Introduzione a Omero Prima lezione UPGC 2012

INTRODUZIONE A OMERO

 

La letteratura greca inizia con due opere straordinarie, l’ILIADE e l’ODISSEA, composte, secondo la maggioranza degli studiosi, verso la fine del Medioevo Greco, in versi  esametri (esametro = verso costituito da 6 unità ritmiche, dette piedi) e attribuite a OMERO.

Chi fosse in realtà Omero, quando e dove sia vissuto, non sappiamo. Anzi, in verità, non siamo nemmeno certi della sua esistenza, e se sia davvero autore di entrambi i poemi.  Gli antichi ci dicono di lui che era un aedo, cieco, originario di una delle isole o delle città dell’Asia Minore  (odierna Turchia) colonizzate dalla stirpe greca degli Ioni, perché il dialetto in cui sono composti i due poemi è sostanzialmente quello ionico (anche se si tratta di un dialetto artificiale, letterario, in cui sono presenti anche elementi eolici ed achei). Che Omero fosse cieco, è pura leggenda: nel mito e nelle tradizioni popolari  sono ciechi i  sapienti, i veggenti, perché la loro (apparente) privazione della vista rivela in realtà il possesso di una vista superiore, divina: vedono e conoscono ciò che sfugge agli altri, dotati di una vista “normale”. A un attento lettore dei due poemi,  dell’Odissea in modo particolare, ricchi di dettagli  e di osservazioni naturalistiche, riesce veramente difficile credere  nella cecità di un autore così attento osservatore e così esperto delle cose di mare. Sulla base di vari indizi, e di notizie forniteci dagli storici antichi (Erodoto, ad esempio) si ritiene oggi che Omero sia vissuto ( o meglio, che i poemi omerici siano stati composti) nell’VIII sec. a. C., cioè tra l’800 e il 700 a. C.

Ma chi erano gli  aedi ? Il termine aedo deriva dalla stessa radice di “ado” = io canto. Si trattava di poeti cantastorie, che custodivano e si tramandavano di padre in figlio un patrimonio di storie, miti, leggende, imprese di eroi. Nel loro girovagare da una corte principesca all’altra, rallegravano i conviti e le riunioni degli aristocratici con i loro racconti. Nell’Odissea ne troviamo in azione due, Femio alla corte di Itaca, e Demodoco  nell’isola dei Feaci, alla corte di Alcinoo. Ma la tradizione usa anche un altro termine per definire simili artisti, rapsodi (da “rapto” = cucire e odé =canto). Secondo il Lesky, (che è lo studioso di letteratura greca che io seguo principalmente), l’aedo cantava, improvvisando e accompagnandosi con la cetra, mentre il rapsodo (colui che “cuciva insieme i canti”) recitava a memoria, con l’accompagnamento musicale, un testo appreso e già fissato in precedenza. In ogni caso, che si trattasse di canto improvvisato sul momento, o appreso a memoria, il poema epico era destinato ad una diffusione orale, non alla lettura.

I Greci avevano già conosciuto una prima forma di scrittura, la lineare B, nell’età micenea   ( XVII – XII secolo a. C., in quell’epoca, cioè, in cui sono ambientati gli eventi narrati nei poemi), ma la scrittura lineare non sembra particolarmente adatta, date le sue caratteristiche, alla poesia.  Si ricordi che essa era una scrittura sillabica, in cui, cioè, ad ogni segno corrispondeva una intera sillaba, ed era integrata da numerosi ideogrammi. Per giunta, essendo una derivazione dall’antica scrittura cretese (la lineare A) inventata per una lingua diversa dal greco, mal si prestava alla scrittura poetica: non solo non si distingueva tra sillabe brevi e lunghe, che sono essenziali nella metrica greca, ma non si potevano segnare né le consonanti doppie, né le consonanti finali delle desinenze. E inoltre, essa era nota solo a pochi, agli scribi di palazzo,  a qualche sovrano, a qualche dignitario di corte, a qualche cantore, forse …   poi la civiltà micenea crollò, a causa dell’invasione dorica (forse) e delle sue contraddizioni interne, e la scrittura lineare restò sepolta sotto le rovine dei palazzi, tanto che di essa si perse ogni memoria. Nei lunghi secoli del “medioevo greco” (XI- IX a. C.) che succedette alla caduta dell’età micenea, i Greci non ebbero più alcun bisogno di scrivere: scomparsi i grandi palazzi principeschi, in cui  gli scribi tenevano la “contabilità” della complessa amministrazione del regno, in una società rurale relativamente semplice e “povera”  qual era quella dei “secoli oscuri”  non era necessario saper leggere e scrivere per gestire campi, pascoli e bestiame di  un “oikos” cioè di un casato di aristocratici: l’oikos  era decisamente più somigliante a una fattoria del Far West che a un palazzo miceneo. E gli aristocratici dell’epoca erano più simili  a rozzi proprietari di ranch che a sovrani assoluti e divinizzati. Dell’ età micenea sopravvissero solo ricordi vaghi, miti e tradizioni orali,( ma nessun Greco di epoca storica sapeva che molti secoli prima era esistita una scrittura, tanto che, parecchio tempo dopo, quando, nel V sec. a. C. furono scoperte, in una tomba antichissima, delle tavolette con  strani segni – iscrizioni in lineare B, sicuramente – lo storico Erodoto li considerò geroglifici egizi). Solo alla fine del “Medioevo ellenico”, alle soglie dell’Età Arcaica, fu introdotta in Grecia la scrittura fonetica, di derivazione fenicia, e solo allora la poesia poté trovare un’adeguata espressione grafica: destinata originariamente alla rappresentazione di una lingua semitica, e quindi priva di vocali, tale scrittura fu modificata e adattata alle esigenze del greco: a ogni segno si fece corrispondere un suono, si distinse tra brevi e lunghe, ecc. Ma essa rimase ancora a lungo appannaggio di pochi.  Per molti secoli ancora la cultura  greca rimarrà prevalentemente orale: poeti, storici e filosofi scriveranno, ma le loro opere, in edizione limitatissima (si trattava di manoscritti!) erano destinate a un pubblico di ascoltatori, non di lettori. Alla fine del V secolo, ad esempio, quando venne a sapere che un tale voleva acquistare i poemi omerici,  Socrate chiese: “Perché mai? Vuole fare il rapsodo?” Il libro, insomma, fino al IV sec. a. C. rimarrà una merce rara.

Ma torniamo al tema principale del nostro discorso, cioè all’Iliade e all’Odissea.

La materia dei due poemi era già molto antica. Sicuramente esistevano e si tramandavano già da molti secoli  racconti in versi riguardanti  imprese di eroici guerrieri e di navigatori avventurosi:  i poemi omerici erano parte  di un ciclo di canti  (nòstoi, i ritorni) che vertevano sulla conquista di Troia e sui travagliati ritorni in patria dei combattenti greci. (1) Tali canti, composti in epoche differenti, da anonimi  cantori diversi, non costituivano un insieme organico e coerente, e rispecchiavano  epoche storiche , società,usanze,  tecniche militari diverse.

Per questo motivo troviamo nei poemi omerici una serie di anacronismi e incongruenze che possono far sorridere, oggi, il lettore colto: gli antichi, che non studiavano né storia né archeologia (perché queste due discipline non erano ancora nate) non se ne rendevano conto affatto. In realtà l’Iliade e l’Odissea sono una sorta di “palinsesto” di memorie storiche diverse.(2). Un esempio: nell’Iliade i guerrieri  si servono del carro come di un taxi. Si fanno portare sul campo di battaglia – cioè a poche centinaia di metri dal loro accampamento – poi scendono e combattono a piedi, faccia a faccia col nemico. Ma non, come sarebbe ovvio aspettarci, con la spada, corpo a corpo, bensì con la lancia, come in un duello ottocentesco tra avversari armati di pistola. Il primo scaglia la sua asta, e, se non ferisce a morte l’avversario, resta lì ad aspettare stoicamente che l’altro, a sua volta, scagli la sua. Metodo di combattimento assurdo, mai praticato nella realtà storica: nell’età micenea si combatteva con il carro, da cui il guerriero scagliava la sua lancia, arma adatta al combattimento a distanza. Ma il Poeta dell’Iliade non ne ha più consapevolezza, perché ai suoi tempi la guerra è essenzialmente uno scontro di fanteria: l’oplita, il cittadino- guerriero ricoperto dall’armatura, combatte a piedi, con la spada, corpo a corpo con il nemico. E guai a chi abbandona il suo posto o volge le spalle: sarebbe bollato come un vile e disonorato a vita. Anche l’arco, normale arma dei combattenti micenei, ora è considerato spregevole e indice di viltà: chi lo usa non è il cittadino guerriero, che combatte faccia a faccia con il nemico, bensì  i  ragazzi non ancora accolti a pieno titolo tra gli adulti combattenti, o gli uomini delle classi inferiori, che sono “cittadini di serie B”, truppe ausiliarie, insomma, non i veri guerrieri. E il Poeta mescola senza saperlo, in uno strano cocktail di epoche diverse, tecniche militari tra loro incompatibili, ora rispettando i dati tradizionali, perché troppo radicati nella memoria collettiva (Odisseo, Eracle e Filottete restano grandi eroi, pur essendo armati di arco), ora discostandosi da essi perché “secondari”  o in conflitto con i valori dei suoi tempi (l’arciere Paride è un vile che colpisce il nemico da lontano, alle spalle: ma Paride non gode di buona fama: ha violato le sacre leggi dell’ospitalità con il rapimento di Elena).

 Ma la materia dell’Odissea è solo in parte  “micenea”. Odisseo (Ulisse per i Latini) non è  un nome greco, né, malgrado le fantasiose etimologie inventate dagli antichi, è interpretabile con la lingua greca: si tratta sicuramente di un nome più antico, appartenente al sostrato linguistico egeo, così come l’eroe che  lo porta. Odisseo/ Ulisse è un eroe composito, costituito da personaggi diversi: l’eroe  miceneo che combatte a Troia e che infine la conquista grazie alla sua straordinaria astuzia  (ma anche l’espediente del famoso cavallo ha dei precedenti egiziani) è l’unico che abbia un aggancio, sia pure molto labile, con la realtà storica; il navigatore audace e amante dell’avventura  è presente in tutta la narrativa dei popoli che gravitano sul Mediterraneo (dall’etrusco Nanno all’arabo Simbad: ma il “modello “ più antico è ancora una volta egiziano e risale al 2000 a. C. circa); il marito creduto morto che torna in tempo per impedire le nuove nozze della moglie e vendicarsi dei pretendenti che vogliono usurpargli il trono è il protagonista di diverse fiabe russe tradizionali  ( ed ha pure un corrispettivo femminile, presente in alcune fiabe italiane, come ad esempio, nella fiaba delle tre melarance); ed infine l’uomo astuto, capace di giocare dei tiri mancini che mettono in ginocchio l’avversario (si pensi al Ciclope) è un personaggio del mito riscontrabile nelle più svariate culture primitive, un trickster, che ci riporta ad un’epoca storica  anteriore all’arrivo dei Greci, ad un contesto religioso e culturale egeo. Ulisse è un po’ tutto questo insieme, e probabilmente è proprio in questo miscuglio di “personalità” diverse che risiede il suo perenne fascino. Su tutti questi molteplici aspetti, però, si afferma la straordinaria potenza creatrice di una grandissima personalità poetica , che riesce a fondere insieme caratteristiche così differenti in modo tale da dar vita a uno dei  personaggi più  straordinari della letteratura mondiale: Omero, appunto, o meglio, il Poeta dell’Odissea (che chiameremo “Omero” per convenzione, pur essendo consapevoli della problematicità e del mistero che ne contraddistinguono la figura). Ed eccoci alla domanda iniziale : chi  era Omero? E’ davvero esistito o i poemi omerici, come sosteneva Vico e i romantici, è l’opera collettiva del popolo greco nella fase aurorale della sua storia? E ancora: era un aedo, che improvvisava volta per volta il suo canto, o un rapsodo che recitava a memoria un testo composto da altri ? E in questo caso, da chi? E chi l’aveva messo per  iscritto, e quando, dato che l’uso della scrittura, nell’età micenea e nei secoli oscuri era così problematico, per i motivi sopra esposti? Oppure la trasmissione del testo era solo orale? E può un essere umano imparare a memoria un poema di  oltre 12000 versi?

Forse, come sostiene il Lesky, – questa a me pare la tesi più convincente – Omero fu “l’ultimo degli aedi e il primo dei rapsodi”, cioè il primo a raccogliere, rielaborare e cantare in forma unitaria e organica le storie tradizionali sull’ira di Achille e il difficile ritorno in patria di Odisseo, affidando ai suoi “successori” un testo in qualche modo “fissato” da recitare a memoria. Potrebbe anche – forse – essere stato il primo a mettere per iscritto i due poemi.

Tra gli studiosi moderni, c’è chi sostiene questa tesi. C’è chi, invece, considera l’Iliade e l’Odissea come esempi di epica orale, messa per iscritto molto più tardi, nel VI secolo a. C., per iniziativa del tiranno ateniese Pisistrato, il quale diede ad una commissione di “esperti” l’incarico di redigere un’edizione “ufficiale” dei poemi omerici, valutando e scegliendo, tra le diverse tradizioni, la più attendibile.

Secondo i sostenitori della prima tesi (che Omero, cioè, fu il primo a scrivere i due poemi, andati poi distrutti in seguito ad un incendio o a un terremoto), gli esperti di Pisistrato avrebbero svolto un lavoro da archeologi – filologi: avrebbero, cioè, cercato, raccolto, confrontato e valutato criticamente i frammenti sopravvissuti, le diverse tradizioni a loro pervenute, per giungere a una stesura il più possibile – presumibilmente – fedele all’originale.

Per i fautori della seconda tesi, al contrario, gli esperti di Pisistrato sarebbero i co – autori, se non addirittura gli autori veri e propri, dell’Iliade e dell’Odissea, che non sarebbero stati, prima del VI secolo, nient’altro che un insieme disorganico di tradizioni orali. In questa prospettiva, Omero diventa una figura evanescente, nulla più di un nome leggendario  a cui attribuire l’epica, creazione orale collettiva del popolo greco nel corso della fase arcaica della sua storia.

A questa dibattutissima questione non è possibile, oggi – e forse non lo sarà mai – dare una soluzione.

Tra i sostenitori dell’oralità di poemi omerici, il più noto è l’americano Milman Parry, il quale, a chi gli obiettava che opere così lunghe non possono essere apprese a memoria, rispose con un singolare esperimento: rintracciò un vecchio cantastorie serbo, analfabeta, che gli recitò – e la narrazione durò una settimana circa – un poema della stessa lunghezza dell’Odissea. Quale prova migliore, secondo il Parry, che anche i poemi omerici fossero “oral composition”?

A sostegno di questa tesi dell’oralità sembra essere il carattere formulare dello stile omerico: ricorrono, cioè, in contesti analoghi, epiteti (il pié veloce Achille, così chiamato anche quando è fermo; la glaucopide Atena, il divino Odisseo dai molti affanni; le donne e le dee dai bei riccioli o dai bei pepli; il mare canuto o color del vino ecc.), parti di verso o addirittura versi interi costituiti da formule ( Frattanto spuntò, figlia di luce, l’Aurora dalle rosee dita; la dispensiera fedele venne a portare il pane …) o scene tipiche (banchetti, vestizione di guerrieri …) Si trattava, evidentemente, di pezzi prefabbricati, un repertorio bell’e pronto a cui  il poeta attingeva, in caso di necessità, nel corso della sua recitazione, spesso in gran parte improvvisata, un aiuto alla creazione estemporanea dei suoi versi: non per nulla le formule coincidono  con emistichi, cioè con “mezzi versi”, concludendosi o iniziando con la cesura (pausa ritmica ). Ad esempio, nel verso (costituito da due formule) ” A lui di rimando rispose / la dea glaucopide Atena” basta sostituire al secondo emistichio “il divino paziente Odisseo” oppure “la saggia Penelope” per formulare un nuovo verso adattandolo a un nuovo contesto.

Che i poemi omerici fossero destinati ad una diffusione orale è fuor di dubbio. Ma erano essi esclusivamente epica orale?

L’Iliade e l’Odissea hanno una struttura elaborata, complessa, fortemente unitaria malgrado le digressioni, caratterizzata da rispondenze e parallelismi anche a distanza: una struttura, quindi, assai diversa da quella, più semplice e lineare, dei poemi esclusivamente orali: In questi ultimi i fatti sono narrati uno dopo l’altro, in ordine diacronico. Nell’Odissea, invece, i canti IX – XII costituiscono un lungo  flash – back (Odisseo narra al re dei Feaci le sue avventure.(3) Già da secoli, inoltre, esisteva un’epica asiatica, babilonese e ittita (Epopea di Gilgamesh, Enuma Elis …), per non parlare di quella egiziana, senz’altro scritta, che avrà certamente influenzato la nascita dell’epica greca. Purtroppo di questa produzione letteraria asiatica conosciamo pochissimo. Uno studioso, il Watkins, ha decifrato un verso di un’opera luvia del XIII secolo a. C.:

” Quando essi tornavano dall’erta Wilusa …”  Wilusa è il nome asiatico di Ilio / Troia; erta, αιπúς, è epiteto omerico di Troia; e il luvio è un dialetto ittita (quello, probabilmente, adoperato dagli antichi Troiani, come sembra dimostrare un’iscrizione rinvenuta alcuni anni fa ). E’ molto probabile, dunque, che questa produzione poetica scritta oggi perduta abbia profondamente influenzato la nascita dell’epica greca

Insomma, è difficile, oggi, sostenere la tesi dell’esclusiva oralità dei poemi omerici. Anche se fino al V secolo essi furono recitati, più che letti (come, del resto tutta la produzione letteraria, storica e filosofica, dell’antichità), è difficile credere che non esistesse nessun testo scritto non solo dell’Iliade e dell’Odissea, ma anche dei canti epici preesistenti che fornirono la materia ai due poemi maggiori. Allo stesso modo, checché ne dicano gli analitici (4), è innegabile che la composizione delle due opere sia frutto di una  straordinaria, grandissima personalità poetica alla quale la tradizione antica dà il nome di Omero, o, tutt’al più, di due : già nell’antichità alcuni eruditi, i χορíζοντες (alla lettera “coloro che dividono)  distinguevano tra Omero (autore, a loro parere, della sola Iliade) e uno sconosciuto “Poeta dell’Odissea” (opinione oggi condivisa dalla maggioranza degli studiosi). In polemica con loro , gli unitari (ne esistono ancora oggi: Lesky è uno di questi) giustificavano le differenze esistenti – soprattutto nella descrizione della società – attribuendo la composizione dell’Iliade all’età giovanile, e quella dell’Odissea alla vecchiaia di Omero.

La società descritta nell’Iliade sembra più arcaica di quella dell’Odissea: è una società aristocratica e guerriera, in cui le classi subalterne non hanno molta importanza, tuttavia non rinunciano ad esprimere le loro critiche e i loro moti di ribellione nei confronti di chi comanda. Esemplare, in tal senso, è l’episodio del plebeo Tersite (che ci viene presentato come un essere ripugnante e deforme), il quale osa rinfacciare al re Agamennone esattamente gli stessi comportamenti che già gli aveva rinfacciato Achille, ma con effetti opposti: Tersite viene picchiato e deriso, Achille può permettersi non solo di insultarlo (“faccia di cane”, “vigliacco”, “cuore di cervo”), ma anche di mettere mano alla spada (se non intervenisse Atena a bloccarlo, lo ucciderebbe) e ritirarsi dal combattimento.

La società dell’Odissea sembra più moderna : ci vengono date più informazioni sulle altre classi sociali, sulla vita quotidiana di nobili e popolani. E’, però, anche vero che diversi sono gli argomenti dei due poemi e che non possiamo aspettarci molte informazioni su aspetti della vita sociale che non rientrano nella tematica dell’opera: è ovvio, ad esempio, che l’Iliade, il cui tema centrale è la contesa tra due re, non si soffermi nella descrizione  della vita del popolo …

Ma, soprattutto, né la società descritta nell’Iliade, né quella dell’Odissea corrispondono a una società realmente esistita nella Grecia antica: convivono tranquillamente, nei due poemi, una molteplicità di istituzioni, usanze, rituali ecc. che risalgono almeno a tre epoche diverse: quella micenea, quella dei secoli oscuri (“medioevo greco”) e quella contemporanea al Poeta (Alto Arcaismo): Penelope, ad esempio, è in una posizione estremamente ambigua: ambita da tutti i notabili delle Isole Ionie (le nozze con la regina consentono l’accesso al trono di Ulisse), sembra la tipica sovrana dell’età del bronzo, trasmettitrice del potere regale. Ma intanto è apparso – alla ribalta della storia – il figlio erede, che rivendica il trono e i beni paterni, (senza molto successo, peraltro) e al quale spetterebbe dare alla madre un altro marito, o rinviarla dal padre di lei, perché sia lui a provvedere alle nuove nozze. Alla fine sarà Penelope a decidere, non senza dubbi e incertezze (più volte il figlio, con piglio da macho capo di casa, tenta di  relegarla alle sue occupazioni, fuso e telaio ..). Arete, la regina dei Feaci, al contrario, sembra incarnare la sovrana di Creta minoica, dato il prestigio di cui gode. Agamennone ha poco del “divino” wanax miceneo, ed è assai più simile a un re – aristocratico “primo tra uguali”, tipico dei secoli oscuri per non parlare, poi, del rito funebre praticato nei poemi omerici, che è l’incinerazione (il cadavere veniva bruciato sul rogo e le ceneri erano raccolte in un’urna), costume in vigore nella Grecia di epoca storica, dal medioevo ellenico in poi (i Micenei erano invece inumatori, cioè seppellivano i defunti in tombe scavate nella roccia o nel terreno) … e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Insomma, nei poemi omerici sono mescolati e confusi tra loro strati di civiltà e di epoche diverse: forse proprio per questa molteplicità di aspetti, proprio per questa inserzione, nel corso del racconto, di tutto il “sapere” che costituiva il patrimonio culturale dei Greci, l’Iliade e l’Odissea sono state definite “enciclopedia tribale”, cioè sintesi e summa della cultura di un intero popolo.

Un discorso a parte meritano i “luoghi” citati o descritti nell’Odissea, che tanta materia di indagine e di discussione hanno offerto  agli eruditi antichi e moderni. Con buona pace degli infaticabili scopritori di “novità sensazionali” che mirano a stabilire fantasiose ubicazioni delle avventure di Odisseo in varie parti d’Europa ( e non solo …), occorre tenere presente quanto segue:

- I poemi omerici sono il risultato di più interventi, di più  autori, in periodi e luoghi diversi, e anche se si ritiene che l’Autore “definitivo” sia uno solo (colui che chiamiamo Omero oppure “il Poeta dell’Odissea), il poema non può non presentare le tracce di diverse rielaborazioni, di interventi e di mani differenti (e quindi anche di diverse ubicazioni);

- Omero (o comunque l’Autore principale dei poemi omerici) era un poeta, non un geografo, e non bisogna aspettarsi da un poeta indicazioni geografiche troppo precise: in secoli molto più vicini a noi, ad esempio, Manzoni si è “divertito” a prendere in giro il lettore,  costruendo il paesello di Renzo e Lucia con un insieme di caratteristiche tratte da due diverse contrade dell’attuale Lecco (Acquate e Olate), facendo del rudere di un’antica torre di guardia il castello dell’Innominato, ecc. Figurarsi Omero! …

- I fatti dell’Odissea risalirebbero alla metà del XIII secolo a. C., cioè a 3250 anni fa (circa): troppi, per consentirci di supporre che l’assetto del Mediterraneo sia rimasto immutato, che la linea della costa attuale sia quella dei tempi degli Achei, che, in una zona altamente sismica e al confine tra zolle diverse la situazione geologica sia quella descritta nei poemi.

In un Mediterraneo pieno zeppo di vulcani sottomarini, in cui, nell’arco di pochi decenni è apparsa e scomparsa l’isola Ferdinandea, come non ipotizzare un qualche sconvolgimento generale, che ha cancellato alcune isole e ne ha creato di nuove?

Aveva ragione il saggio Eratostene (quello che riuscì a calcolare con una approssimazione straordinaria il diametro della terra) : per riuscire a individuare i luoghi dell’Odissea, bisogna prima trovare il cuoiaio che cucì l’otre dei venti di Eolo.

Ciò detto, occorre però prendere in esame i luoghi dell’Odissea. Non per identificarli con luoghi realmente esistenti oggi, ma, al contrario, per comprendere meglio l’opera e il contesto in cui trovò la sua redazione definitiva.

Secondo i più, e sulle orme dello storico Erodoto (V sec. a. C.), il quale affermava che Omero era vissuto al massimo tre – quattro secoli prima di lui, l’Odissea fu composta grosso modo nell’VIII secolo (con una oscillazione di un paio di secoli: c’è, tra gli studiosi, chi propende per il IX, e chi per il VII).: è il periodo in cui la Grecia, dopo i cosiddetti “secoli oscuri” fa il suo ingresso nella storia, e precisamente nell’Arcaismo. Epoca cruciale, di grandi progressi (introduzione della scrittura fonetica, invenzione  della moneta, nascita della polis ….), e di aspre tensioni sociali che trovano una valvola di sfogo nel grande movimento di colonizzazione dell’Italia e della Sicilia e dell’Occidente in genere.In questo contesto, la localizzazione di numerose avventure di Odisseo in quello che per gli antichi era il Far West, il lontano occidente, appare scontata. In particolare, la presentazione della terra dei Ciclopi – in seguito dai Latini identificata con la Sicilia, perché i Ciclopi venivano associati all’Etna – che è descritta come fertile e desiderabile, ma abitata da selvaggi primitivi e cannibali, costituisce un chiaro invito a colonizzarla, a “civilizzarla”. Non c’è, ovviamente, alcun indizio che consenta di identificarla con la Sicilia (che nel poema è citata come Trinachìa, Trinacria, ed è il paese delle vacche del Sole; l’etnico “siculo” è parimenti noto all’Autore: c’è una schiava “sikelè”che si prende cura del vecchio Laerte). Il paese fertile e desiderabile che il Poeta intende indicare ai suoi contemporanei come meta della loro ricerca di terra è, genericamente, l’Italia meridionale, quella che poi verrà chiamata “Magna Grecia”. Naturalmente questa terra “in cui scorre latte e miele” è piena di pericoli e di imprevisti (mostri, selvaggi …), ma si tratta di difficoltà superabili, con destrezza e coraggio, sulle orme di Ulisse. La terra dei Ciclopi, delle vacche del Sole, di Scilla e Cariddi è comunque una terra reale, non un luogo fantastico. Perché nell’Odissea bisogna distinguere tra luoghi realmente esistenti, luoghi mitici e luoghi “a mezza strada” tra i primi e i secondi. Il criterio per tale distinzione è costituito soprattutto dal numero di giorni di navigazione necessari per giungervi: se per arrivare in un dato posto occorre viaggiare per tre giorni, o per sette, o per un numero multiplo del 3 o del 7     -numeri magici per eccellenza – possiamo essere certi che il luogo in questione non è reale: luoghi mitici sono le isole di Calipso e di Circe (anche se, sulla base dei riferimenti astronomici, è possibile situare la prima nell’estremo Occidente del Mediterraneo, la seconda nell’estremo Oriente, forse addirittura nel Mar Nero o ai confini con esso); il paese dei Lotofagi, l’isola di Eolo (che, oltre tutto, è di bronzo ed è mobile); sono invece luoghi reali Itaca, i paesi visitati da Telemaco nel suo viaggio e, come si è già detto, l’Italia meridionale. In questi casi, per giungere a destinazione bisogna navigare per un lasso di tempo verosimile. C’è poi un paese “a mezza strada” tra mito e realtà: è la terra dei Feaci, Scherìa (mai esplicitamente definita come “isola”), in cui apparentemente vivono uomini come gli altri. Ma nel paese dei Feaci, e in particolare nel giardino di Alcinoo, gli alberi non seguono i ritmi naturali delle stagioni: fiori e frutti coesistono sulla stessa pianta, contemporaneamente … e i Feaci sono navigatori eccellenti, “magici” (la loro nave riporta Ulisse in patria in una sola notte), ma non amano particolarmente il mare, non vivono dei prodotti del mare e delle attività ad esso connesse, anzi diffidano dei mercanti e dei marinai. E poi c’è quell’ombra minacciosa che grava sul loro futuro: un oracolo ha predetto che il loro paese sarà ricoperto da una montagna, per volere di Poseidone – che pure è  il loro capostipite – irato perché essi un giorno ospiteranno e riaccompagneranno in patria un uomo inviso al dio … il quale, si ricordi, è il dio dei terremoti e delle catastrofi naturali in generale. Che fine farà Scheria, e i suoi abitanti, e la dolce Nausicaa? Quale evento terrificante è adombrato in questa profezia?

Infine, c’è Itaca, tradizionalmente -e fin dall’antichità, (5)- identificata con l’isoletta che attualmente porta questo nome: isoletta minuscola (una ventina di km. in lunghezza, circa 3000 abitanti, paesaggi incantevoli), povera (è terra di emigranti), situata a brevissima distanza da Cefalonia, da cui la separa un braccio di mare non più largo di due miglia: è questa davvero la patria tanto sospirata di Ulisse?

Ma a proposito di Itaca e di alcune recenti teorie sulla identificazione dei luoghi omerici                       ( Felice Vinci, Omero nel Baltico, Palombi Editori, 2009) pur con la consapevolezza di espormi -meritatamente- all’ironia del buon Eratostene, vorrei esprimere qui le mie personali

CONSIDERAZIONI  SU  ITACA  E  SUI  LUOGHI  DESCRITTI  DA  OMERO

Abitata in età micenea (ci sono tuttora scavi in corso nei pressi di Stavros, uno dei principali villaggi dell’isola, dove sono stati trovati i resti di un palazzo miceneo), Itaca raggiunge il suo massimo splendore nel “medioevo greco” e nell’alto arcaismo (come attestano i reperti raccolti nel piccolo, ma ben organizzato museo di Stavros e in quello del capoluogo Vathy) e corrisponde in generale alla descrizione omerica: è piccola, rocciosa, aspra e frastagliata, coperta di ulivi (l’olio è il principale prodotto dell’isola), e tuttavia possiede spazi sufficienti da destinare alla coltivazione di ortaggi e di alberi da frutto. Nulla a che vedere con la pianeggiante verdissima Lio (che è l’Itaca di Vinci) Una curiosità: come la maggior parte delle isole greche, battute dal vento, non è adatta agli alberi ad alto fusto, come ad esempio le querce: viene spontaneo chiedersi dove trovasse il buon Eumeo le ghiande per i maiali di Ulisse. Eppure le ghiande ci sono: l’ho scoperto io stessa, perché ci sono  … caduta sopra. Sono letteralmente inciampata in una quercia : piccole, spinose, a portamento arbustivo … ricoprono le pendici del monte Aetos  e gli ampi spazi incolti dell’isola, e producono ghiande quasi identiche a quelle delle querce “grandi”. Ci sono poi numerose insenature profonde come fiordi, che corrispondono alla descrizione omerica, e diverse caverne in cui Ulisse poteva ben nascondere i suoi tesori (anche se, per incuria o mancanza di fondi, gli Itacesi attuali hanno lasciato crollare la più famosa di queste grotte, quella che si trova sulla spiaggia di Porto Polis,  citata in tutte le guide …). Insomma, l’impressione che si ha, visitando l’isoletta, è che sia proprio quella descritta da Omero.

Ma qui sorge un problema, la cui soluzione dipende dall’interpretazione di alcuni versi omerici, soprattutto se si prende in considerazione la famosa traduzione della Calzecchi Onesti dei versi in cui Odisseo descrive la sua patria (ι 21 – 28) : “…  ma essa è l’ultima, là in fondo al mare, verso occidente; le altre verso l’aurora ed il sole”. Ma Itaca non è l’ultima, né la più occidentale delle isole Ionie, trovandosi ad est di Cefalonia. E poi, dove sono le altre isole citate nel passo omerico, Dulichio e Same?Sull’identificazione della selvosa Zacinto -pare – non sussistono dubbi. Ai tempi di Omero Leucade non era ancora un’isola (furono i Corinzi, nel VII secolo, a tagliarne l’istmo per facilitare la circumnavigazione ) ma la distinzione tra isola e penisola era alquanto incerta (6). Sia Dulichio che Same sono quindi da identificare con Cefalonia? Naturalmente da questa discussa interpretazione è nata un’aspra contesa tra gli Itacesi e gli attuali abitanti di Cefalonia , fermamente decisi a rivendicare l’appartenenza del mitico Ulisse alla loro terra. Secondo alcuni studiosi (di Cefalonia, ovviamente) Itaca potrebbe corrispondere alla penisoletta di Palichi, la più occidentale appunto di Cefalonia, da essa un tempo divisa da uno stretto braccio di mare e poi, in epoca successiva, “saldata” all’isola maggiore da eventi sismici. L’attuale Itaca corrisponderebbe quindi a Dulichio, mentre il resto di Cefalonia andrebbe identificato con l’omerica Same. In effetti, Cefalonia sembra un aggregato di “pezzi” diversi, ed è tuttora teatro di strani fenomeni di origine vulcanica (come i katavothres). Anche a Cefalonia sono presenti rilevanti testimonianze archeologiche dell’epoca micenea ( io ho visto una grandiosa tomba a tholos, aperta al pubblico, ma, se si scavasse, se ne troverebbero decine …). C’è poi una testimonianza “importante”, quella di Anna Comnena, principessa bizantina di eccezionale cultura, storica e scrittrice (vissuta tra l’XI e il XII  secolo della nostra era): a Itaca, sulla costa nord occidentale  prospiciente Cefalonia, proprio sulla spiaggia di Porto Polis, sorgeva un tempo (nei primi secoli dell’era volgare, suppongo) una città di nome Jerusalem : ma ai tempi della Comnena tale città non esisteva più: era stata sommersa dal mare. Se si tiene presente che, proprio in questo punto, la distanza tra Itaca e Cefalonia è minima, non è difficile ipotizzare un diverso assetto delle due isole in tempi lontani: una parte di Itaca attuale doveva essere unita alla parte nord – orientale di Cefalonia (l’Itaca di Omero), e il resto doveva essere diviso in due isolette distinte: Same (là dove ora si trova la città omonima) e Dulichio (se quest’ultima non è da identificare con Leucade). Del resto, è logico supporre che il sovrano di tutti i Cefalleni dovesse avere la sua sede nell’isola più grande e importante dell’arcipelego, e non nella più piccola … Ma la risposta a questo problema potrebbe essere data solo da un’attenta indagine storico – geologica della regione. Del resto, simili variazioni della linea costiera non sono infrequenti: a Troia, ad esempio, oggi il mare è più distante di quanto non lo fosse nell’età del bronzo. E i resti della cinquecentesca battaglia di Lepanto non sono stati rinvenuti in mare, bensì sulla costa (che, evidentemente, circa 500 anni fa era “dominio” del mare).

In quanto al passo omerico sopra citato (ι,25 -26), io credo che possa essere diversamente interpretato. Itaca vi è definita χθαμαλη, che significa “bassa, povera, umile, modesta” e nello stesso tempo υπερτατη, solitamente tradotto come “ultima”. Ma il superlativo υπερτατη deriva dalla preposizione υπερ, (latino “super”, “supra”, superlativo “supremus”), quindi come primo, ovvio significato vuol dire “altissima, elevatissima” e, in senso figurato, “notissima”, “importantissima”. Ritengo che l’espressione vada così tradotta: ” Essa è modesta, ma nello stesso tempo la più famosa tra le isole che giacciono sul mare” :ll superlativo sopra citato è predicativo, corrisponde, cioè, ad un complemento predicativo del soggetto, non a un predicato nominale (come nella traduzione della Calzecchi Onesti “essa è l’ultima, là in fondo al mare”). Alla lettera : umile e famosissima giace sul mare. Si tratta evidentemente di un ossimoro (figura retorica che consiste nella associazione di due termini antitetici). Come dire: malgrado la sua modestia, Itaca è una delle isole più famose e celebrate al mondo. Da notare: l’attributo “povera”, “modesta” è associato ad Itaca anche dai moderni poeti greci (v. ad esempio Kavafis).

Insomma, per me Itaca attuale è davvero – sia pure in parte – l’isola di cui parla Omero. I particolari sembrano non coincidere a uno sguardo superficiale, ma la sensazione generale, complessiva è proprio quella (come, del resto, se si va nei dintorni di Lecco o ci si avventura sul Resegone: i particolari non coincidono con il racconto di Manzoni, ma l’impressione generale, l’atmosfera dei luoghi richiamano senz’altro quelle del romanzo manzoniano).

Per quanto riguarda, invece, la recente teoria dell’ingegnere Vinci, che colloca nel Baltico i luoghi dei poemi omerici, devo dire che non mi convince affatto. Se prendiamo in considerazione un arcipelago di migliaia di isole, è estremamente facile, inevitabile, direi, trovare isole e località corrispondenti a quelle omeriche. La sola somiglianza dei nomi è un indizio, non una prova sufficiente. Ma indizio di che? della frequentazione dei Micenei anche dei paesi dell’estremo nord, certamente, ma non della loro provenienza da essi. Che i Micenei si siano recati ovunque, alla ricerca dello stagno, è cosa nota: allo stesso modo è ben nota la loro abitudine di dare nomi greci ai luoghi da loro visitati (ad esempio, chiamarono “Cassiteridi” cioè “isole dello stagno” le Shetland. In Gran Bretagna lasciarono tracce consistenti della loro presenza nei manufatti della Wessex Culture, ma nessuno si è mai spinto ad affermare che provengano dal Regno Unito). I toponimi greci, da soli, non ci autorizzano a considerarli originari dei paesi scandinavi. Il toponimo Kavastu, ad esempio, (riferito ad una località della Svezia nei cui pressi l’ingegnare Vinci ritiene che sorgesse la “vera” Troia) ad esempio, può bene avere una chiara etimologia greca, ed essere interpretato come “città bruciata” , ma questo non è indizio sufficiente per l’attribuzione di un simile appellativo a Troia. Tutte le città conquistate in guerra venivano saccheggiate e incendiate. Perché proprio questa località svedese dovrebbe corrispondere a Troia? E come può il toponimo Toja equivalere a Troia? Che fine ha fatto le “r”? Quale fenomeno fonetico ne ha determinato la trasformazione? Trovo poi assurdo spostare l’intero bacino del Mediterraneo (incluso l’antico Egitto, Creta ecc.) nel Baltico. Più pertinente potrebbe sembrare l’identificazione del mitico gorgo di Cariddi con il Maelstrom di cui parla E. A. Poe. Certo, nel racconto di Odisseo possono essere confluiti ricordi e contributi diversi, anche di avventurosi viaggi nei mari del nord, ma tuttavia bisogna notare che fenomeni del genere sono presenti in vari luoghi d’Europa, non solo nelle Lofoten. E la somiglianza della descrizione del fenomeno nel racconto di Poe e nell’Odissea non è una dimostrazione della veridicità della descrizione stessa: Poe conosceva perfettamente Omero, e con il suo Maelstrom – fenomeno in realtà assai meno apocalittico di quello dei Racconti dell’Orrore e del Mistero- ha voluto coscientemente richiamare alla memoria del lettore l’omerico mostro Cariddi.

Ma l’indizio più convincente dell’ambientazione mediterranea dell’Odissea è la presenza massiccia degli ulivi e dell’olio (anche sotto forma di unguento -come quello che Arete dà a Nausicaa), il che è confermato ampiamente dalle tavolette micenee in lineare B, dove l’ideogramma dell’olio è intrecciato con altri indicanti aromi: i Micenei esportavano profumi e “prodotti di bellezza”). Su un tronco di ulivo Ulisse costruisce il suo letto matrimoniale, ci sono ulivi dappertutto, nella baia in cui  i Feaci lasciano Ulisse addormentato… Anche se i paesi baltici hanno conosciuto periodi di clima mite, la loro latitudine non è compatibile con la flora tipicamente mediterranea citata nei poemi  e appare molto discutibile il tentativo di sostituire pini, abeti e frassini agli ulivi (creando anche problemi di metrica) o addirittura alghe marini ai fichi (e i guerrieri, e le donne, con che cosa si ungevano il corpo dopo il bagno?) Chi mai, e per quale motivo, si sarebbe preoccupato di espungere dal testo omerico tutti gli alberi “nordici” per sostituirli con piante nostrane?

Infine – e questo è l’argomento più decisivo- : sulla base di quali testimonianze storiche ed archeologiche l’ingegnere Vinci ritiene che gli Achei – cioè i Greci tout court – siano giunti in Grecia dalla Scandinavia nel XVIII secolo a. C.? In Grecia non c’è traccia di una simile        - presunta – invasione di genti nordiche nel periodo in questione, cioè nel Medio Elladico II. Una grande invasione (quella degli Indoeuropei?) che ha lasciato tracce archeologiche evidenti, si era verificata almeno tre secoli prima, alla fine dell’Elladico Antico (2100 – a. C.) Nei secoli successivi non ci sono mutamenti culturali rilevanti. Quindi dobbiamo dedurne che le culture dell’Elladico Medio e Recente siano frutto dell’evoluzione di quella installatasi in Grecia, in modo traumatico, alla fine del III millennio a. C., e che gli autori di tali sconvolgimenti siano gli antenati dei Greci, tra i quali dobbiamo annoverare i futuri Micenei. I quali, dopo tre – quattro secoli di convivenza più o meno pacifica con i popoli preesistenti, e dopo un notevole sforzo di adattamento culturale, raggiungono un eccezionale livello di sviluppo, come dimostrano non solo gli imponenti resti archeologici, ma anche la pietra di Kafkania, rinvenuta presso Olimpia nel 1994, tra i resti di  un edificio distrutto agli inizi del XVII secolo e recante un’iscrizione in lingua greca, redatta con i caratteri della lineare B (v. a tale proposito Louis Godart, Popoli dell’Egeo  - Civiltà dei palazzi, Silvana editoriale 2002).

Quindi, non ci sono nuove rilevanti invasioni “nordiche” dopo quella della fine del III millennio. Se si trattasse degli Indoeuroperei, e quale fosse la loro provenienza, è difficile dire (le steppe della Russia? L’Anatolia?), ed è oggi argomento di acceso dibattito. Le tesi dell’ingegnere Vinci  sono solo ipotesi affascinanti, ma tutte da dimostrare.

Itaca, però, è ben più che un’isoletta leggendaria. E’ un simbolo universale (la terra natia,  le radici, gli affetti …), una sorta di “luogo dell’anima”. Non c’è da stupirsi se ciascuno si immagina la sua, e le si affeziona, e finisce per credere alla sua immaginazione. Così il famoso archeologo Dorpfeld la identificò con Leucade , vi si stabilì e volle esservi sepolto. Itaca insomma è tuttora un mito, così come la vicenda dell‘uomo Ulisse (che rifiuta l’immortalità degli dei come la vita delle bestie, che sono appagate dalla soddisfazione dei loro bisogni materiali ) perché vuole essere solo un uomo , e come pure il suo viaggio, che assume valore simbolico (metafora della vita e del desiderio inesauribile di conoscenza che spinge gli esseri umani ad affrontare l’ignoto).

Mi piace concludere con una lirica del poeta neogreco Kavafis, intitolata proprio “Itaca”:

           Se fai rotta per Itaca

           augurati che sia lungo il tuo vaggio

           pieno di avventure, pieno di scoperte.

           Dei Lestrigoni, dei Ciclopi

           e dell’irato Poseidon non aver paura;

           sul tuo cammino mai troverai mostri

           se la tua mente è elevata, se una nobile emozione

           tocca il tuo spirito e il tuo corpo.

           Né Lestrigoni, né Ciclopi

           né il selvaggio Poseidon incontrerai mai,

           se non li porti dentro il tuo cuore,

           se la tua mente non te li fa sorgere davanti.

           Augurati che sia lungo il tuo viaggio

           e che siano numerose le mattinate estive

           in cui con gioia e con allegria

            giungerai per la prima volta in porti ignoti.

            Fa’ scalo negli empori dei Fenici

            per acquistare belle mercanzie,

            madrepore e coralli, ebani ed ambre,

            profumi seducenti di ogni tipo,

            quanti più puoi profumi voluttuosi.

             Recati in molte città d’Egitto

             a imparare, a imparare dai sapienti.

             Itaca tieni sempre nella tua mente:

             quella meta ti assegna il tuo destino.

             Ma non affrettare il tuo viaggio.

             Meglio che duri lunghi anni, che ormai vecchio

             tu finalmente approdi all’isoletta,

            ricco di quanto hai guadagnato in via;

             non aspettarti che ti dia ricchezze.

             Itaca ti ha donato il bel viaggio:

             senza di lei, non ti mettevi in via.

             Nulla ha più da donarti.

             E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso:

             reduce così saggio, così esperto

             avrai capito che vuol dire “Itaca”.

NOTE:  (1)  L’ Iliade narra un solo episodio (circa 50 giorni del decimo anno) della guerra di Troia: l’ira di Achille, causata dall’offesa a lui arrecata da Agamennone, e le sue funeste conseguenze, tra le quali la morte di Patroclo, l’amico carissimo dell’eroe, ucciso in duello da Ettore; quindi il ritorno di Achille, la sua riappacificazione con l’Atride, la sua vendetta e l’uccisione dell’eroe troiano. Il poema si chiude con i funerali di Ettore.

L’Odissea narra invece le avventure di Odisseo, che solo dopo vent’anni  riesce a tornare a Itaca, sua patria, dove una folla di aristocratici gli insidia la moglie e il trono. Quindi ne fa strage, e, dopo uno scontro con i parenti degli uccisi, riesce a ristabilire la sua autorità sull’isola.

(2) Di autenticamente miceneo, nei poemi omerici, c’è poco: la descrizione di armi antiche  (che sono rigorosamente di bronzo: Omero, ovviamente, conosce bene il ferro, ma lo cita solo in espressioni metaforiche,come “il cuore di ferro”); l’elmo ricoperto di zanne di cinghiale che Merione regala a Ulisse nel X canto dell’Iliade (elmo autenticamente miceneo: se ne conservano diversi esemplari, nel museo di Olimpia, in quello di Nauplia … senza contare i frammenti e le raffigurazioni di guerrieri con elmi del genere, come ad es. i guerrieri di Tirinto); la descrizione di palazzi e dei fregi che li abbelliscono …

Tipici del Medioevo greco sono invece le istituzioni (il tipo di monarchia). l’ordinamento sociale, gli usi (il dono e il contraccambio), i riti funebri (l’incinerazione). Il modo di combattere è invece riconducibile all’alto arcaismo.

(3) La narrazione delle sue avventure da parte Odisseo ( i Ciconi, i Lotofagi, il Ciclope,  Eolo, i Lestrigoni, Circe, il viaggio nell’aldilà, le sirene, Scilla e Cariddi, le vacche del Sole, la tempesta e il naufragio, Calipso) interrompe il filo diacronico del racconto del poema e introduce un cambiamento di prospettiva: Il narratore non è più “esterno” all’azione,  e onnisciente, bensì “interno” e partecipe agli eventi, con un punto di vista personale e soggettivo: questo tipo di scelta è totalmente estranea all’epica popolare  orale.

(4) La critica analitica  ( sviluppatasi soprattutto nell’Ottocento e nel primo Novecento) i cui rappresentanti principali sono – per citarne alcuni – Hermann e Lachmann, tende a smembrare i poemi omerici, considerandoli (Hermann) frutto dell’aggregazione – verificatasi nel corso dei secoli – di canti prima indipendenti a un nucleo originario (Urilias) che si sarebbe ampliato fino a raggiungere l’estensione canonica, oppure il risultato di una semplice aggregazione di canti indipendenti (Lachmann, partendo dallo studio del Nibelungenlied, poema epico dei popoli germanici, scompose l’Iliade in 16 canti indipendenti). L’argomento principale da essi addotto a sostegno della loro tesi è il gran numero di incongruenze e di contraddizioni presenti nei poemi omerici (ad es. nell’Iliade incontriamo un guerriero troiano che viene ucciso in duello da Menelao e in seguito ricompare, vivo e vegeto). Ma oggi questa tendenza critica ha perso vigore. Le contraddizioni non possono stupire, in due opere dalla storia così complessa come l’Iliade e l’Odissea. E poi bisogna notare che anche autori moderni, di solito molto attenti, a volte incorrono in qualche “distrazione”: Manzoni, ad esempio (mi si perdoni la frequente citazione di questo autore, dovuta a “deformazione professionale”), parlando dei figli del sarto, dice una volta che si tratta di due maschietti e di una bambina, in seguito, però, li definisce due bambine e un ragazzino. Ma le critiche fondamentali alle tesi analitiche sono quelle  da me sopra riportate – e condivise – e perfettamente sintetizzate dal Lesky (Albin Lesky, Storia della letteratura greca, Il Saggiatore, 1962 – ma è stato poi ripubblicato molte altre volte, fino a una decina di anni fa. Non è un testo scolastico, ma io l’ho sempre usato anche a scuola. Poi, il tracollo degli studi umanistici e della scuola in genere ha eliminato dalla circolazione questo splendido testo, come pure molti altri).

(5)  A Itaca, già in età arcaica, cioè nei secoli VII e VI a. C., gli abitanti veneravano Ulisse come un eroe loro conterraneo: lo dimostra un frammento trovato a Stavros e recante una iscrizione che si può così tradurre: “augurio – o voto – a Odisseo.

(6) Che gli antichi Greci non distinguessero tra isola e penisola è una mia impressione, fondata su una constatazione: mentre per i Latini una penisola era una “quasi -isola” (paene – insula), per i Greci non c’è un termine specifico per indicare la penisola, se non χηρσóνησος, ovvero “isola di terraferma, isola legata in qualche modo al continente” (χηρσαιος = di terraferma, continentale). Tale termine, per giunta, non mi pare che venga usato prima di Erodoto e Tucidide (V sec. a. C.). In quanto ai termini usati per indicare l’isola, non mi pare che stiamo meglio. A parte νñσος – piuttosto ambiguo, perché non sempre riservato alle “vere” isole, troviamo, proprio in Omero, riferito proprio ad Itaca – che non viene  mai  definita νñσος – il termine αμφíαλος, che alla lettera significa “che ha intorno il mare, circondato dal mare”. Però αμφω ha come primo significato “entrambi, l’uno e l’altro” (cfr. latino ambo), quindi amphialos potrebbe anche significare “che ha il mare dall’una e dall’altra parte”, cioè da due lati : si adatterebbe perfettamente, quindi, anche ad una penisola. Proprio fondandosi su questa ambiguità linguistica (oltre, ovviamente, ai risultati dei suoi scavi) l’archeologo Dorpfeld giunse alla conclusione che Itaca fosse una penisola, e quindi da identificare con Leucade.

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