Quarta lezione U.P.G.C. 2011 Il mito di Edipo

1                                                               IL MITO DI EDIPO

 

A  Laio, re di Tebe, l’oracolo aveva predetto che, se avesse generato un figlio, questi, divenuto adulto, lo avrebbe ucciso e avrebbe sposato sua madre. Inorridito, quando il piccolo Edipo venne alla luce, Laio gli forò le caviglie per farvi passare una cinghia e lo legò per i piedi, quindi lo diede a un servo perché lo  abbandonasse  sul monte Citerone, dove egli era solito portare al pascolo il gregge del padrone. Ma il servo ebbe pietà del bambino e lo consegnò a un altro pastore, schiavo del re di Corinto, perché lo portasse lontano e nessuno sapesse più nulla di lui. Il re di Corinto, che si chiamava Polibo, non aveva figli e desiderava ardentemente averne uno. Lo schiavo consegnò il piccolo a lui e a sua moglie Merope , che furono felici di adottarlo. La ferita alle caviglie, opportunamente curata, guarì, ma lasciò una cicatrice, un rigonfiamento perenne che valse al bambino il nome di Edipo, che etimologicamente significa “piede gonfio”. Edipo dunque crebbe alla corte di Corinto, distinguendosi tra i suoi coetanei per intelligenza, forza e fierezza di carattere. Ma un giorno, durante un banchetto, venne a diverbio con un altro giovane. Questi, piuttosto brillo, lo insultò chiamandolo “ falso figlio di Polibo e Merope”. Edipo corse a chiedere spiegazioni ai suoi presunti genitori. Essi lo rassicurarono, restii com’erano a confessare la verità. Ma nella mente del giovane si era insinuato un dubbio, un’inquietudine che non gli dava pace. Senza  dire a nessuno il motivo del suo viaggio, si recò a Delfi, a consultare l’oracolo di Apollo, che era il più importante e famoso di tutta la Grecia. Chiese al dio di rivelargli la verità sulla sua origine, e l’identità dei suoi veri genitori. Ma l’oracolo, senza rispondere alla domanda, gli diede un responso strano e terribile: “Tu ucciderai tuo padre e sposerai tua madre”. Sconvolto, Edipo decise di non tornare mai più a Corinto, dove avrebbe rischiato di macchiarsi dei due crimini più orrendi che un uomo potesse commettere, il parricidio e l’incesto. Mentre viaggiava, a un trivio, lungo la via che dalla Focide portava in Beozia – uno stretto e tortuoso sentiero che si snodava tra i monti – si imbatté in un piccolo gruppo di viandanti: un uomo più anziano, ma ancora vigoroso, dall’aria autoritaria e imperiosa di chi è abituato al comando, e un paio di servitori. I viaggiatori procedevano in senso opposto a quello di Edipo (verso Delfi, cioè) e ingiunsero al giovane, in modo arrogante, di cedere loro il passo. Ne nacque una lite, nel corso della quale l’anziano, spalleggiato dai servi, cercò di spingere Edipo fuori strada. Questi reagì, uccidendo uno dei  servi e il prepotente signore. Spaventato, il superstite fuggì precipitosamente, ed Edipo proseguì il suo cammino. Giunto in Beozia, nei pressi di Tebe, seppe che la città era terrorizzata da un mostro, la Sfinge, che devastava la regione e aveva  corpo di leone, e volto e voce di donna. Ai passanti essa proponeva un enigma: “ Qual è quell’essere che al mattino cammina con quattro piedi, a mezzogiorno con due, al  tramonto con tre?”  Molti avevano tentato di risolvere l’indovinello, ma avevano fallito e la Sfinge li aveva uccisi. Anche Edipo volle tentare la sorte. Affrontò coraggiosamente il mostro, che gli pose la domanda consueta. Senza esitare, Edipo rispose: ” L’uomo: quando è piccolo (al mattino della sua vita), cammina gattonando appoggiandosi  sulle mani e sui piedi, quando è adulto,nel pieno del suo vigore (a mezzogiorno), cammina normalmente con due gambe, da vecchio, quando la sua vita volge al tramonto, per reggersi ha bisogno di un bastone, come  di un  terzo piede”. Era questa la soluzione giusta, e la Sfinge si  gettò giù dal monte e morì. Tebe era salva: quando vi giunse, Edipo fu accolto con grandi onori, come un salvatore. E, dal momento che il re Laio  era morto, poco tempo prima, in circostanze misteriose, senza lasciare eredi, Edipo fu acclamato re. Come era naturale, egli sposò la vedova di Laio, la regina Giocasta, e per diversi anni visse serenamente, governando con saggezza. Ebbe quattro figli, due maschi, Eteocle e Polinice, e due femmine, Antigone e Ismene. La fortuna sembrava sorridergli. Ma un giorno scoppiò una terribile pestilenza, che colpiva gli uomini e gli animali. La terra non dava più frutti, le donne non partorivano più bambini. Sterilità, carestia, morte si erano abbattute sull’intera regione.  I cittadini andavano a supplicare il re, rivolgendosi a lui come a un dio:  egli aveva salvato una volta Tebe. Anche ora doveva trovare un rimedio alla calamità presente. Edipo decise di consultare l’oracolo, e a questo scopo inviò a Delfi suo cognato Creonte, il fratello di Giocasta. Dopo pochi giorni   egli tornò. Il responso del dio era positivo: la pestilenza sarebbe cessata, qualora si fosse scoperto e punito – con la morte o con l’esilio- lo sconosciuto assassino del re Laio. Era lui la causa del “miasma” che contaminava la città. Edipo proclamò un bando: chiunque conoscesse l’identità dell’uccisore di Laio doveva rivelarla,pena le più severe punizioni. Lo stesso colpevole era invitato a confessare, e avrebbe avuto salva la vita: sarebbe stato condannato all’esilio soltanto. Era giusto che Edipo si preoccupasse di onorare la memoria di Laio ,come se fosse  suo padre, dal momento che ne aveva ereditato il regno e la sposa, e aveva generato dei figli dallo stesso grembo che li  avrebbe partoriti a Laio, se il destino gli avesse concesso la gioia di una discendenza. Contro il colpevole egli lanciò una tremenda maledizione, come era ovvio, perché chi aveva osato, una volta, levare la mano contro  il re,avrebbe potuto adesso  alzarla per colpire lui, il nuovo re. Ma come scoprire lo sconosciuto assassino? Erano trascorsi molti anni, Laio era morto lontano dalla sua città, in Focide, mentre andava a consultare l’oracolo di Delfi. L’unico servo superstite era stato molto vago nel raccontare l’accaduto: aveva parlato di predoni assassini, poi, per sua stessa richiesta, non appena si era insediato sul trono il nuovo sovrano, era andato ai lontani pascoli del Citerone , a occuparsi del bestiame del re. Edipo, quindi, mandò a chiamare Tiresia,il famoso indovino, sperando di ricevere da lui indicazioni valide. Tiresia, il vate cieco, giunse alla reggia con il ragazzino che  gli faceva da guida. Ma si mostrava stranamente titubante, poco incline a rispondere alle domande del re. Edipo cominciò a spazientirsi. Dall’iniziale atteggiamento di riverente rispetto verso il portavoce del dio Apollo, passò ai toni bruschi, e infine alle minacce. Tiresia – a cui il re aveva rinfacciato la sua cecità, segno evidente, a suo parere, del fatto che era un falso indovino, un impostore – replicò con estrema durezza: “Tu ritieni di vedere, ma in realtà il vero cieco sei tu, che non ti accorgi di avere ucciso chi non dovevi, e di convivere con chi non devi, e di avere generato figli che sono un abominio agli occhi degli dei. Perché colui che cerchi, l’assassinio di Laio, il “miasma” che contamina  Tebe, sei tu”. Di fronte a simili assurde accuse, l’ira di Edipo esplose senza freni. Accusò Tiresia di complottare contro di lui, d’intesa con il cognato Creonte, per deporlo dal trono e impadronirsi del potere. Tiresia con calma sprezzante rispose che non aveva alcun timore di lui: Edipo non poteva nuocergli in alcun modo. Anzi, la sua sorte avrebbe subito un radicale rovesciamento: da potente sovrano qual era, sarebbe stato espulso dalla città, e avrebbe vagato, come un reietto, cieco e povero, evitato da tutti. Quindi il vate andò via, lasciando Edipo sgomento e nello stesso tempo furioso: il segreto autore di quel complotto,di quelle false accuse non poteva essere che Creonte, desideroso di sottrargli il potere regale. A nulla valsero le proteste di innocenza e le giustificazioni del cognato. Edipo stava per condannarlo a morte, quando sopraggiunse, a placare gli animi e a sedare la lite, con l’autorevolezza che la contraddistingueva, la regina Giocasta.  Rimasto solo con lei, Edipo le raccontò l’accaduto e le confidò i suoi segreti timori (perché, malgrado la sua reazione violenta, era rimasto scosso dalle parole del vate): egli aveva ucciso degli uomini, sia pure per difendersi, un giorno ormai lontano, nella Focide. E se il più anziano, quello più arrogante, che sembrava il capo, fosse stato proprio Laio? Giocasta cercò di rassicurarlo: Laio era stato ucciso da più persone, da malviventi, non da un uomo solo, -così almeno aveva riferito l’unico servo superstite – all’incrocio di tre vie. Non si doveva, poi, prestare ascolto agli oracoli e agli indovini, razza notoriamente bugiarda: anche a lei era stato predetto che avrebbe messo al mondo un figlio parricida e  incestuoso. Ma l’oracolo mentiva: il suo bimbo era morto quando era in fasce, quindi non poteva certo avere ucciso suo padre, né,tanto meno, sposato sua madre. Ma le parole di Giocasta spaventarono Edipo: la lite con gli sconosciuti si era verificata proprio a un crocicchio di tre strade. Ma che aspetto aveva Laio?  “Era un uomo alto e vigoroso,-rispose la donna- con le tempie che cominciavano a diventare grigie, con l’atteggiamento di chi è abituato al comando. Somigliava un po’ a te”. Questa descrizione gettò Edipo nello sconforto: essa corrispondeva a quella dell’uomo da lui ucciso. Per dissipare ogni dubbio, la regina ordinò che si mandasse a chiamare, dai lontani pascoli di montagna, il servo testimone.

Poco tempo dopo, mentre la regina offriva un sacrificio agli dei, giunse un messaggero proveniente da Corinto, per annunciare che il vecchio re, Polibo, era morto, lasciando Edipo erede del suo regno. Sollevata dalle parole del messo, Giocasta chiamò subito il marito: suo padre era morto di vecchiaia. L’oracolo aveva mentito. Edipo accolse la notizia con tristezza e gioia insieme: tristezza per la morte di colui che egli riteneva suo padre, gioia per la fine di un incubo: egli non si era macchiato dell’orrendo crimine. L’anziano messaggero lo esortava a recarsi a Corinto, dove lo attendevano per proclamarlo re, ma Edipo rifiutò:  Merope era ancora viva. Poteva ancora avverarsi la seconda parte della profezia, l’unione incestuosa con la madre. Egli non poteva correre questo rischio. Il vecchio sorrise dei timori di Edipo: “Non temere” tentò di rassicurarlo “Merope non è tua madre. Il re Polibo non aveva con te alcun vincolo di sangue. Io stesso  ti ho consegnato a loro. Desideravano un figlio, e ti hanno adottato”. “ Ma dove, come mi hai trovato?” chiese Edipo, al colmo dell’ansia, mentre Giocasta impallidiva, in preda ad un’angoscia crescente. “ Un pastore, un servo del re Laio ti ha dato a me. Abbiamo trascorso molte stagioni insieme, sul Citerone, dove portavamo al pascolo le greggi dei nostri padroni. Se vuoi conoscere la tua origine cerca quel servo: vive qui, a Tebe.” “Basta!- gridò Giocasta, sconvolta – non chiedere altro! Che importa la tua origine? Non cercare più oltre!”Ma Edipo non poteva più rinunciare alla sua indagine. Doveva scoprire la verità. “Sventurato!-gli disse la regina- ormai solo con questo nome posso chiamarti! Che tu non sappia mai chi sei!” E corse via, in preda alla disperazione. Edipo attribuì il turbamento della donna al suo orgoglio di aristocratica: aveva vergogna delle umili origini del marito, che era un trovatello, forse figlio di schiavi. Ma che importava? Egli si era “fatto da sé” grazie al suo ingegno e al suo coraggio, da vero figlio della fortuna. Ma ora bisognava cercare il servo che conosceva il segreto della sua origine. Era lo stesso – gli dissero – che aveva accompagnato Laio nel suo ultimo viaggio ed era stato testimone della sua uccisione. Ora viveva lontano dalla città, in montagna. Ma già prima erano andati a chiamarlo, per ordine del re che voleva sentire il suo racconto dei fatti, e ormai non poteva più tardare. Giunse poco dopo, infatti, spaventato e poco incline a parlare. Fu lo stesso pastore proveniente da Corinto a interpellarlo, ma egli fingeva di non conoscerlo: il segreto di cui era depositario lo terrorizzava. Infine fu Edipo, spazientito, a costringerlo a rivelare la verità: il bambino che egli aveva consegnato al suo collega-pastore era il figlio di Laio e di Giocasta. I suoi genitori avevano deciso di sopprimerlo, perché l’oracolo aveva predetto che si sarebbe macchiato di due crimini orrendi: il parricidio e l’incesto.  Il miasma, l’abominio che distruggeva Tebe era dunque Edipo. Colui che aveva condotto l’indagine, scopriva, alla fine, di esserne l’oggetto. Ma subito si udirono grida e pianti di donne provenire dall’interno del palazzo: Giocasta si era impiccata, non appena aveva intuito la verità. Al colmo della disperazione, lo sventurato Edipo corse a liberare dal laccio il cadavere della moglie-madre, e, con i fermagli d’oro che trattenevano il  mantello di lei, si cavò gli occhi: non poteva più sostenere lo sguardo dei suoi concittadini, né di alcun altro uomo al mondo, né, una volta morto, nell’Ade, quello dei suoi genitori che egli aveva così oltraggiato. Tenendo fede alla sua stessa maledizione, egli lasciò il trono al cognato Creonte, e andò via da Tebe, cieco e reietto,in volontario esilio, accompagnato da Antigone, la figlia adolescente che più degli altri mostrava fermezza di carattere e profonda pietà filiale.

Dopo un lungo vagabondare, Edipo e la figlia giunsero in Attica, a Colono –  un demo di Atene – presso un bosco sacro che era il santuario delle dee venerande, quelle che un tempo erano chiamate Erinni, e poi, dopo il processo a Oreste, Eumenidi, le dee benigne. Qui, secondo l’oracolo, Edipo avrebbe trovato pace e riscatto. Qui sarebbe morto e avrebbe avuto sepoltura, e la sua tomba avrebbe protetto per sempre la terra che la ospitava, assicurandole prosperità e vittoria sui nemici. A quel tempo ad Atene regnava Teseo, eroe di cento gloriose imprese, sovrano giusto e pio. A lui Edipo chiese ospitalità e difesa,ottenendole: aveva appreso dall’altra figlia, Ismene, la quale, dopo un disagevole viaggio, aveva raggiunto il padre e la sorella, che a Tebe la situazione era allarmante: raggiunta la maggiore età, avrebbero dovuto regnare, a turno, un anno ciascuno, i due figli di Edipo. Ma il minore di essi, Eteocle, spalleggiato dallo zio Creonte, aveva cacciato Polinice, che si era rifugiato ad Argo e aveva sposato la figlia del re Adrasto. Forte del sostegno militare del suocero, muoveva contro Tebe per riconquistarne il trono. Frattanto si era diffusa la notizia del’oracolo riguardante la tomba di Edipo: diveniva questione di vitale importanza, per  i contendenti, impadronirsi del vecchio e riportarlo indietro, non a Tebe (per via della maledizione), ma nelle vicinanze del suo territorio, per potere disporre del suo corpo, dopo la sua morte, e assicurarsene la sepoltura. Tutto ciò suscitava lo sdegno di Edipo: i suoi figli non avevano mosso un dito,per impedire il suo esilio. Non lo avevano soccorso, né si erano mai dati pensiero di lui, mentre, vecchio e cieco, andava errando con l’unico aiuto della giovanissima Antigone, che mendicava per lui. Ora, spinti dall’ambizione e da una follia fratricida che li avrebbe portati alla rovina, mossi da meschini interessi personali, si preoccupavano del padre, che ormai, nei loro confronti, provava soltanto odio e indignazione.

I timori di Edipo e delle figlie si rivelarono, ben presto, fondati. Giunse, con una schiera di armati, il cognato Creonte, il quale, impadronitosi con la forza di Ismene, cercava di rapire anche Antigone, per ricattare Edipo e costringerlo a tornare a Tebe insieme a lui. Solo l’intervento deciso di Teseo e dei suoi uomini poté impedire la realizzazione del perfido piano. Anche a costo di una futura guerra contro Tebe, Atene, la città che si ergeva a difesa dei supplici e degli oppressi, avrebbe protetto il vecchio e le due fanciulle, che erano ospiti sacri e inviolabili. Creonte fu costretto a ritirarsi, furente e deluso. Ma non era ancora finita: poco dopo venne il maggiore dei figli di Edipo, Polinice, a implorare l’aiuto del padre nella lotta fratricida contro Eteocle. Ma Edipo, irremovibile, lanciò contro i figli una tremenda maledizione: essi, che non avevano avuto alcun riguardo per i più sacri vincoli di parentela, e che ora non esitavano a distruggere la propria città per soddisfare la loro sete di potere, e che non esitavano ad alzare la mano omicida contro il proprio fratello, avrebbero conquistato, della terra patria, solo quel tanto che sarebbe stato sufficiente a costituire la loro tomba. Andato via Polinice, si udì rimbombare un forte tuono, a cui presto ne seguirono altri: erano i segni – Edipo ne era perfettamente consapevole – che annunciavano la sua fine imminente. Dopo un commovente congedo dalle figlie, si inoltrò, con la sola compagnia del re Teseo, nel bosco sacro delle dee venerande. Qui egli morì, in modo misterioso e solenne, sparendo alla vista mortale, come se gli dei, dopo tante sofferenze,l’avessero assunto nel loro regno. Qui ebbe sepoltura, ma nessun essere umano poté vedere la sua tomba, che, come predetto dall’oracolo, diventò, per la terra che la ospitava, garanzia di prosperità e difesa perenne contro i nemici.

Questa versione del mito (ma ne esistono diverse varianti) è la più celebre, perché è quella riportata da Sofocle nelle due sue tragedie, “Edipo re” ed “Edipo a Colono”. Ma il mito di Edipo è uno dei più diffusi in Grecia, fin dai tempi di Omero: nell’undicesimo canto dell’Odissea è citata la più antica versione a noi nota. Forse solo le imprese del peloponnesiaco Eracle e del suo corrispondente eroe attico Teseo ebbero maggiore diffusione tra gli antichi.

Dopo la morte di Edipo,dopo un breve periodo di reggenza di Creonte,divampò, tra Eteocle e Polinice,la lotta per il potere.  Secondo i patti, avrebbero dovuto regnare per un anno ciascuno. Ma Eteocle ,allo scadere del suo mandato, come già si è detto,  aveva rifiutato di consegnare lo scettro al fratello. Questi fu costretto all’esilio. Alleatosi con il re di Argo, di cui aveva sposato la figlia, mosse guerra contro la sua città, guidando  contro di essa la spedizione di sette famosi condottieri (impresa che costituisce l’argomento dei Sette contro Tebe di Eschilo). A ciascun guerriero nemico,che minacciava ciascuna delle sette porte della città,   Eteocle contrappose i sei più valorosi guerrieri tebani, riservando per se stesso la difesa della settima porta, contro suo fratello Polinice. La battaglia ebbe esito favorevole per i Tebani, ma i due figli di Edipo caddero entrambi, uccidendosi a vicenda. Si avverò così la maledizione di Edipo: i due sciagurati fratelli avrebbero ottenuto, della terra tebana, quel tanto che era sufficiente a seppellire i loro corpi. Ma Creonte, che assunse il potere dopo la loro morte, decretò che Eteocle, caduto combattendo per la patria, fosse sepolto con i massimi onori. Il traditore Polinice, invece, che aveva mosso guerra alla sua città natale, era condannato a rimanere insepolto, preda per i cani e gli avvoltoi. Chiunque avesse violato il divieto, sarebbe stato condannato a morte. Non avere sepoltura era considerato, a quel tempo, gravissimo: l’anima del defunto non avrebbe trovato pace nell’Ade per migliaia di anni. Con grande coraggio, la sorella Antigone sfidò il divieto di suo zio Creonte e diede sepoltura al fratello. Incurante degli avvertimenti di Tiresia, delle lacrime di Ismene e delle suppliche di suo figlio Emone, che era il fidanzato di Antigone,  Creonte fece chiudere, viva, la fanciulla in una caverna che sarebbe stata la sua tomba. Per evitare una lunga e atroce agonia, Antigone lacerò il suo mantello, ne intrecciò i brandelli in modo da ottenere una fune, e si impiccò.  Troppo tardi, finalmente scosso dai vaticini di Tiresia, Creonte  decise di risparmiare la nipote. Ma quando si  recò alla caverna, per liberare la fanciulla, la trovò già morta. Accanto a lei, disperato, stava suo figlio Emone, che era riuscito a fare una breccia tra le pietre che chiudevano l’ingresso. Alla vista del padre, il giovane si scagliò contro di lui, maledicendolo. Quindi si gettò sulla sua spada e cadde accanto all’amata. Alla notizia della morte del figlio, anche la madre Euridice si suicidò, maledicendo il marito. Creonte era un uomo distrutto: la sua intransigenza aveva distrutto la sua famiglia. ( Questo mito costituisce l’argomento dell’Antigone di Sofocle).  Dopo questi eventi, Creonte continuò a regnare su Tebe.Ma il suo governo fu tutt’altro che felice. Dovette prima affrontare una guerra contro Atene: il re Teseo, mantenendo le promesse fatte a Edipo e dando prova di grande pietas religiosa, marciò – con successo – contro di lui per impedirgli di lasciare insepolti i corpi dei combattenti argivi  caduti durante la spedizione dei Sette. Frattanto i Minii di Orcomeno avevano imposto a Tebe un pesante tributo. Stavolta accorse in suo aiuto il famoso Eracle, che era di origine tebana, e da solo fece strage dei Minii e liberò la città dal tributo. Creonte gli diede in moglie la sua figlia maggiore, Megara, che poi Eracle uccise, insieme ai  figli da lei avuti, in un accesso di follia. Ma questa è un’altra storia (trattata nell’Eracle di Euripide). Secondo un’altra versione del mito, l’intervento di Eracle si era verificato prima, quando era re Eteocle, o durante la reggenza di Creonte, quando Edipo era ancora vivo. Comunque, malgrado la liberazione dal tributo, i guai di Tebe non erano finiti. Dieci anni dopo la spedizione dei Sette, quando ormai Creonte era morto e regnava Laomedonte, figlio di Eteocle, gli Epigoni, figli dei Sette, rinnovarono l’attacco contro Tebe, ed ebbero la meglio. Tebe fu saccheggiata e i suoi abitanti costretti a fuggire. Alla spedizione partecipò Diomede, che ritroveremo, in seguito, tra gli Achei combattenti sotto le mura di Troia. Ma qui ci fermiamo, altrimenti dovremmo occuparci di un altro ciclo, l’epopea degli Atridi e della guerra di Troia.

 

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