OSSERVAZIONI SULL’ELETTRA SIRACUSANA DI LAVIA
La scena rappresenta una sorta di discarica di “ferro vecchio”: il palazzo degli Atridi – in sé non brutto, in quanto struttura – sembra arrugginito e in abbandono da tempo: lo evidenziano i bidoni vuoti (di colore o di antiruggine?) sparsi qua e là, in mezzo alla sabbia del proscenio. Non si capisce il motivo di una simile ambientazione: quale passo del testo sofocleo suggerisce una scelta simile? E quale arricchimento di senso ne deriva?
In armonia con un simile ambiente, i personaggi maschili sono vestiti come moderni barboni (è questo il movente di tanti efferati omicidi? Ottenere il dominio di una discarica?). Egisto, poi, con la sua truce arroganza, la sua brutalità gratuita, sembra uscito da un cartoon giapponese.
Ma il culmine dei tratti negativi di questa infelice messa in scena è rappresentato da Elettra. Non solo – e non tanto – per il costume (pantaloni e lungo cardigan laceri, capelli corti e arruffati ), ma per la sua perenne frenetica agitazione, per la sua propensione a gettarsi e a rotolarsi per terra, per la sua recitazione sempre sopra le righe, esagitata, urlata: una pazza da ricovero immediato in psichiatria, più che un’eroina tragica. Solo la Clitennestra di Maddalena Crippa – bravissima, come sempre – è all’altezza del dramma sofocleo.
Ma la cosa più intollerabile, a mio parere, è la manipolazione arbitraria del testo, i tagli effettuati. Non perché un classico non possa essere “ridotto” e sfrondato del superfluo (operazione abituale e indispensabile nel teatro scolastico, di cui ho larga esperienza). A un patto, però: che il significato di fondo resti intatto, lo spessore problematico non sia eliminato o travisato. Il che, nell’Elettra di Lavia, è puntualmente avvenuto. Cercherò, brevemente, di spiegare perché.
1) Nella tragedia greca non esiste una linea di demarcazione tra “buoni” e “cattivi”. Anche quando l’autore parteggia – sempre in modo indiretto, mai esplicito – per uno dei suoi eroi, le ragioni dell’antagonista sono ampiamente esposte, e rivestono uguale dignità di quelle del protagonista. Nella fase che definirei “crepuscolare” del teatro classico, non ci sono più, o quasi, “eroi” positivi.
Non lo è Elettra, con il suo odio cieco contro la madre – del cui agire disconosce le motivazioni, o, se si vuole, le attenuanti – e tanto meno Oreste, abile simulatore e calcolatore. Allo stesso modo, non sono del tutto “nobili” e disinteressate le ragioni del matricidio, il cui movente non è solo la vendetta dell’uccisione di Agamennone, bensì il recupero dell’eredità paterna e dello status sociale ad essa legato. Del resto – se, come dice la protagonista – “Il male si impara dal male” e lei stessa ritiene di avere appreso da Clitennestra l’odio e lo spirito di vendetta, è evidente che la semplicistica divisione tra “buoni” (Elettra e Oreste) e “cattivi” (Clitennestra ed Egisto) è frutto di un’operazione di banalizzazione e di semplificazione del dramma, che mira solo alla conquista di una facile “audience”.
2) Tra le opere sofoclee a noi pervenute, l’Elettra è, indiscutibilmente, una delle più antifemministe. E di questo antifemminismo becero si fa portavoce soprattutto la protagonista, Elettra, con la sua svalutazione del ruolo materno, il suo disprezzo per Crisotemi, che preferisce essere chiamata “figlia di sua madre”, la sua accettazione della subordinazione femminile, la sua giustificazione del barbaro assassinio della sorella … Espressione della cultura e della mentalità dell’Atene classica, naturalmente. Non “colpe” da addebitare alla protagonista. Ma le sue parole, i suoi atteggiamenti “politicamente scorretti” non sembrano i più idonei ad attirarle le simpatie di un pubblico moderno e – a volte- poco “acculturato”. E allora la soluzione più sbrigativa, più semplice, è quella di “tagliare” tutte le battute contro le donne, allo scopo di ottenere un facile consenso. La tragedia ne risulta snaturata. Elettra viene ridotta a un’icona vivente del dolore, ma non dell’odio. Quando Oreste colpisce a morte la madre, l’Elettra di Sofocle grida, spietata: “Colpisci due volte!”. Quella di Lavia tace, e aspetta in silenzio l’esito dell’azione. Per i tragici – per tutti e tre – il teatro è rappresentazione fedele della realtà , senza censure né attenuazioni dei suoi aspetti più ostici e duri. Anzi esso è il luogo privilegiato della riflessione critica, della rimessa in discussione del passato e del presente. Il maschilismo dominante è in sostanza condiviso, o almeno accettato da loro. Ma tuttavia costituisce un problema, che a volte genera mostri. E la tragedia greca non manca di evidenziarli. Per Lavia, invece, il teatro è essenzialmente spettacolo, finalizzato a un facile successo.
Il che significa essere distanti dal teatro classico milioni di anni luce.
3) Coerentemente con questa impostazione, il regista (o qualche suo discutibile consulente) ha deciso di “correggere” Sofocle, modificando e ampliando, con una frase banalmente moraleggiante, i versi conclusivi del coro. Il cui senso, a mio parere, è molto più problematico di quanto si faccia abitualmente apparire: “O stirpe di Atreo, dopo avere molto sofferto nella tua ricerca di una liberazione (διά + il genitivo non indica un punto di arrivo, cioè, scolasticamente, un moto a luogo, bensì un moto per luogo, un percorso) a fatica, grazie a una simile impresa sei pervenuto, giunto a maturità”. Ma quella che ai figli di Agamennone sembra la “liberazione” è veramente tale? Si tratta davvero della fine delle travagliate vicende della “maledetta” casata degli Atridi? E il coro – espressione della polis democratica- è davvero consenziente con “l’impresa” di Oreste e di Elettra? Certo, essa rappresenta il culmine, lo sbocco naturale di una interminabile catena di delitti “contro natura” per i quali i cittadini di Atene non possono provare che orrore.