sull’Agamennone di Eschilo: guida all’analisi -parte II

TERZO STASIMO

E’ il più angosciato, pervaso da una cupa atmosfera di attesa. Il Coro non sa ancora il motivo dei suoi tristi presentimenti. Come nelle altre tragedie, Eschilo è maestro nell’arte di creare un clima di tensione crescente che sfocerà nella catastrofe. Il canto del Coro è senza lira, come il canto funebre delle Erinni. La danza di un destino infallibile avvolge nei suoi vortici il cuore. Il linguaggio è denso di immagini potenti, di metafore ardite (strofe e antistrofe 1).
Nella seconda parte (strofe e antistrofe 2) il tono è meno concitato, più meditativo: Eschilo ribadisce il principio etico del μηδὲν άγαν. L’eccesso di di ricchezza e di potere provoca sventura: è il pensiero tradizionale greco (che troveremo espresso da Erodoto)che qui, ancora una volta, viene ripreso. Ma anche superato: non è l’eccesso di ricchezza, di per sé, ad attirare sventura. E’ il sangue sparso, è la vita altrui, ingiustamente sacrificata, ad attirare la vendetta delle Erinni. Chi è stato ucciso non può più essere richiamato in vita: e quindi la vendetta delle Erinni è inevitabile e inesorabile. Qui il Coro non sviluppa compiutamente questi concetti: l’ha già fatto nel secondo stasimo. Si limita a evocarli, per ribadirne il valore, accentuando così il clima di suspence che precede il culmine della tragedia. Da notare la metafora della nave – cara ad Eschilo – qui riferita al γένος degli Atridi: essa si avvia al naufragio, cozzando contro gli scogli. Ormai non c’è più speranza.

QUARTO EPISODIO
Da quando è arrivata insieme ad Agamennone, Cassandra è rimasta sul carro, immobile, come in trance. Clitemestra le ordina di scendere e di entrare nel palazzo, per prendere parte al sacrificio: in apparenza, come spettatrice. In realtà, come vittima. La sua sorte è segnata. Ma la prigioniera continua a tacere e a restare immobile, assorta nei suoi pensieri, estranea a ciò che la circonda.
Vengono riprese dal Corifeo le metafore venatorie della Parodo, riferite, però, a Cassandra ( è dentro una rete mortale; pare una bestia selvatica appena catturata; deve ora accettare il suo nuovo giogo). Quest’ultima immagine assume un tono di sinistra minaccia in bocca a Clitemestra (“… non sa portare il freno … se prima non lo abbia spruzzato di una bava di sangue): come Ifigenia, Cassandra sarà la nuova vittima di un sacrificio empio. Per i Greci, sacrificare un animale catturato al laccio o con la rete – tranne in casi particolari – non aveva senso, era un gesto empio e abnorme: analogamente, uccidere una prigioniera innocente è una crudeltà gratuita. L’uccisione di Cassandra rientra in quell’eccesso di vendetta che Agamennone ha perpetrato nei confronti dei Troiani, macchiandosi le mani di sangue innocente e attirando su di sé la punizione divina. Ma ora è Clitemestra a compiere lo stesso delitto, a eccedere nella sua vendetta: Cassandra è paragonata ad una rondine, per la sua lingua barbara (cfr. le metafore degli uccelli e della lepre gravida nella Parodo: come loro, anche la rondine è un uccello mite e indifeso, e così pure l’usignolo, al quale – vv. 1145 – 1146 – in seguito Cassandra è paragonata).
Uscita Clitemestra, ha inizio la grande scena drammatica della profezia di Cassandra: le metafore si rovesciano, cambiano di segno. Da preda qual era, la sventurata figlia di Priamo si trasforma in cagna buone narici nel fiutare la verità, ed enumera, ancora in trance, la serie di orrendi delitti che hanno insanguinato la casa degli Atridi,dall’uccisione dei figli di Tieste in poi. Ora è Agamennone che, da cacciatore, si trasforma a sua volta in preda, vittima della caccia altrui: su di lui si abbatte la rete di Ade, anzi è Clitemestra stessa la rete da caccia, la giovenca che uccide il toro con le nere corna, che compie un sacrificio infame, mentre le Erinni gridano di gioia. Cassandra poi rievoca la colpa di Paride e la caduta di Troia, predicendo chiaramente anche la propria imminente morte. Senza più enigmi rivela ciò che sta per accadere, paragonando se stessa al cane da caccia che sa ritrovare le tracce della verità, e l’oracolo a un vento impetuoso e lucente che si leva verso il sole svelando i mali di quella casa. Ora viene ripresa e spiegata la metafora iniziale della luce: non di luce di gioia si trattava, ma di una luce destinata a rivelare orrori segreti. Intanto sulla casa degli Atridi la folla mostruosa delle Erinni – visibile a lei sola – aspetta di bere altro sangue, cantando un’infausta canzone. Colpendo nel segno come un arciere esperto – ancora una similitudine venatoria – la profetessa ricollega la catena di delitti del passato a quelli che stanno per verificarsi. Riprendendo le metafore animalesche, definisce Clitemestra un leone imbelle (cfr. il II stasimo, in cui è Paride il cucciolo di leone che procura rovina a chi l’ha nutrito; cfr. anche il leone affamato del discorso di Agamennone), ma anche una abominevole cagna (cfr. le parole di Clitemestra, che si autodefiniva δωμάτων κύων) una leonessa, un mostro.
Il conflitto uomo – donna si risolve con una uccisione mostruosa. Le porte della casa sono veramente le porte dell’Ade (cfr. discorso di Clitemestra). La casa stessa è maledetta, gocciola sangue, emana odore di putredine: sono qui spiegate tutte le immagini adoperate nel dramma. Non a caso, nella Parodo, i due Atridi erano stati paragonati a due avvoltoi, uccelli che si nutrono di cadaveri. Al culmine della tensione drammatica, Cassandra entra nella reggia, consapevole di andare incontro alla morte, con fatalistica rassegnazione. Alle obiezioni del Coro replica con fermezza: lei non è un uccello che fra i cespugli geme di paura. Chiede solo, alla luce dell’ultimo raggio di sole, che anche della sua morte si faccia vendetta.
Manca, tra il quarto e il quinto episodio, lo stasimo. Il Coro si limita a formulare alcune brevi pessimistiche considerazioni sulla precarietà della fortuna e della felicità umane.

QUINTO EPISODIO

Il Coro è come paralizzato dall’angoscia e si dimostra totalmente impotente e incapace di intervenire contro la tirannide che sta per essere instaurata con l’uccisione di Agamennone.
Se il Coro rappresenta il popolo, la cosa pone dei problemi: il popolo è saggio, ma incapace di agire? E’ solo l’eroe – pur con l’ambivalenza che è insita nella sua natura – l’unico in grado di farlo, di ribellarsi (si pensi a Prometeo)? O il Coro non può agire perché la vicenda di Agamennone appartiene a un passato mitico ormai cristallizzato e quindi immutabile? Certo, non si può cambiare il passato … e il Coro è, nello stesso tempo, personaggio collettivo del dramma rappresentato e portavoce del popolo – pubblico che sottopone ad esame critico il suo passato. Comunque, di fronte a questo coro paralizzato dal dubbio e dal timore, Clitemestra appare come una figura gigantesca. Ha agito lei, da sola. Egisto non è che una scialba comparsa: non a caso lei è stata paragonata a una superba leonessa, lui a un lupo, predatore “minore”, gregario, che agisce nell’ombra, ricorrendo più all’astuzia che alla forza.
Clitemestra rivendica la giustizia del suo atto. Ricorrono ancora una volta, nel suo discorso, le consuete metafore venatorie (lei ha avvolto il nemico nella rete e lo ha colpito). Il sangue che le macchia gli abiti e le mani la fa gioire, come una gioiosa pioggia allieta un campo di grano): ecco il senso autentico delle espressioni apparentemente affettuose con le quali aveva salutato il ritorno del marito. Il dialogo tra lei e il Coro è un dialogo tra sordi. Alle sue argomentazioni razionali – Clitemestra, la donna sottovalutata proprio in quanto donna, usa argomenti perfettamente logici – il Coro oppone il suo sgomento, il suo orrore, la sua condanna senza attenuanti. Le ragioni di una madre colpita nei suoi affetti più cari, l’oltraggio subito da una moglie umiliata non lo sfiorano per nulla. Non importa il sacrificio di Ifigenia, né la tracotanza del marito che si porta in casa la concubina: in quanto donne, esse non contano. E il Coro non riesce a far altro che maledire un’altra donna, Elena, causa prima di tante sventure, e infine augurarsi di morire.
Per l’ultima volta Clitemestra adopera metafore animalesche: paragona Cassandra a un cigno che ha cantato il suo ultimo canto prima di morire (malgrado il paragone “gentile” non c’è un’ombra di pietà, in lei, né, tanto meno, di rimorso per l’altra donna assassinata: certo, Cassandra non aveva scelto di diventare l’amante di Agamennone, anzi era stata oggetto di violenza. Ma questo aveva poca importanza, in un mondo ancora per molti versi legato alla società della vergogna: era l’atto “oggettivo” in sé a costituire oltraggio, a prescindere dall’intenzionalità di chi lo compiva). In contrapposizione alla profetessa – cigno, Clitemestra cita il corvo del malaugurio, il demone vendicatore (Alastor), che regna sulla casa maledetta degli Atridi e che, per mezzo di due donne – lei stesa ed Elena, sua sorella – ha compiuto la sua vendetta.
La convinzione che sia Alastor, il demone vendicatore del γένος, il vero autore del delitto, è l’unico elemento comune a Clitemestra e al Coro. Uccidendo Agamennone, Clitemestra si è inserita – per sua libera scelta, ma non senza la collaborazione divina – nella catena di orrendi assassinii che insanguina la casa degli Atridi. E a sua volta dovrà anche lei subire vendetta per il sangue versato, perché, come dice il Coro, “finché rimane saldo Zeus sopra il suo trono, rimane saldo anche il principio che chi ha fatto patire patisca “.
Nell’epilogo ci appare Egisto, esultante per la vendetta compiuta, tracotante e minaccioso verso il Coro, a lui apertamente ostile. Come personaggio è davvero insignificante.
L’ultima parola è ancora di Clitemestra, ormai stanca, svuotata di quella tensione che l’ha animata per tanti anni e che l’ha spinta ad agire. In lei è subentrata la riflessione, per cui distoglie Egisto dai propositi di vendetta sul Coro, dimostrando ancora una volta che è lei, donna, l’unica in grado di prendere in mano la situazione e di governare.
Con un procedimento “ad anello”, la tragedia si chiude con un duplice riferimento alla luce, così come era iniziata: per primo è Egisto a rivolgersi alla luce di un giorno che porta – finalmente – giustizia.
Ma il Coro invoca il futuro vendicatore, Oreste, che ancora vede la luce: preannuncio, questo, di nuove vendette e di nuove sventure.

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