nuatri semu d’accordu, bbasta ca ni tornunu…dda cosa cosa tunna…
Lisistrata O tu dimmelo: quale, haro?
Spartano Dda purticedda… Pilo. Havi ‘nsacco di tempu ca ciavemu disidderiu di… trasici..
Ateniese O per Poseidon,vu non lo farete|
Lisistrata O vellino, lasciatelo a loro!
Ateniese E noi allora, chi si va a trombare?
Lisistrata E vu chiedete un’altra regione in hambio di questa.
Ateniese (sempre guardando la Pace) Quella, allora, vi diho, restituiteci quella per prima hosa … la ricciolina, cioè Echinunte, e il seno Maliaho … lì dietro, e le gambe di Megara, e l’isola di Skopelos.
Spartano Ma cchi siti pazzi? Ca quali, amicu miu, tu po’ scurdari.
Lisistrata O vien via, lascia perdere, tu vuo’ litigare per un par de gambe?
Ateniese O tu non lo vedi che già son nudo e voglio mettermi a lavorare la terra?
Spartano E macari iu vogghiu cuncimari u tirrenu di capu i matina!
Lisistrata Quando vu avrete smesso di litihare, vu lo potrete fare. Ma se vu avete questa intenzione, deliberate e andate a homuniharlo agli alleati.
Ateniese Ohi che tu dici! Ma che alleati, mia cara? Un tu lo vedi? Noi ce l’abbiamo ritto. Tutti gli alleati saranno pienamente d’accordo hon noi su questo punto: trombare.
Spartano Sicuru, macari i nostri, ppi tutti gli dèi!
Lisistrata Vu dite bene. Ora purifihatevi, perché noi donne vi si possa ricevere sull’Acropoli con quel che abbiamo … nelle ceste. Là vi scambierete reciprohamente giuramenti e haranzie di fedeltà. Dopo, ciascuno di voi potrà riprendere la propria donna e andarsene. Su, presto! Mi so’ lasciata intendere?
Spartano Portimi unni voi.
Ateniese Sì, il più presto possibile, per Zeus!

Presentazione del recital su “I Greci e le donne”

Presentazione del recital su “ I Greci e le donne “

 

Il presente lavoro ha origini scolastiche: era destinato ad una terza liceale    impegnata nella traduzione e nella messa in scena di una tra le più sconvolgenti tragedie di Euripide: Le Troiane. Il dramma  – che ha come protagoniste assolute le donne della città vinta- solo apparentemente riguarda un famoso episodio leggendario, la conquista di Troia da parte degli Achei. In realtà esso è un implacabile  e crudo atto d’accusa contro la guerra, le cui vittime sono, in primo luogo, le donne, i bambini, gli anziani. I “valori” tipici della mentalità militare, il coraggio, l’audacia guerriera, ecc. vengono smascherati e mostrati in tutta la loro ripugnante  e disumana realtà ( la violenza contro le prigioniere, l’assassinio di un bimbo  perché, crescendo,potrebbe diventare un temibile nemico come suo padre).                                                                  Nel   415 a. C., quando Euripide compose questa tragedia, gli Ateniesi,  suoi concittadini, erano impegnati in una sanguinosa e interminabile guerra contro  Sparta (27 anni!), guerra estenuante e non esente da atrocità (come il massacro degli abitanti di Melos, verificatosi poco tempo prima). Il poeta si rivolge al suo pubblico come  coscienza critica della società del tempo. E non solo per quanto riguarda la guerra: al centro della sua opera è il problema della condizione femminile. Perché la guerra non è che l’occasione straordinaria  che mette il luce la profonda ingiustizia su cui è fondato, nell’ antica Grecia, il rapporto tra i sessi. Ma che accade – che accadeva allora – nella vita quotidiana, dentro e fuori delle mura domestiche? E quando ebbe origine questa diffidenza nei confronti delle donne – diffidenza che caratterizzava il mondo classico e che ha profondamente influenzato anche la mentalità e la cultura dei moderni?

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A proposito del femminicidio

A proposito del femminicidio

Premessa (doverosa): non condivido certa retorica femminista. Le donne non sono per natura più giuste, più democratiche, più pacifiste degli uomini (là dove sono al potere ne hanno dato e continuano a darne ampia dimostrazione). Condivido pienamente quanto affermava G. B. Shaw: la donna non è che la femmina della specie umana, senza specifici fascini e specifiche imbecillità “naturali”. Detto questo, però, bisogna prendere atto della spaventosa diffusione del femminicidio, fenomeno che va analizzato “a freddo”, senza cadere nella trappola della retorica dominante (si condanna la violenza – è ovvio – si celebrano giornate della donna … perché tutto rimanga com’è).
La nostra epoca – epoca di imbarbarimento, di regresso culturale e civile, come sosteneva recentemente Sabina Guzzanti su “Il fatto”- è difficile per tutti, maschi e femmine. Occorrerebbe una seria e approfondita indagine di natura economica e sociale per mettere in luce le radici di questo imbarbarimento (radici che a me, per quanto non esperta di economia, sembrano riconducibili a un processo di ristrutturazione – a livello mondiale – del capitalismo: marginalizzazione di intere aree geografiche, espulsione di masse dal mercato del lavoro, pauperizzazione diffusa, e, per contro, arricchimento smodato di pochi … ). Il modello verso il quale tendiamo, con qualche decennio di ritardo, è quello della società e dell’economia U.S.A., modello a noi notissimo perché onnipresente nel cinema e nelle serie tv. Su di esso e sui suoi risvolti mostruosi si sono versati fiumi di inchiostro. Basterebbe rileggere Marcuse o Anders, i cui testi sono di una attualità sconvolgente, addirittura “profetici” per la nostra società. Il fenomeno più vistoso di questo nostro tempo disumanizzato è la spersonalizzazione, la riduzione degli esseri umani a oggetto, a puro strumento (l’opposto, cioè, di quanto sosteneva Kant, secondo il quale ogni uomo va considerato un fine, e non un mezzo). Se gli uomini – maschi – sono ridotti a cose, a maggior ragione lo sono le donne, storicamente “deboli” e bersaglio di vessazioni millenarie, “oggetti” di proprietà e di scambio da tempo immemorabile.
Le radici culturali dell’oppressione femminile sono antichissime, forse addirittura preistoriche: nel Vecchio Mondo potrebbe esserne un indizio la sostituzione della religione terrestre e “matriarcale” della grande dea madre mediterranea con il pantheon “maschilista” degli dei atmosferici. Potrebbe risalire insomma all’arrivo degli Indoeuropei (o, come diceva Engels, alle origini della famiglia e della proprietà privata … ). Gli antichi Greci e i Latini erano violentemente misogini (1). Ma l’influsso più decisivo, in tempi meno remoti, è quello esercitato dalle grandi religioni monoteistiche, e in particolare, per quanto ci riguarda – scontato l’antifemminismo dell’Islam, peraltro di diffusione recente e ancora limitata qui da noi – dal cristianesimo.
Non mi riferisco, ovviamente, al messaggio di Cristo (rivoluzionario anche in questo campo, tanto più straordinario se si tiene conto del contesto storico in cui viene diffuso), ma alla millenaria “cultura cristiana” elaborata dalla chiesa e trasmessa come dottrina o addirittura come tradizione vincolante per le coscienze dei credenti.
Le radici di tale cultura non sono affatto cristiane: all’origine di esse potrebbe esserci, oltre all’ebraismo, già antifemminista di suo, l’Orfismo, con la sua distinzione tra spirito – elemento divino – e materia, elemento spregevole e inferiore, degno del massimo disprezzo. Il corpo viene considerato “prigione dell’anima”, e quest’ultima, per accedere al contatto con la divinità, deve subire un processo di purificazione dalle impurità del corpo. Sulla stessa scia si collocano il platonismo e il neoplatonismo, che influenzano profondamente il cristianesimo delle origini. Coloro che sono definiti “padri della chiesa” scrivono cose terribili sulle donne ( e sul corpo, e sul sesso, e sul rapporto uomo – donna). Terribili nei confronti delle loro malcapitate compagne sono i comportamenti di personaggi definiti “santi” e proposti come modello ai credenti (vedi, ad esempio, Agostino). Perché la donna è associata al corpo, al sesso, alla materia, e quindi al peccato e all’impurità. Occorre addirittura un concilio per stabilire che anche le donne hanno un’anima. In un mondo dominato dai maschi, unici detentori del diritto di parola (vedi certe esortazioni di S. Paolo) l’idea di sesso e quindi di peccato (2) è associata al corpo femminile (come se i maschi fossero asessuati!) e così pure una serie di caratteristiche psichiche “negative” o almeno potenzialmente pericolose da tenere a freno: l’istinto, il sentimento, l’intuito, tutte – presunte – caratteristiche femminili, in contrapposizione alla razionalità maschile. Perciò le donne vanno tenute sotto tutela e sotto controllo perpetuo: prima il padre, poi il marito sono i tutori naturali della donna, che viene privata di qualsiasi autonomia. (Convinzione assai poco originale, per la verità: già nelle sue Baccanti, sul finire del quinto secolo avanti Cristo, Euripide aveva tracciato un quadro drammatico di questa “marginalizzazione” delle donne, mettendone in rilievo gli effetti catastrofici sulla società nel suo complesso). Poi c’è il Medioevo, con la caccia alle streghe, accusate – è la solita ossessione sessuale! – di avere rapporti carnali con il diavolo (cioè con una entità che, sulla base della dottrina cristiana tradizionale, dovrebbe essere puramente spirituale) e la demonizzazione di quel sapere elaborato dalle donne – escluse dalla cultura ufficiale – e trasmesso di madre in figlia, che verte soprattutto sulla conoscenza di erbe medicamentose e di rimedi naturali: quante donne sono state torturate e bruciate sul rogo nel corso di parecchi secoli, da quelli “oscuri” del Medioevo a quelli, ancora più bui, della “santa” Inquisizione? Ma anche in tempi più recenti, chi, come me, è abbastanza vecchia da avere sperimentato il clima e la mentalità cattolica degli anni Cinquanta, sa bene quale cappa di piombo ideologica opprimesse e mettesse a rischio la vita delle donne. Spesso private del diritto all’istruzione e obbligate a seguire le loro “missione naturale” di madri e mogli – missione, ovviamente, voluta da Dio, o meglio da chi pretendeva di farsene portavoce – le donne credenti, anche se affette da qualche grave patologia che, in caso di gravidanza poteva metterne a rischio la vita, erano obbligate a mettere al mondo tutti i figli che il cielo mandava loro: la contraccezione non era ammessa (non parliamo dell’aborto clandestino, scelta comunque drammatica e spesso ancor più rischiosa). L’unico modo per evitare una gravidanza a rischio era la rinuncia ai rapporti sessuali … ma anche questo era discutibile: una moglie virtuosa non poteva rifiutare a lungo di compiere il dovere coniugale. Avrebbe esposto il marito alla grave tentazione del sesso mercenario. Insomma, per una cattolica il matrimonio e la maternità erano un rischio mortale. Quanti femminicidi sono stati provocati da questa (pseudo)morale? Femminicidi nascosti, spesso esaltati come ideale di santità. Viene in mente l’invettiva di Cristo contro gli scribi e i farisei: ipocriti, sepolcri imbiancati, caricano sulle spalle altrui pesi insostenibili, che loro non sfiorerebbero nemmeno con un dito … o, più laicamente, il vecchio buon Lucrezio: “Tantum religio potuit suadere malorum!”
E perché, poi, la missione di un essere umano dovrebbe coincidere con la sua funzione riproduttrice? Di un uomo non si dice che la sua missione è la paternità (eppure la figura paterna è importante quanto quella materna, per un bambino). Perché mai un uomo – un maschio – dovrebbe poter decidere da sé qual è lo scopo della sua vita, mentre una donna dovrebbe accettare che siano altri a stabilirlo – magari a nome di Dio – ? E quanta ambiguità nel culto della Madonna – caricato del peggiore sentimentalismo e della più becera retorica “mammista”! Quanta distanza dalla sobrietà dei Vangeli!
Le madonne, del resto, cioè le madri – figure idealizzate che hanno sublimato ogni tratto sessuale – non sono che l’altra faccia delle donne perdute, delle peccatrici, pericolose tentazioni che rovinano gli uomini. A ragione uno slogan femminista degli anni Settanta – oggi, purtroppo, dimenticato – proclamava: né puttane, né madonne, ma solo donne. Perché la polarità donna perbene, cioè madre da una parte, e prostituta, o donna “facile”, comunque “preda” dall’altra, sta proprio alle radici del femminicidio. Un uomo, di solito – a meno che non sia affetto da turbe psichiche – non rivolge la sua violenza contro la madre, bensì contro le altre donne. Le quali, si badi bene, non sono mai bambine da proteggere o da aiutare a crescere. Nascono donne, oggetto sessuale fin dalla più tenera età, da giudicare o da predare: come dimenticare le parole di quel commissario di polizia, che giudicava “di dubbia moralità” la piccola Ottavia Di Luise, caduta vittima di un gruppo di pedofili e assassinata, circa un trentennio fa? Il suo corpo non è mai stato ritrovato – forse perché le ricerche sono state frettolose e superficiali.- Del resto, perché preoccuparsene troppo? Era “poco seria”. Che importa se era una bambina di soli dodici anni?
Ma la violenza contro le donne ha radici molteplici e complesse, certo non solo di origine religiosa. Una delle radici più antiche è costituita da motivazioni economico – sociali. Le donne andavano tenute sotto stretto controllo perché non si poteva rischiare di trasmettere l’eredità familiare a figli illegittimi. Le donne diventavano proprietà della famiglia del marito, oggetto di scambio tra famiglie, tribù, clan … A loro era strettamente legata l’idea del possesso; idea che ancora oggi è spesso tra le cause scatenanti del femminicidio. Certo, oggi l’idea del possesso ha manifestazioni e motivazioni diverse da quelle del passato: una maggiore fragilità degli uomini, incapaci di sopportare un frustrazione grave, una separazione o un divorzio, ( il femminicidio, spesso, è seguito dal suicidio del maschio abbandonato) oppure la perdita del lavoro e le difficoltà economiche (e in questo caso l’uomo non arriva a uccidere, si limita a picchiare la malcapitata compagna, facile valvola di sfogo e capro espiatorio dei problemi altrui). Ma la violenza peggiore, la più mostruosa, è quella che nasce dalla smania di possesso tout court, che non ha alcuna motivazione passionale: è brama di dominio pura e semplice. La donna è un oggetto usa e getta Fin troppo scontato ricordare il mondo della pubblicità, che fa del corpo femminile un oggetto di consumo. E che dire degli effetti devastanti, a livello educativo e di costume, del ventennio berlusconiano? Per farsi strada nella vita bisogna vendersi … ai miei tempi padri e fratelli della ragazza violentata o sedotta uccidevano il violentatore. Oggi sono i padri e le madri ad accompagnare le figlie a casa del potente di turno (non so che cosa sia più raccapricciante, se il delitto d’onore o la trasformazione dei genitori in magnaccia della propria figlia … )
Che fare? Intervenire con provvedimenti legislativi adeguati, certo; assicurare protezione alle donne perseguitate, non lasciarle sole. Mandare a casa – congedati con disonore – i rappresentanti delle istituzioni che colpevolizzano le vittime (come il commissario che indagava sull’assassinio della piccola Di Luise; i giudici che hanno considerato circostanza attenuante per i violentatori l’handicap mentale di una ragazza stuprata; quegli altri magistrati che hanno considerato consenziente alla violenza di un gruppo di militari la ragazza che è stata abbandonata, seminuda e morente, sulla neve fuori di una discoteca … salvata in extremis, ma con quali conseguenze?). E poi smetterla con l’eccesso di garantismo e di buonismo. Chi si macchia di delitti così atroci deve scontare per intero la sua pena. L’Italia è forse l’unico paese al mondo in cui non c’è alcuna certezza della pena. E contro i colpevoli del terzo tipo di violenza, quella più brutale e selvaggia, non ammettere mai sconti di pena e benefici per buona condotta. Se il fascista Izzo, l’assassino del Circeo, non fosse stato rimesso in libertà, oggi due altre donne – una quattordicenne e la sua mamma – sarebbero ancora vive. Bisogna mettere personaggi del genere in prigione e buttare via la chiave. Per sempre. Se si pentono e si redimono, buon per loro: se la vedano col buon Dio. Ma non si possono lasciare liberi di commettere altri delitti efferati.
Ma tutto ciò non basta. La via legislativa e giudiziaria è insufficiente. Occorre una profonda rivoluzione culturale. Ma chi dovrebbe attuarla? La scuola, naturalmente. Come sempre. Una scuola sempre più tagliata e devastata da riforme insensate. Si potrebbe magari introdurre, come materia obbligatoria, l’addestramento delle ragazze all’autodifesa. Ma la scuola non basta. Deve essere tutta la società a promuovere un profondo cambiamento di mentalità e di costumi. E intanto? Le rivoluzioni culturali esigono tempi lunghi, decenni. Quante altre donne devono morire, in attesa di questo cambiamento? E come sperare che questo cambiamento sia possibile, all’interno di un sistema che considera ogni essere umano, e le donne in particolare, come pura merce? Insomma, dobbiamo reagire in qualche modo, con l’ottimismo della volontà (e il pessimismo della ragione). Ma senza eccessive illusioni. La violenza contro le donne non è che un aspetto della più generale violenza insita nella nostra società.
Lucia Cutuli
Note: (1) Vedi recital su “I Greci e le donne”
(2) L’atteggiamento negativo della Chiesa cattolica – spiegabile come fenomeno storicamente influenzato da filosofie pagane – è però difficilmente conciliabile con la dottrina dell’Incarnazione: come si può disprezzare il corpo, la materia ecc. se si crede che Dio ha voluto incarnarsi in un corpo di uomo? E in che cosa consiste la Buona Novella, se non nell’annuncio della salvezza – e della resurrezione – non di puri spiriti, ma di esseri umani nella loro integralità, e della natura intera ?

A proposito del saggio di Rocco Agnone ” Il fenomeno religioso e la concezione non religiosa del divino

Osservazioni sul metodo

Deliberatamente l’Autore ha scelto di prescindere dal dibattito senza fine che, nel corso degli ultimi due secoli, ha impegnato gli esegeti dei Vangeli sulla figura storica del Cristo, nella convinzione che questo tipo di indagine – in sé rispettabilissima – finisca per dissolvere l’oggetto della ricerca stessa.
Come per tutti i testi antichi a noi pervenuti mediante una lunga e travagliata tradizione – si pensi, ad esempio, ai poemi omerici – anche per i Vangeli un’indagine storico- filologica rischia di approdare ad un’unica conclusione: l’afasia. Il personaggio – Cristo finisce per disintegrarsi sotto i nostri occhi, sicché non possiamo più dire nulla su di lui.
Analogamente, se vogliamo cogliere il senso, la novità, la grandezza poetica dell’Iliade e dell’Odissea, dobbiamo evitare di addentrarci nell’infinita questione omerica, destinata per natura a restare irrisolta: che esse siano frutto della genialità di uno o più aedi, o della paziente ricerca degli esperti di Pisistrato, o della fantasia creatrice del popolo greco nella fase aurorale della sua storia, o di una plurisecolare tradizione anonima, a noi che importa? Ci sono pervenuti questi testi, che hanno profondamente influenzato l’intera cultura occidentale. Essi dunque, così come sono, costituiscono l’oggetto del nostro studio.
A maggior ragione questo vale per i Vangeli. Comunque siano stati redatti, qualunque sia stata la realtà storica del loro protagonista e il contributo della primitiva comunità dei suoi discepoli, essi costituiscono un corpus tràdito, che, per i milioni di credenti i quali, con varie sfaccettature, ad esso si ispirano, è “parola di Dio”, come gli altri testi del Nuovo e del Vecchio Testamento. Questo è dunque l’oggetto della presente indagine, che è articolata su un nucleo problematico così sintetizzabile: come si inseriscono i Vangeli nella tradizione ebraica? Prevalgono gli elementi di continuità o di innovazione? Gesù è espressione della religiosità del popolo di Israele, o è un innovatore, anzi un rivoluzionario che la scardina fin dalle fondamenta? E ancora: leggendo la Bibbia nel suo complesso, si possono trovare indicazioni varie, spesso tra loro contraddittorie, tali da giustificare scelte e prassi antitetiche (ad esempio, la povertà francescana e lo sfarzo della chiesa, la carità eroica di alcuni “santi” e le guerre di religione). Per quanto riferibili, come è ovvio, alla mentalità dell’epoca,come possono certe aberrazioni conciliarsi con i precetti scaturiti dalla “Parola di Dio”? E per il credente è inevitabile chiedersi: ma la Bibbia è veramente “Parola di Dio”? O è solo l’espressione storicamente determinata della religiosità di un popolo particolare? E’ possibile cogliervi, come un “filo rosso trasversale” un messaggio organico e coerente? E la Chiesa cattolica – o meglio la sua gerarchia – come pure le altre Chiese, ne sono veramente interpreti autentiche ed esclusive? E in che cosa il cristianesimo differisce dalle altre religioni? In che consiste,nel suo nucleo più essenziale, la religione, fenomeno comune a tutti i popoli, di qualsiasi epoca e latitudine? Ma il cristianesimo è veramente una religione?
Se si giunge alla conclusione, come si fa nel presente saggio, che la religione è essenzialmente un rapporto di potere tra un servo-suddito e un signore potente, finalizzato al raggiungimento di particolari benefici in cambio di pratiche di culto significanti ossequio e sottomissione da parte del credente, è inevitabile concludere che no, il cristianesimo non è una religione, in quanto fondato sull’amore, che per natura è gratuito e radicalmente estraneo a qualsiasi forma di dominio. C’è tutto un filone, certamente minoritario ma non per questo meno significativo, nell’Antico Testamento (nei Profeti, soprattutto) che mette in luce quello che poi costituirà il messaggio fondamentale di Cristo: Dio non vuole atti di culto, non chiede nulla per sé. Il suo unico comandamento è l’amore e la fratellanza tra gli uomini. E’ possibile, a un’attenta lettura, cogliere un messaggio logicamente coerente, perfettamente omogeneo, che attraversa la tradizione ebraica e i Vangeli e scardina dalle fondamenta qualsiasi religione. Tanto più significativo, in quanto spesso gli stessi portatori di tale messaggio sembrano non rendersi conto della reale portata delle loro parole. La Bibbia è quindi l’espressione dell’esperienza storica e spirituale del popolo ebraico, all’interno della quale, però, si può individuare il “filo rosso” che lega Isaia, Osea ecc. a Gesù e al suo messaggio. Messaggio che, ovviamente, non nasce in un mondo al di fuori della storia: si inserisce nella cultura e nella tradizione dell’ebraismo, ma per rovesciarne i presupposti; è filtrato attraverso la sensibilità e la fede della comunità primitiva dei discepoli, che spesso non capiscono fino in fondo il pensiero di Gesù e vi mescolano le loro idee e i loro pregiudizi, ma tuttavia riescono a trasmetterne la radicale novità.
A questo punto emerge con forza il problema-Chiesa: il presente saggio intende delegittimarla del tutto? Se il messaggio di Cristo è radicalmente antitetico al potere, se il Dio che egli ci fa intravedere è tutt’altro che un sovrano potente, ma, al contrario, un padre che vuole rendere i suoi figli uguali a sé; se Cristo con la sua morte annienta totalmente la legittimità di ogni sacrificio, la risposta non può che essere affermativa: questa Chiesa, con la sua arcaica struttura monarchica, con le sue banche e i compromessi con il potere, non ha nulla che vedere con il messaggio di Cristo. Perché non si può servire a due padroni: se si sceglie di servire il potere e il denaro, sia pure con l’illusione di “fare del bene” è inevitabile voltare le spalle a Cristo. Le persecuzioni degli eretici, i roghi, e gli scandali dello Ior, e le compromissioni con poteri equivoci non sono incidenti, errori imputabili a singoli individui: sono le conseguenze logiche della scelta di fondo: o Dio o Mammona. Sarebbe interessante, a questo proposito, rileggere l’episodio delle tentazioni di Cristo (che poi si riducono a una sola: la tentazione del potere) e tenere presente la sua reazione.
Ma una comunità cristiana capace di rinunciare a tutte le sovrastrutture attuali, e di sforzarsi di incarnare la radicale novità del messaggio cristiano, sarebbe non solo pienamente legittima, ma sommamente auspicabile. Del resto, lo Spirito soffia dove vuole e Dio può benissimo far nascere “figli di Abramo” anche dalle pietre.

Lacrime di coccodrillo sul declino degli studi umanistici

Lacrime di coccodrillo sul declino degli studi umanistici

Sensazionale recente scoperta di alcuni ricercatori: la cultura umanistica in Italia è morta. Aggiungerei, modestamente: anche l’arte, la musica, il cinema, il teatro, e tutto ciò che non è di utilità immediata. Colpa della crisi, certamente. Ma anche obiettivo consapevole della classe politica che ci ha governato negli ultimi venticinque anni (si governa più facilmente un popolo di ignoranti incapaci di giudicare e valutare criticamente) o scelta autolesionista di certe parti politiche con spiccate manie suicide.
La morte della cultura umanistica non è che un aspetto della morte della scuola. Morte preceduta da una più che ventennale agonia. Sulla diagnosi della “malattia” e sul suo prevedibilissimo esito noi docenti ed ex docenti avremmo potuto e potremmo scrivere trattati. Noi lo gridiamo da sempre. Ma a noi, i “paria” della scuola – notoriamente scansafatiche e incapaci di intendere e di volere, utili capri espiatori sui quali scaricare le colpe – nessuno ha mai dato retta. Occorre che il decesso sia constatato da sociologi, ricercatori, pedagogisti e simili, perché lo si prenda in considerazione.
In breve, le cause del disastro attuale si possono così sintetizzare:
1) La mania dell’azienda come “paradigma” della società. Tutto è stato assimilato al modello aziendale: dall’Italia (povera Italia, “di dolore ostello” … ), alla sanità (con i risultati che constatiamo ogni giorno sulla nostra pelle), alla scuola.
Corollario n.1: se la scuola è un’azienda, i docenti sono operai da governare e gestire come subordinati. Ed ecco la creazione di Kapò – pardon, manager – reclutati con sedicenti discutibilissimi concorsi, che spesso hanno operato – almeno in base all’esperienza della sottoscritta – una selezione alla rovescia, premiando i peggiori (l’antico adagio può così essere modificato:… chi non sa, insegna; e chi non sa insegnare, fa il preside).
Corollario n. 2: se la scuola è un’azienda, gli alunni ne sono i clienti, e, come si sa, “il cliente ha sempre ragione”. Quindi cessa ogni rapporto educativo, il dialogo dialettico adulti – ragazzi viene meno. Il docente è un commesso al servizio della clientela, soggetto alle bizze di ragazzi ultra viziati e alle pretese di genitori che vogliono liberarsi da ogni responsabilità,che desiderano unicamente parcheggiare i figli in modo che non li disturbino, che se ne fregano altamente della loro preparazione, e però esigono risultati brillanti e voti altissimi da esibire con gli amici come trofei. Viceversa, la scuola azienda non prende in considerazione se non i “clienti importanti”, e se ne frega degli strati sociali più disagiati ed emarginati. I ragazzi “non importanti” – figli di lavoratori, pendolari ecc. – sono certo ammessi in un liceo classico, ma in apposite sezioni – ghetto, di quelle che cambiano, in un anno, otto professori di lettere e sei di matematica.
Corollario n.3: se i docenti sono dei subordinati, non importa che siano o no preparati, né che siano “bravi”. Si chiede loro solo di essere docili esecutori delle decisioni altrui, abili smanettatori col computer e pazienti compilatori di carte “burocratiche”. Come diceva un vicepreside di una collega: “Sì, è vero, è mediocre come insegnante … ma è così ubbidiente”
E io che mi ero illusa di avere, come compito primario , quello di “formare cittadini”! Ma se sono ridotta a serva, è chiaro, il mio compito è quello di formare servi e sudditi.
2) L’autonomia scolastica. Non c’è più nessuno a cui dare conto e ragione di ciò che non va. Ogni scuola è un piccolo regno autonomo, che non riconosce altra legge se non la volontà del suo sovrano (e della corte che gli sta attorno). Non esistono più leggi, non ci sono più garanzie sindacali, perché “cuius regio eius et religio”. La concorrenza tra scuole, anziché funzionare come “la mano invisibile” che regola il mercato (o che dovrebbe regolarlo, nelle intenzioni dei cosiddetti “liberali”) serve da selezione alla rovescia: non premia il meglio (le scuole di qualità) ma il peggio (le scuole più lassiste, in cui è più facile andare avanti senza studiare). Obiettivo principale di una scuola è reclutare nuovi clienti, strappandoli via alla concorrenza. Quindi non si boccia più nessuno perché questo potrebbe scoraggiare le iscrizioni. Che poi gli studenti sappiano o non sappiano è questione secondaria. Così a me è accaduto di vedere promuovere – con la mia feroce quanto vana opposizione, perché è il consiglio di classe che boccia o promuove e i miei colleghi erano proni al volere del preside – un’alunna che, in primo liceo classico – che equivale al terzo anno degli altri licei – non sapeva nemmeno leggere il greco. Così mi è capitato di sentir dire, agli esami di maturità, che il sole gira intorno alla terra – l’alunna era rimasta a Tolomeo! – che sulla luna non si può vivere sia perché manca un gas necessario alla vita – cioè, ovviamente, l’anidride carbonica – sia perché la temperatura è inferiore ai trecento gradi. Al posto della collega di scienze, che le aveva dato la sufficienza, io avrei fatto l’hara kiri per la vergogna. Invece ho subito una scenata del preside e dei suoi accoliti (lo staff al completo) perché io,insieme ad altre due colleghe commissarie interne, dotate di un normale senso del pudore, avevamo votato – d’accordo con i colleghi esterni – per la bocciatura. Ma il problema non riguarda solo le bocciature: ho saputo di una collega molto seria e preparata che è stata aspramente rimproverata dallo staff presidenziale perché non ha “passato la copia” della versione di greco agli esami di maturità, il che ha comportato un numero minore di 100 rispetto alle attese e alle pretese di alunni, genitori e docenti della sezione. Ma ciò che è più deprimente è il senso di impotenza che si diffonde tra gli insegnanti o, almeno, tra chi vorrebbe ancora insegnare qualcosa (figurarsi tra i precari!): non c’è più nessuna legge, nessuna garanzia, si vive alla mercé dell’arbitrio del “manager”, come tanti Fantozzi. Non parliamo poi di didattica. Una volta il preside doveva avere una certa competenza in questo campo, farsi coordinatore, stimolare il dibattito … ora non più. E’ un manager. E a me è capitato spessissimo di litigare col sedicente manager perché ero ostacolata nella mia azione didattica: ore “rubate” all’insegnamento di latino e greco per motivi futili, rifiuto di concedermi ore di recupero pomeridiane – gratuite, ovviamente – per aiutare alunni in difficoltà, pretesa assurda di impormi metodi e strategie didattiche conformi alla moda dell’epoca (il che è contrario alla libertà d’insegnamento prevista dalla Costituzione) …
3) Le numerose catastrofiche riforme che si sono succedute negli ultimi venti – venticinque anni. La convinzione che il latino e il greco sono materie inutili, troppo faticose e noiose ha indotto i sedicenti riformatori a ridurre il tempo dedicato all’insegnamento di queste lingue morte a vantaggio di materie più utili e moderne. E ad accumulare le più svariate discipline in un tempo – scuola che è sempre lo stesso, molto limitato (sennò i ragazzi si stressano e si traumatizzano, poverini). Come se le teste dei ragazzi (e non solo) fossero dei panini da imbottire, a piacere, con gli ingredienti più svariati, come i panini Mac Donald. Insomma, non si ha idea, o si ignora volutamente come funziona il processo di apprendimento: bisogna per prima cosa imparare a studiare, ad apprendere. E non tutti gli adolescenti – come gli adulti, del resto – sono uguali: c’è chi apprende subito (ma poi rischia di dimenticare), c’è chi impara lentamente, chi ha bisogno di molto tempo … moltiplicare le materie è del tutto inutile, spesso addirittura dannoso. E poi bisogna imparare ad organizzare le conoscenze, altrimenti l’unico risultato di tante fatiche è un tremendo guazzabuglio mentale.
In quanto alla difficoltà delle lingue classiche … chi ha detto che il latino e il greco sono per tutti? Si tratta di lingue letterarie, il cui studio può essere consigliato a chi ha predisposizione per le lingue, a chi conosce perfettamente l’italiano ( idioma quasi del tutto sconosciuto, oggi, in Italia) ed ha interesse e passione per il mondo antico. E invece l’iscrizione al liceo classico è diventata in un recente passato (dalle mie parti lo è ancora) una specie di status symbol. Ragazzini che riuscirebbero benissimo in altri campi sono costretti da genitori ottusi a soffrire per cinque anni cercando di imparare nozioni per loro ostiche e prive di interesse. Ci si iscrive forse a un liceo musicale o a un istituto d’arte senza un minimo di predisposizione per l’arte e la musica? E perché per lo studio del mondo classico dovrebbe essere diverso? In quanto alla noiosità e pesantezza di questo genere di studi … la matematica e le discipline che esigono logica, rigore e applicazione non sono da meno (non a caso, noi docenti di latino e greco concordiamo quasi sempre con i colleghi di matematica nelle valutazioni degli alunni). E perché mai si dovrebbe studiare solo ciò che è leggero, divertente e piacevole? Non si può certo eseguire un pezzo di Mozart o di Beethoven senza annoiarsi con lunghi esercizi di solfeggio. Altrimenti, si scrivono canzonette per Sanremo, si tenta la fortuna con il “grande fratello” o la De Filippi … E’ dunque idiota andare a intervistare cantanti di successo che si sono “annoiati” per anni a studiare lingue antiche (magari avessero invece studiato musica … è forse un caso se la cosiddetta “musica leggera” italiana è, oggi, a mio parere almeno tra le peggiori al mondo?) In quanto alla diffusa convinzione che il moderno sia più interessante, questa è una pia illusione: per un sedicenne di “media cultura” il passato è una sorta di insalata russa, in cui convivono, senza distinzione, Pericle e la regina Vittoria, Enrico IV e Mussolini. L’insegnamento della storia è ormai obsoleto: gli adolescenti – e anche i giovani universitari, per lo più – non hanno più la categoria tempo (e neanche quella spaziale, per la verità).
4) Ed eccoci al punto più dolente: la mancanza di sbocchi lavorativi. Perché iscriversi a una scuola che non offre nessuna possibilità? Alcuni dei miei alunni migliori, che amavano il latino e il greco tanto da iscriversi a Lettere Classiche e da conseguire la laurea col massimo dei voti, oggi sono precari e svolgono un lavoro che non ha nulla a che vedere con gli studi compiuti: fra gli ultratrentenni, qualcuno è insegnante di sostegno alla scuola media (ovviamente, precario, cioè licenziato a giugno e riassunto a settembre), qualcuno vive di (rare) supplenze, mantenuto, per il resto, dai genitori; uno – più fortunato e più giovane – fa la guida dell’Etna accompagnando i turisti a visitare il nostro vulcano (professione certamente interessante … ma che c’entra con la laurea in Lettere Classiche?) Naturalmente io stessa, agli alunni più giovani, quelli delle classi successive, anche se avevano 9 nelle mie materie, ho sconsigliato decisamente la scelta di una facoltà umanistica. Ho visto ragazzi quasi in lacrime iscriversi a malincuore a Medicina. Uno è andato alla Cattolica, a Roma, con un testo di Platone sotto il braccio. Se non è più possibile scegliere facoltà umanistiche, a che pro iscriversi al liceo classico?
Non è vero che il classico in sé non attira più. Al contrario. Dipende dai docenti con i quali si capita. Se si ama follemente quel mondo, quella cultura, quelle lingue, è inevitabile trasmetterlo. Le passioni sono contagiose, e i ragazzi molto sensibili. Quanti dei miei ex alunni, e degli ex alunni dei licei in cui ho insegnato, entusiasti delle esperienze teatrali fatte a scuola (tragedie greche, ma non solo … con uno dei miei ex presidi, uno dei pochissimi veramente in gamba,con me e con altri colleghi “maniaci” come me) hanno poi scelto di dedicarsi al teatro ( che Dio gliela mandi buona, di questi tempi)! Una ragazza dell’ultima classe in cui ho insegnato è entrata all’INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico, quello che organizza gli spettacoli classici di Siracusa) superando la difficile prova di ammissione con il monologo di Ecuba (da Le Troiane di Euripide che avevamo messo in scena – e tradotto – a scuola).
La cultura umanistica muore perché muore l’Italia, assassinata dalla crisi attuale e da decenni di politica criminale. Un popolo che rinuncia alla sua storia, al suo patrimonio artistico, alle sue radici, è un popolo che muore (v. anche la Grecia). Altri sanno valorizzare perfettamente il poco che hanno facendone una risorsa economica che dà lavoro a centinaia di persone. Noi, come i Greci, lasciamo andare in rovina ciò che il mondo intero ci invidia.
5) Ma torniamo alla catastrofe – scuola. Il “buonismo” è un’altra non secondaria causa del suo declino. Insegnare sul serio è faticoso. E comporta l’ingrata funzione di “giudice” che, anche in campo scolastico, è una calamita di guai e rogne varie (anche giudiziarie, a torto temutissime dalla maggioranza dei docenti). Molto più facile promuovere tutti, anche se non hanno mai aperto libro. Si è “amati” da tutti, presidi, genitori, alunni scansafatiche …
Però … questa popolarità è fasulla, e mina dall’interno, come un cancro, l’intera scuola. Gli “altri”, quelli che hanno faticato sui libri, si considerano dei fessi: perché studiare, se tanto si viene promossi lo stesso? O, peggio ancora, se si viene messi alla pari con chi notoriamente e sfacciatamente non ha mai fatto nulla ( i ragazzi hanno uno spiccato senso della giustizia, l’abitudine a fare confronti e a considerarsi sottovalutati rispetto ad altri) o se si intuisce che eventuali bocciature metterebbero a rischio la formazione delle classi successive … e il posto di lavoro dei docenti? Se si verifica anche solo una di queste situazioni, la classe è persa e non si recupera più. Il docente serio può rinunciare a insegnarvi e non gli resta che trasferirsi altrove, tanto più se è circondato da colleghi “buonisti” che anche involontariamente gli aizzano contro alunni e genitori. Ma è poi vero che tutta questa profusione di “bontà” giova ai ragazzi? Alle medie non si bocciano perché “è scuola dell’obbligo”, altrimenti si traumatizzano a vita. Si iscrivono alle superiori con lacune che sembrano buchi neri, a volte persino con difficoltà di lettura. Se incontrano docenti e presidi buonisti vanno avanti senza intoppi e conseguono la maturità, convinti che tutto sia loro dovuto, che nella vita non sia necessario faticare, che sia sufficiente un po’ di furbizia o la raccomandazione, per cavarsela … poi c’è l’impatto con l’università e/o con il mondo del lavoro. Di colpo si scopre la durezza della realtà, e l’effetto può essere davvero devastante. Nessuno più si preoccupa di evitare loro traumi e delusioni, e oggi non c’è più molto spazio per gli antichi clientelismi e le tradizionali raccomandazioni. La crisi ha spazzato via tutto. Non c’è più speranza e fiducia nell’avvenire. E allora perché studiare e faticare?
E poi ci sono i nuovi miti creati da vent’anni di berlusconismo: il successo facile, i soldi, la notorietà. Basta essere carine e prive di scrupoli, o comunque disposti a prostituirsi – fisicamente o mentalmente -, a tollerare i compromessi più osceni. Quando ero giovane, dalle mie parti un padre uccise – tra l’approvazione generale – un professore universitario che aveva abusato della figlia minorenne (a quell’epoca si diventava maggiorenni a ventun anni). Oggi i genitori accompagnano le figlie minorenni a casa di anziani potenti e danarosi. Tra i due eccessi, non so quale sia il più mostruoso. Quanti decenni occorreranno per rimediare ai guasti educativi di questo ventennio?
6) Per tornare ai problemi specifici del liceo classico, l’ostacolo principale all’insegnamento del latino e del greco (e di qualsiasi altra lingua, morta o viva) è l’ignoranza della lingua italiana, fortemente voluta dai governi di ogni colore e da eminenti linguisti. Confondendo l’ambito della ricerca universitaria e quello della scuola – di cui non sanno nulla – costoro hanno screditato la grammatica normativa e l’analisi logica, pretendendo di sostituirle con astruse e complicate nomenclature (spesso solo quelle) o con sistemi di analisi troppo complessi perché possano essere appresi da ragazzini. So perfettamente che l’analisi logica è un sistema empirico, inadeguato ad una analisi scientifica della lingua, specialmente di quella attuale. Ma rimane utile. Nessuno zoppo butta via una stampella, perché è uno strumento imperfetto. Intanto la adopera. Quando non gli servirà più potrà gettarla alle ortiche. E la lingua è un codice, basata – come qualsiasi altro codice – su norme precise. Se vogliamo comunicare, dobbiamo rispettarle. Trovo, quindi, idiota la messa al bando della grammatica. Certo, insegnare l’aspetto verbale greco o la consecutio latina a chi non conosce i verbi italiani e il loro uso è una missione impossibile. Ma neanche una lingua moderna – come l’inglese – può essere insegnata a prescindere dallo studio della morfologia. Non è un caso se in Italia, malgrado la detestabile anglomania imperante, coloro che sanno veramente parlare in inglese sono pochi. E’ un errore considerare una lingua – morta o viva che sia – un mero repertorio di vocaboli, per cui basta imparare il lessico per poter parlare e capire. Si tratta di un errore simmetrico a quello di certi vecchi docenti del passato, che facevano studiare solo grammatica latina e greca, tralasciando lessico e sintassi e tutto il resto. Studiare qualsiasi lingua significa “cambiare continente” ; una lingua è un nuovo mondo: un nuovo modo di vedere la realtà, il risultato di una lunghissima storia, una cultura diversa, oltre che lessico, grammatica, sintassi …
Bisognerebbe spiegarlo al linguisti illustri e ai loro portavoce (cretini) nel mondo della scuola, a molti colleghi “moderni” che insegnano lingue di vario tipo e specialmente a quelli di inglese …
In ogni caso, se manca la padronanza della lingua madre, ogni sforzo è inutile. Mancano le strutture logiche mentali di base. Come se si invertisse il cammino dell’evoluzione, e si tornasse allo stadio degli australopitechi. Non è vero che si può imparare una lingua straniera prescindendo dalla conoscenza della lingua madre. A meno che non si sia piccoli e ci si trasferisca in un altro paese come immigrati.( A proposito di immigrati: per concedere loro il permesso di soggiorno li si sottopone a un esame di italiano: e se si facesse lo stesso con i nostri politici e con i giornalisti, specialmente televisivi? Se si dichiarasse decaduto da ogni carica politica chi oltraggia la lingua italiana? Io introdurrei il reato di vilipendio, da scontare con un lungo soggiorno in un cosiddetto “centro di accoglienza”…)
7) Le responsabilità dei sindacati, e in particolare della CGIL scuola, sindacato in cui ho militato per parecchi anni e di cui ho stracciato la tessera ai tempi della riforma Berlinguer e del famigerato “concorsone” dell’epoca. Partendo dalla solita (errata) convinzione che noi professori lavoriamo poco, abbiamo troppe vacanze e dobbiamo essere messi alla pari degli altri lavoratori, si è trovata una brillante soluzione: prolungare il tempo della nostra permanenza a scuola per poterlo quantificare e retribuirlo in modo – a loro parere – più adeguato all’impegno. Il problema è che il lavoro di un docente è diverso – non superiore né inferiore – rispetto a quello di un operaio. Valutarlo è estremamente difficile (non impossibile, però). C’è stato, quindi, per diversi anni, un proliferare di cosiddetti progetti, spesso molto fantasiosi e poco attinenti ai programmi della scuola. I colleghi furbi hanno smesso di insegnare le discipline per le quali sono pagati e si sono trasferiti a scuola per sei pomeriggi su sette per dedicarsi ai progetti (la cui utilità era solo quella di permettere ai colleghi di arrotondare il magro stipendio). I professori meno meritevoli sono diventati, così, quelli che tenevano al loro lavoro e si dedicavano ad esso a tempo pieno (lavorando moltissimo anche a casa, per studiare, preparare lezioni, inventare nuovi espedienti didattici e correggere compiti, tutta roba non quantificabile). Sono stati poi introdotti degli incentivi: per fare carriera noi docenti – categoria notoriamente ignorante e arretrata – dovevamo sorbirci corsi di aggiornamento tenuti da vecchi presidi in pensione e rampanti proff. universitari di psicologia e pedagogia ( avendone frequentato diversi da giovane, ed essendomi fatta una precisa quanto poca lusinghiera idea di simili aggiornatori ho deciso di non fare nessuna carriera e di snobbarli del tutto. E ho continuato a spiare le librerie in attesa dell’ultimo saggio di Canfora o di Vernant … ma aggiornarsi nelle proprie materie non vale). Poi la crisi – è questo l’unico suo pregio – ha spazzato via questi miserevoli espedienti inventati dai nostri governanti per evitare di pagare a tutti uno stipendio decente.
8) Infine, last but not least: il liceo classico, scuola di lunga e prestigiosa tradizione, è fondato su una intelligente e meditata organizzazione dei tempi e delle materie (dopo anni di sperimentazioni varie, sono diventata una gentiliana di ferro), e in modo particolare sulla centralità della cattedra di lettere al ginnasio, che è stata una delle più impegnative della scuola italiana. Potendo disporre di 18 ore per un numero limitato di alunni (una sola classe, anche se di trenta o più elementi, è sempre una classe) il docente del biennio può dedicare a ciascun ragazzo molto tempo e molta attenzione ( a differenza del docente che dispone di tre – quattro ore in diverse classi). Può quindi ancora recuperare le lacune ereditate dalla scuola dell’obbligo, insegnare ad apprendere, ad acquisire un metodo e un ritmo di studio, e soprattutto le categorie “mentali” (logiche, espressive, spazio – temporali) che sono la necessaria pre – condizione di qualsiasi apprendimento. Potendo insegnare ben cinque materie (italiano, latino, greco, storia e geografia) il docente del biennio può coordinare le conoscenze nel modo più efficace e funzionale (ad esempio, se i ragazzi non hanno idea dell’analisi logica e grammaticale, il prof. di IV ginnasio può dedicare mesi, anche un quadrimestre intero, al recupero di queste nozioni; può fare studiare contemporaneamente la storia delle antiche civiltà orientali e, in geografia, l’Anatolia e i paesi del Golfo; può insegnare a conoscere la civiltà e la storia greca e latina insieme alle lingue classiche, che risultano astruse se staccate dal loro contesto … Ovviamente, il vecchio docente del ginnasio diventa il principale punto di riferimento della classe: da solo, ha più ore di tutti gli altri colleghi insieme. Per questo deve essere dotato, oltre che di una solida preparazione, di equilibrio interiore, capacità comunicativa, autorevolezza, una via di mezzo tra il domatore di leoni e il bravo intrattenitore … e deve “avere le palle” perché spetterà a lui assumersi il peso e la responsabilità di tutto l’andamento della classe, comprese le decisioni più impopolari. Questo significa affrontare battaglie quotidiane (con presidi e genitori), rogne varie e persino minacce e seccature giuridiche. Naturalmente, questo compito è molto stressante (parlo per esperienza: ho insegnato al ginnasio per metà della mia quarantennale carriera). Per i docenti che somigliano a don Abbondio, un peso insostenibile. Meglio scaricarsi di un bel po’ di responsabilità. Per i presidi – manager una situazione seccante da gestire: chi dispone di ben cinque materie ha più peso “morale” (non giuridico) nel consiglio di classe, e a volte, tenendo presenti più gli interessi dell’alunno (cui gioverebbe una sacrosanta bocciatura e lo stimolo a cambiare strada) che quelli dell’azienda (che non deve “perdere clienti), rischia di attuare una severa selezione nella classe – termine terribile e inviso ai progressisti: ma l’importante è non attuare una selezione di classe (sociale), offrendo a tutti una preparazione adeguata, non promuovendo tutti per “pietà” -. Meglio quindi spezzare la cattedra, in due o più insegnamenti (è più facile manovrare due tre docenti deresponsabilizzati che uno solo cosciente e responsabile ). Capita poi, a volte, che un docente di ginnasio sia inadeguato e rischi di rovinare completamente la classe a lui affidata: meglio, allora, affiancargli un collega più bravo (per “piangere con un occhio solo). Ma queste motivazioni non si possono dire in pubblico, anche perché i docenti – anche i peggiori – non sono facilmente licenziabili. E allora si dirà ufficialmente che una cattedra “spezzata” comporta grandi vantaggi per gli alunni (balle!) che potranno mettere a confronto metodi diversi ecc. oppure spingerà i docenti ad una proficua collaborazione (ovvero: come fare peggio, con maggiore dispendio di tempo e di energia, ciò che un solo docente potrebbe fare presto e bene. La collaborazione e il confronto vanno riservati ad altri momenti).
Ora, poi, con la intelligente riforma Moratti, secondo la quale tutti i docenti devono insegnare per 18 ore, la cattedra del ginnasio può essere frazionata anche in cinque spezzoni. E’ la fine del liceo classico, ma non solo …. Tra cinquant’anni si vedranno i guasti.
Berlinguer si era limitato a distruggere i licei. La Moratti ha distrutto i tecnici e i professionali. Poi è venuta la Gelmini … e dopo di lei, al suo passaggio,non cresce più nemmeno l’erba. E a me viene in mente, come degna epigrafe per la scuola italiana, una splendida canzone del mio amato Brel: l’air de la bêtise, ovvero l’inno all’idiozia.

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Sul declino degli studi classici

Sul declino degli studi classici
Su Repubblica del 30 settembre è stato pubblicato un articolo del professore Bartezzaghi e una brevissima intervista al professore Canfora a proposito del “crollo” delle iscrizioni al liceo classico. Il primo ha esposto – in maniera un po’ “timida” e riduttiva, a mio parere – le ragioni di questa “fuga dalla cultura umanistica”; al secondo si è concesso pochissimo spazio. Magari fosse stato pubblicata una sua analisi complessiva della situazione, approfondita e documentata come sono di solito i suoi scritti.
Che le iscrizioni al classico diminuiscano non è, in sé, un fatto negativo. Gli studi classici sono per natura elitari, e riservati agli appassionati. Come la musica, o l’arte. Finalmente genitori insensati smetteranno di costringere figli riluttanti a imparare a memoria nozioni ostiche, perché estranee ai loro reali interessi. Finalmente! Però … il problema non è l’addio a Tacito o a Cicerone (o a Omero, o a Tucidide). Il problema è ben più complesso, e riguarda il modello di cultura che si intende trasmettere alle giovani generazioni (e che riguarda, più in generale, il modello di società che si intende costruire).
Checché se ne dica, il liceo gentiliano era una scuola di eccellenza, decisamente superiore ai modelli di scuola di altri paesi da noi stupidamente considerati “più avanzati” e civili (1). Sarebbe stato sufficiente introdurre piccole modifiche (incremento delle materie scientifiche e di UNA lingua straniera), fare di tutto perché questo indirizzo di studi fosse accessibile a chiunque avesse propensione e interesse autentico per il classico, a prescindere dall’estrazione sociale … E invece no. Da venti anni circa si è iniziato a smantellare con pervicacia il modello di cultura umanistica, per sostituirlo con un altro, scopiazzato soprattutto dalla scuola americana e dalla cultura anglosassone. Caratteristiche fondamentali di questo modello sono:
- L’ignoranza più crassa e totale del passato, anche di quello recente (2), la distruzione sistematica e totale del sapere storico. Ai ragazzi viene sistematicamente impedito di acquisire due categorie fondamentali del pensiero umano (di quello evoluto, almeno): il tempo e lo spazio (perché anche la geografia è stata di fatto eliminata dai programmi scolastici)
- Insieme alla conoscenza e alla riflessione sul passato viene radicalmente minato il pensiero critico, la consapevolezza delle nostre e delle altrui radici, la capacità di organizzare le proprie conoscenze in un insieme organico e sistematico, la capacità di “leggere” i fenomeni del nostro tempo , e, in sintesi, anche la “virtù” politica (non a caso i Greci e i Latini consideravano lo studio della storia come una forma di prosecuzione dell’attività politica). Al sapere storico, necessariamente problematico e relativo, si sostituiscono le certezze “assolute” di un (presunto) sapere tecnico – scientifico, fatto di nozioni indiscutibili: vedi la mania dei test (spesso non esenti da sciocchezze madornali) in cui la risposta “giusta” è una sola – tertium non datur – come preteso strumento di selezione dei “migliori” (cioè, il più delle volte, di persone che hanno come virtù principale un’eccellente memoria, insomma degli “enciclopedici ignoranti”)
- L’ignoranza generalizzata della lingua italiana, causa principale dell’impossibilità, per i docenti di lingue vive e di lingue morte, di esercitare il loro mestiere: non può apprendere nessuna lingua, né antica né moderna, chi non possiede una lingua madre. Quindi è inevitabile la decadenza del latino e del greco (come si possono insegnare la consecutio o gli aspetti verbali del greco a chi non sa usare, o più spesso ignora del tutto i verbi italiani ? ) Non è una questione di metodo, e sono ridicolmente inefficaci quei (sedicenti) metodi “moderni” e “facili” con i quali si pretende di “rinnovare” la didattica del greco o del latino. Si può forse imparare a suonare Mozart o Beethoven in modo facile, senza fatica? Non ha senso la ricerca del facile e del piacevole. E’ la passione a far superare gli ostacoli, a spingere a ulteriori conquiste in un percorso difficile. Non si possono leggere i tragici, né i filosofi, né i grandi del passato, senza un lungo studio e un paziente esercizio. Ne vale la pena. Ma è ugualmente impossibile imparare una lingua moderna in modo decente, senza studiare il funzionamento di un codice differente e senza “trasferirsi” – con studio e fatica – in un universo mentale e in un contesto diversi dai nostri (a meno che il “modello” di riferimento non sia costituito dai nostri politici, che sfidano impavidi il ridicolo ogni volta che dicono due parole in inglese). Le responsabilità di questo degrado sono equamente divise tra destra e sinistra. Particolarmente colpevoli una certa pseudocultura progressista, residuato del peggio degli anni Settanta (Marx, però, leggeva tranquillamente in lingua originale Democrito e Appiano !) e certi “luminari” della linguistica, i quali, scambiando il mondo della scuola reale con il piccolo orticello delle loro ricerche universitarie, hanno tuonato per decenni contro l’insegnamento della grammatica. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.
- La superficialità, l’approssimazione, la ricerca del “moderno” a tutti i costi, il fastidio per “l’antico” : se, ad esempio, un docente – gufo pensa di mettere in scena con gli studenti una tragedia greca, bisogna“mescolarla”con una riscrittura moderna dello stesso dramma, ad esempio “contaminando” l’Antigone di Sofocle con quella di Anouilh: risultato inevitabile, un mostriciattolo privo di senso. Ma perché mai a un ragazzo di diciassette o diciotto anni dovrebbe risultare più comprensibile la problematica di un intellettuale vissuto nella Francia collaborazionista degli anni ’40, rispetto a quella dell’Atene classica? Il passato è una poltiglia uniforme, ai suoi occhi, senza sostanziale differenza tra un passato recentissimo e uno remoto di millenni.
La catastrofe della scuola non è iniziata con i ministri berlusconiani. Essi hanno solo completato l’opera di devastazione efficacemente iniziata da Berlinguer: la diversa distribuzione dei periodi storici da studiare nell’arco del biennio e poi del triennio, con la motivazione (illusoria) di attribuire maggiore importanza alla storia contemporanea ha, di fatto, azzerato tout court l’insegnamento della storia intera. Perché essa, come la natura, non “fa salti”, e non è possibile insegnare a bambini provenienti dalla media, in soli due anni, neanche per cenni essenziali, oltre tre millenni di storia (se si esclude la preistoria), cioè dalle grandi civiltà orientali ai Comuni. Ma, soprattutto, gli adolescenti non possiedono i “pre –requisiti”mentali, e bisogna aiutarli a conquistarseli. L’insegnamento della storia è il più faticoso, lungo e difficile in assoluto. Il biennio gentiliano prevedeva solo la storia antica (due ore settimanali, e altre due ore per la geografia dei continenti extraeuropei), e di fatto costituiva un’ indispensabile operazione propedeutica allo studio successivo: acquisizione delle categorie spazio – temporali, logiche (causa – effetto), abitudine alla problematicità e all’indagine “scientifica” (analisi delle fonti), apprendimento di uno schema cronologico generale in cui inserire eventi e personaggi erano premesse indispensabili allo studio delle epoche più recenti. Ora si insegna “geostoria” in sole tre ore settimanali: preistoria, storia antica e medioevale in uno strano cocktail con nozioni elementari di geologia e geografia: il risultato è un guazzabuglio mentale di cui i ragazzi non sono certo i principali responsabili. Poi ci si scandalizza o si ride delle “perle”dei nostri maturandi.
Con la Moratti e la Gelmini, è stata la catastrofe: l’assurda frammentazione delle cattedre ha comportato una folle parcellizzazione del sapere, ostacolando, negli adolescenti, l’acquisizione di ogni capacità di sintesi e di organizzazione di ciò che hanno appreso. Poi è venuta la “buona scuola” di Renzi e della sua ministra (di cui non ricordo nemmeno il nome: ricordo solo una sua esortazione – degna di Maria Antonietta – all’utilizzo del tablet, nel corso di una sua visita a Catania, agli alunni di una scuola – ghetto, che spesso non sono in grado nemmeno di comprare i libri): dopo di loro non crescerà più l’erba, e occorreranno decenni per cancellare gli effetti funesti di questa distruzione delle menti giovanili. Forse in un lontano futuro i paleoantropologi si arrovelleranno per capire come mai i nostri resti fossili mostrano un’ evidente involuzione rispetto a quelli dell’Homo Sediba.
A questo punto è inevitabile la domanda: cui prodest? A quale disegno politico è funzionale il rimbecillimento generale, la dequalificazione della scuola, l’umiliazione dei docenti, la diffusione dell’ignoranza? A chi giova assumere l’azienda come paradigma della società intera? Non diventa lecito, a questo punto, sospettare che tutto ciò sia l’effetto di una ristrutturazione del capitalismo nostrano, straccione e ottuso? La distruzione della Costituzione, la cancellazione dei diritti, la creazione di “caporali” (proprio nel senso dell’espressione di Totò) in ogni campo sono segni dello stesso fenomeno.
“ … Loro capiscono che la stupidità, la ribalderia, la complice benevolenza della canaglia giova di più che la virtù, la saggezza e ostilità della gente per bene. Naturalmente uno stato dove si vive così non è lo stato ideale! Però è proprio questo il modo migliore per difendere il loro potere.
(La citazione , di un’attualità sconvolgente, è tratta dall’Athenaion Politeia del Vecchio Oligarca, irriducibile avversario della democrazia nell’Atene classica. La traduzione, ovviamente, con qualche lieve modifica, è di Canfora).
Lucia Cutuli

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Italiano ginnasio: IL PUZZLE (esercizio sulla struttura di un testo)

Premessa: uno dei problemi più rilevanti, in IV ginnasiale, è quello di riuscire a insegnare come strutturare un testo (di natura argomentativa o di analisi : il classico “tema”. insomma). Spesso gli adolescenti scrivono tutto ciò che viene loro in mente senza seguire un ordine preciso, in maniera “casuale”, in modo tale da creare quello che io chiamo “l’effetto elenco”, un’affermazione dopo l’altra (poi c’è …). Questo esercizio ha lo scopo di intervenire su quella che la retorica antica chiamava “dispositio” : dati già da me i contenuti (eliminato, quindi, per il momento, il grosso problema della “inventio” ), ma in modo frammentario e caotico, bisogna disporli in modo tale da ottenere un testo logicamente ordinato e coerente, inserendo, infine, gli opportuni connettivi per dare coesione al discorso. Importante: il testo del puzzle deve essere stampato su una sola facciata di ciascun foglio, in modo tale che sia possibile ritagliare i vari “pezzi”.

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La percezione del tempo e dello spazio ne I Malavoglia

La nozione di tempo, nel senso in cui oggi viene comunemente intesa, è estranea all’orizzonte mentale dell’anonima voce popolare cui Verga affida il racconto delle vicende dei Malavoglia. Questa voce narrante è espressione di un mondo “primitivo” che ha del tempo una percezione elementare e indefinita, fondata sui ritmi naturali del giorno e della notte, e sull’alternarsi delle stagioni, che si ripetono sempre uguali a se stesse: una dimensione, in un certo senso, atemporale e immobile, che possiamo definire il tempo della tradizione (da che mondo è mondo, sempre… sempre), tale però da suggerire precise norme comportamentali (il rispetto dei valori dell’antica società rurale patriarcale) alle quali adeguarsi. Il divenire storico, il presente, è visto come decadenza e involuzione rispetto a un passato mitizzato e idealizzato (Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi sulla strada vecchia di Trezza… Adesso non rimanevano che i Malavoglia di padron ‘Ntoni… Ora che i cristiani avevano imparato a mangiare carne il venerdì come tanti turchi… Ai miei tempi non c’erano tanti lampioni, né tante scuole… e si stava meglio… La ferrovia da una parte e i vapori dall’altra. A Trezza non si può più vivere, in fede mia!)
È l’orizzonte temporale in cui affonda le sue radici la sapienza popolare, espressa nei proverbi (Il mare è amaro, e il marinaio muore in mare… Il tempo si porta via le cose brutte come le cose buone… Un tempo si diceva: ”Ascolta i vecchi e non sbagli”). La deroga da questa saggezza tradizionale conduce al fallimento e alla rovina. Tutta la vicenda dei Malavoglia è proprio un tentativo di sfuggire a questo “destino immutabile”, tentativo che si conclude con la sconfitta (Chi lascia la via vecchia per la nuova…) di tutti coloro che cercano di sottrarsi alla loro condizione. Si salvano solo Alessi e Nunziata, perché ricostituiscono la situazione originaria, tornano, cioè, alla situazione di partenza.
Affine e strettamente connesso a quello della tradizione è il tempo della consuetudine, di tutto ciò che si ripete abitualmente, come i gesti umani (il sabato poi, quando arrivava il giornale… don Franco spingevasi sino ad accendere mezz’ora, ed anche un’ora di candela… Fra poco lo zio Santoro aprirà la porta e si accoccolerà sull’uscio a cominciare la sua giornata…) e i fenomeni atmosferici legati alle stagioni o alle ore del giorno e della notte (Quando era maltempo, o che soffiava il maestrale… Sull’imbrunire, come la Provvidenza tornava a casa…)
Il trapasso al tempo del racconto, che indica di solito un peggioramento della situazione, è costituito da avverbi quali “adesso… ora… finalmente… intanto…” o da locuzioni temporali (Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron ‘Ntoni… il giorno dopo… finalmente arrivò da Napoli la prima lettera… dopo un po’ di tempo… Intanto l’annata era scarsa… una volta… una sera…).
Il tempo del racconto è quello percepito da una comunità “primitiva”, privo di riferimenti cronologici precisi come li intendiamo noi oggi (l’anno è indicato solo in quanto legato a eventi memorabili, come ad esempio l’anno del terremoto).
Un tempo scandito:
 dai ritmi naturali del giorno e della notte o dalle consuetudini e dalle feste religiose (un’ora di notte… era suonata da poco l’Ave Maria…);
 dall’alternarsi delle stagioni (la sera scese triste e fredda… era una bella sera di primavera… la Pasqua era vicina… i Morti non sono ancora venuti… Bastianazzo è morto in un giorno segnalato, la vigilia dei Dolori di Maria Vergine, l’affare dei lupini viene concluso in occasione della festa della Madonna dell’Ognina, le colline erano tornate a vestirsi di verde…);
 dalla posizione degli astri nel cielo (… la stella della sera era già bella e lucente… il Tre Bastoni era ancora verso l’Ognina colle gambe in aria, la Puddara luccicava dall’altra parte, cioè, rispettivamente, Venere, la costellazione di Orione – chiamata anche “I Tre Re” – e le Pleiadi: astri tipici del cielo invernale);
 dai mesi e dai giorni della settimana (una brutta domenica di settembre… la prima domenica di settembre…).
Anche le trasformazioni del mondo vegetale determinate dal mutare delle stagioni concorrono alla determinazione del tempo, ma non senza vistose inesattezze, che rivelano la scarsa familiarità dello scrittore – il quale viveva abitualmente a Milano – con la natura e la flora della sua terra d’origine, o il suo totale disinteresse per questi aspetti del racconto . L’unica data precisa – il dicembre del 1863 – è quella che dà inizio alla vicenda dei Malavoglia: la chiamata alla leva militare di ‘Ntoni, ed è un’indicazione cronologica che si riferisce ad un tempo diverso, estraneo alla mentalità del borgo, cioè quello che possiamo definire il tempo della storia, che ha fatto irruzione nell’arcaico, immobile mondo del borgo marinaro con l’unità d’Italia. Ma la storia dei grandi eventi politici e militari è affare degli altri che abitano “fuori regno”, “lontano”, ed è percepita dai pescatori di Trezza solo nei suoi effetti negativi: l’obbligo della leva, che sottrae alle famiglie per periodi lunghissimi le braccia più valide (Per cinque anni bisogna fare come se vostro figlio fosse morto), il dazio sulla pece, che scatena una mezza rivolta in paese, la guerra contro un nemico di cui nessuno conosce nemmeno il nome, che costa la vita al giovane Luca (battaglia di Lissa, 20 luglio 1866), l’epidemia di colera del 1867 di cui resta vittima Maruzza la Longa. Ma queste date non vengono mai citate esplicitamente, anzi restano avvolte in un alone vago e indeterminato (quando i Malavoglia apprendono ufficialmente, alla capitaneria del porto di Catania, la notizia della morte di Luca sono trascorsi “più di quaranta giorni”). Se vogliamo ricostruire la cronologia della storia dei Malavoglia, possiamo fare affidamento su questi pochi “punti fermi”, e infine –soprattutto -, su un’altra indicazione: l’anno di nascita di Mena, e di Barbara la Zuppidda, che è sua coetanea, cioè l’anno del terremoto. In verità di terremoti, più o meno catastrofici, è costellata l’intera storia della Sicilia. Quello più congruo alla vicenda del romanzo, memorabile per i suoi effetti distruttivi, non può che essere il terremoto dell’11 gennaio del 1848. Nella primavera di quello stesso anno, presumibilmente verso la fine di maggio o l’inizio di giugno, nasce Mena. La sua età costituisce il punto di riferimento cronologico più significativo e costante per la ricostruzione della vicenda dei Malavoglia. All’inizio, quando ‘Ntoni parte per la leva – presumibilmente, nei primi mesi del 1864 – la ragazza sta per entrare nel diciassettesimo anno (come osserva padron ‘Ntoni), cioè sta per compiere sedici anni. L’anno successivo, il 14 settembre (vigilia dell’Addolorata) del 1865, avviene il naufragio della Provvidenza. Che si tratti del 1865 si può dedurre dagli indizi disseminati nel seguito del romanzo. Nel capitolo VIII (era passato del tempo, e il tempo si porta via le cose brutte come le cose buone…) si parla del fidanzamento di Mena, che ha da poco compiuto i diciotto anni, il giorno dell’Ascensione (festa che si celebra quaranta giorni dopo la Pasqua, quindi in un periodo compreso tra la fine di maggio e l’inizio di giugno). Nello stesso giorno si sparge la voce della grande battaglia combattuta “lontano”, nella quale, come si saprà in seguito, ha perso la vita il giovane Luca (battaglia che Verga, con notevole disinvoltura, anticipa di un paio di mesi: in realtà essa fu combattuta il 20 luglio di quell’anno). Nel successivo 1867, “l’anno del colera”, muore Maruzza la Longa e il giovane ‘Ntoni, sempre più insofferente della dura vita del pescatore, parte per cercare fortuna, e poi ritorna, non sappiamo quanto tempo dopo. Nei capitoli successivi, in cui il protagonista diventa ‘Ntoni, i riferimenti temporali scarseggiano. In questo lasso di tempo si verifica il secondo naufragio della Provvidenza, in un anno imprecisato (anche in questo caso notiamo qualche incoerenza dovuta probabilmente al fatto che questo episodio fu pubblicato a parte, nel 1881, come racconto autonomo, con il titolo di “Poveri pescatori”, prima di essere inserito nel romanzo), il “traviamento” di ‘Ntoni, il suo coinvolgimento nel contrabbando, lo scontro e il ferimento di don Michele, l’arresto e la condanna a cinque anni di carcere, la fuga di Lia. Un’ulteriore, ultima indicazione cronologica ci riporta al 1974: Mena, che ha ventisei anni, “non è più da sposare” e rifiuta la proposta di matrimonio di Alfio Mosca. Negli anni successivi (imprecisati) muore padron ‘Ntoni, Alessi riscatta la casa del nespolo e sposa la Nunziata. ‘Ntoni ritorna per dare l’addio definitivo a ciò che resta della sua famiglia, e al paese natio. Possiamo ipotizzare, come data approssimativa, il 1877 o il 1878: la vicenda dei Malavoglia, insomma, si snoda all’incirca per un arco temporale di circa quindici anni. Fin qui la ricostruzione dei fatti, fondata su pochi dati certi e alcuni indizi interni.
Ma per quanto riguarda le indicazioni temporali e topografiche, come si è già detto, si possono notare nei Malavoglia “errori” vistosi , a volte probabilmente motivati da precise scelte artistiche dell’autore (a volte per essere fedeli al vero bisogna “inventare” la realtà), a volte francamente gratuiti e incomprensibili.
Prima di tutti, Il Capo dei Mulini. La Provvidenza salpa dal porticciolo di Aci Trezza il 14 settembre, a un’ora di notte, dopo l’Ave Maria (cioè, verso le 19), e padron ‘Ntoni si augura che possa oltrepassare il Capo prima di mezzanotte. Cinque ore di traversata con una barca a vela, e due uomini robusti ai remi per coprire una distanza inferiore a un miglio! In realtà, posso affermare, per esperienza personale, che dal porticciolo di Trezza si può raggiungere Capomulini e addirittura oltrepassarla, anche con un piccolo canotto a remi, in poco più di un’ora, un’ora e mezza se la corrente è contraria. Viceversa, il secondo naufragio della Provvidenza si verifica all’altezza di Agnone (Bagni), davanti allo Scoglio dei Colombi, sopra il quale si trova la guardiola degli esattori del dazio. Padron ‘Ntoni, ferito, può essere riportato a casa su una barella improvvisata in meno di un’ora. Nella realtà, Agnone Bagni dista da Aci Trezza più di quaranta km, ed è una lunga spiaggia sabbiosa; lo Scoglio dei Colombi si trova a Santa Maria la Scala, sotto la timpa di Acireale, dove avrebbe senso immaginare una guardiola di doganieri sulla costa rocciosa, al di sopra dello scoglio. Una simile guardiola esiste infatti, però è ubicata da tutt’altra parte, sulla statale 114, a Pantano d’Arci, a sud di Catania (zona industriale, a circa diciotto Km da Aci Trezza): si tratta di un piccolo edificio a pianta circolare (l’ex “casello del dazio”) oggi utilizzato come bar, ben visibile e noto a chi si dirige verso la città, o se ne allontana in direzione di Siracusa . Lo scrittore ha fuso insieme quattro luoghi che avevano colpito la sua immaginazione, modificando la realtà per adeguarla ai suoi fini artistici. Ma, curiosamente, lo Scoglio dei Colombi ricompare, nelle immediate vicinanze del paese, nell’episodio del contrabbando. ‘Ntoni e i suoi complici sono acquattati nella sciara, al Rotolo (che nei Malavoglia sovrasta Aci Trezza, mentre nella realtà è una contrada nei pressi di Ognina, a qualche Km di distanza) aspettando che arrivi la barca dei contrabbandieri con la merce. Data l’oscurità fittissima, il giovane teme che l’imbarcazione trovi difficoltà ad approdare proprio sullo scoglio citato. Nel corso dello scontro con le guardie vengono esplosi dei colpi di fucile, chiaramente uditi dagli abitanti di Trezza (e quindi vicinissimi). Ma evidentemente il realismo nella descrizione dei luoghi è l’ultima delle preoccupazioni dello scrittore. O forse è il suo “punto di vista” a determinare l’errata percezione dei luoghi e delle distanze: come se lo scrittore, che aveva visitato Aci Trezza, ma viveva abitualmente a Milano, e, quando tornava in Sicilia, soggiornava a Vizzini, avesse un ricordo “deformato” dei luoghi, percependo come “più vicini” quelli ubicati a sud di Catania, e “più lontani” quelli ubicati a nord, accorciando le distanze tra Agnone e Trezza, e dilatando a dismisura quelle tra Trezza e Capomulini. Anche il mare verde come l’erba suggerisce un punto d’osservazione “dall’interno”, o almeno distante dalla costa acese. Perché il mare di Aci Trezza – e dei paesi vicini – non è mai verde, data la natura dei suoi fondali e dei suoi scogli basaltici: è proprio blu, di un intenso blu zaffiro che può diventare grigio plumbeo quando il cielo è nuvoloso, o assumere i più svariati colori del cielo all’alba o al tramonto, ma non il verde.
Si ha la netta sensazione che Verga, nell’ambientazione del suo romanzo, si fondi più sui suoi ricordi che su una conoscenza puntuale dei luoghi. O forse il suo “sguardo soggettivo” su di essi (per cui considera “vicino” quello che gli è familiare o a cui è affettivamente legato, “lontano” quello che è estraneo o meno abituale alla sua esperienza) è il risultato del suo sforzo di immedesimazione nel “punto di vista” dei suoi personaggi “primitivi”, per i quali le nozioni di vicinanza e lontananza sono labili e soggettive.
Il loro piccolo mondo è costituito da Aci Trezza, il cui cuore pulsante è la piazza, con la chiesa, sui cui gradini ci si siede a chiacchierare, e il muricciolo del campanile, e il vecchio olmo, e gli ulivi, e le botteghe che si affacciano sulla piazza: l’osteria della Santuzza, la spezieria, la bottega del barbiere (il Pizzuto) e quella del beccaio con la sua tettoia che offre riparo dalla pioggia e dal sole cocente. Tutt’intorno, disposte a semicerchio, le povere case dei pescatori (tra le quali la casa del nespolo) separate da strette viuzze (come la via del Nero). Sotto la spianata della piazza (che non è pavimentata, bensì a “fondo naturale”), sul greto, dove sono ammarrate le barche davanti al porticciolo, si trova la fontana, e, più avanti – dove ora c’è la Capitaneria di Porto – i lavatoi. Davanti, il mare, presenza costante e quasi umana con i “fariglioni”. Tutt’attorno al paese, piccoli poderi coltivati (viti, ulivi, fichidindia) strappati a fatica al dominio della sciara selvaggia, fiorita di ginestre e coperta di macchia mediterranea che caratterizza la collina (che, nella topografia verghiana, è il Rotolo). La sciara si estende fino al mare, in quel breve tratto che separa Aci Trezza dalla vicina Aci Castello, di cui Trezza è sempre stata, ed è tuttora, frazione. Ma Verga ne fa due comuni autonomi . Qui, presumibilmente (altrimenti gli spari non si sentirebbero in paese) va collocato l’episodio del contrabbando e il “vagabondo” Scoglio dei Colombi. Oltre Aci Castello, è “vicina” l’Ognina (che dista 7,5 km da Aci Trezza), frequentata spesso dai personaggi del romanzo, e – erroneamente – Pantano d’Arci e Agnone Bagni (come si è precedentemente detto). Dalla parte opposta, a nord, è “relativamente vicina” Capomulini (per raggiungere la quale nei Malavoglia occorrono diverse ore di navigazione, ma in realtà distante tre quarti di miglio via mare, e un paio di km via terra). Relativamente vicina è Riposto, dove si può andare e da dove si può tornare con la barca in una settimana (poco più di 26 km); così pure Aci Catena, dove Alfio Mosca va a rifornirsi di vino da vendere alla Santuzza (ma Aci Catena, che è distante circa 7 km non è mai stata, nemmeno nell’Ottocento, rinomata per il vino, bensì per i suoi limoneti); così come Aci Sant’Antonio (9 Km), citata a proposito della vecchietta sorpresa e uccisa in casa dai malviventi perché aveva aperto la porta al gatto; così come Trecastagni (circa 15 km) nominata – indirettamente – per la fiera dei bovini che si teneva il giorno di S. Alfio. Come si può notare, i luoghi considerati più o meno vicini si trovano a una distanza massima di 15 km, con le eccezioni significative di Riposto (perché frequentata dai pescatori) e di Pantano d’Arci e Agnone (per una scelta “artistica” di Verga). Sono invece lontane, perché estranee al mondo dei Trezzoti, Catania, la città caotica, anzi “la città” per eccellenza, in cui è facile perdersi, in senso metaforico (Lia) e reale (padron ‘Ntoni) , che nella realtà non dista più di 10 – 11 km, e, ancor più, La Piana e Bicocca (15 – 16 km circa) dove Alfio Mosca va a lavorare in occasione dell’allestimento dello scalo ferroviario. Lontane, ma ancora entro i confini del mondo dei Malavoglia, si trovano anche Siracusa (79 km circa) e Messina (91 km), in quanto città portuali.
Sono invece “fuori regno” Roma (796 km), citata solo incidentalmente, e Napoli (588 km), dove il giovane ‘Ntoni va a prestare il servizio di leva: città grande “più di Trezza e Aci Castello messe insieme” è considerata un po’ il paese della cuccagna, dove le donne vanno a passeggiare in abiti di seta, e la gente va in carrozza, e c’è il teatro di Pulcinella, e si vende la pizza …
Ai “confini” del mondo dei Malavoglia – che è costituito da città di mare – si trovano a nord Trieste, sempre, comunque, città portuale (1.443 km circa), e il luogo remoto di cui nessuno conosce il nome, dove si è combattuta una grande battaglia contro nemici sconosciuti (l’isoletta croata di Lissa, 1350 km); a sud est un’altra grande città portuale, Alessandria d’Egitto (oltre i tremila km), che sembra rappresentare, per la gente del borgo, l’estremo limite del mondo conosciuto . Al di là, dove “finisce il mare”, c’è l’ignoto, o il nulla. O il “regno in capo al mondo” delle fiabe, un “altrove” meraviglioso alternativo al mondo reale, e dal quale non si torna più. Come da quell’altro viaggio “più lontano di Trieste e di Alessandria d’Egitto”, che ha come approdo definitivo una nicchia sotto il marmo liscio della chiesa.
Mariangela Agnone

Schema della I sequenza dei PROMESSI SPOSI (capp.1 – 8)

Cap. I SCHEMA (temi dominanti e cose notevoli)

Paesaggio (Antitesi natura – società.Rousseau. Contro il Seicento egli Spagnoli. La “modestia” insegnata alle fanciulle ecc. Cfr. paesaggio cap. IV e cap. VIII )
La passeggiata di don Abbondio
L’incontro con i bravi
Le gride contro i bravi
“Questo matrimonio non s’ha da fare”
Storia di don Abbondio
Ritorno di don Abbondio a casa sua
Perpetua
Temi dominanti e cose notevoli
Antitesi natura – società. Rousseau. Il Seicento e la dominazione spagnola. La “modestia” insegnata alle fanciulle e le “carezze” sulle spalle di padri e mariti. Cfr paesaggio cap. Iv e fine VIII
Cfr. Passeggiata di fra Cristoforo
La violenza dei potenti. Il Seicento e gli Spagnoli. Impotenza delle leggi. La giustizia.Scrupolosa documentazione storica.
La società del Seicento. Don Abbondio “vaso di coccio”e la religione come rifugio. La casa – rifugio
Il buon senso popolare

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