Sull’Agamennone di Eschilo: guida all’analisi -parte prima

Uno degli errori didattici più frequentemente commessi da noi docenti consiste nel consegnare a dei ragazzi di sedici, diciassette anni, che vivono in un mondo distante milioni di anni-luce da quello greco antico, un classico da leggere e commentare, magari con il supporto di una adeguata bibliografia. Come se si avesse a che fare con universitari, iscritti in Lettere Classiche (quelle di un tempo, almeno …). Nel 99 per cento dei casi un ragazzo leggerà frettolosamente il testo (purché sia in una traduzione italiana “facile”),  lo troverà stravagante e a lui totalmente estraneo e il suo commento più spontaneo sarà: “Che barba” oppure “boh!” Per obbligo cercherà di arrangiarsi scopiazzando o parafrasando il testo critico da noi consigliato, o farà copia e incolla da internet …
I classici sono testi difficili. Il loro contesto storico – culturale è “un altro mondo”, al quale bisogna guidare passo per passo i ragazzi, perché possano capire e imparare ad apprezzare. Senza modernizzazioni idiote. Perché ci sia “dialogo” con i classici bisogna che ciascuno mantenga la propria identità, noi la nostra di moderni, essi la loro “antica” e diversa. Bisogna cercare di penetrare nel testo in profondità: solo così sarà possibile cogliere ciò che ci accomuna a persone vissute venticinque secoli fa (o anche più).Per prima cosa, bisogna leggere in classe – e spiegare – il più possibile il testo che è oggetto di studio. A costo di tagliare drasticamente la “storia della letteratura”. A che serve, del resto, memorizzare autori, date e biografie, elenchi di opere – magari perdute – con il loro contenuto, se non si conoscono in modo approfondito quei classici che costituiscono il fondamento della nostra civiltà? So bene che la conoscenza mnemonica delle nozioni “pure” è il requisito principale  -spesso l’unico- richiesto oggi all’università: ma questo è un altro discorso. Ed è un motivo in più, oggi, per spingere i giovani a scartare certe facoltà umanistiche che, oltre a non offrire sbocchi professionali adeguati, danno un  contributo assai mediocre alla loro formazione culturale.
Dunque, dopo la lettura integrale dell’opera in classe (ciascun alunno doveva avere il testo completo con traduzione a fronte: ce ne sono di ottimi a bassissimo prezzo anche nelle bancarelle e nelle edicole) presentavo alla classe uno SCHEMA DI LAVORO, che, nel caso della tragedia presa in esame, l’Agamennone di Eschilo, è il seguente:
1) Esporre sinteticamente (anche in stile nominale) la struttura del dramma e il contenuto delle singole parti, indicando anche i personaggi in essa presenti.
2) Il coro: da chi è costituito? Ha una sua fisionomia, delle posizioni precise? Le opinioni espresse dal coro sono da ritenere le opinioni dell’Autore? O anche di altri? E di chi, eventualmente? Esporre brevemente il contenuto di ciascun pezzo corale (parodo, stasimi, ecc.) Quale rapporto hanno le parti corali con l’azione principale? Sono ad essa legate, o sono puri intermezzi lirici destinati a diminuire e allentare momentaneamente la tensione del pubblico? (Occorre, però, preventivamente, nel corso delle lezioni generali sulla tragedia, avere già spiegato e letto un esempio di coro – intermezzo lirico, ad esempio un brano dell’ultimo Euripide. Altrimenti i ragazzi non possono sapere di che stiamo parlando). Qual è il rapporto tra il coro e i personaggi?
3) Analisi dei personaggi principali: a) Agamennone b) Clitemestra c) Cassandra. Per analizzare un personaggio bisogna prendere in considerazione i seguenti elementi: ciò che dice, ciò che fa, ciò che gli altri dicono di lui, i suoi rapporti con gli altri personaggi, e, in modo particolare, i termini più ricorrenti nei suoi discorsi (sono rivelatori del suo mondo interiore), le metafore, le similitudini e le altre figure retoriche a lui riferite o da lui adoperate. Infine: di quanti attori poteva disporre Eschilo al momento della rappresentazione dell’Agamennone? Come erano distribuite le parti? (cioè: quale altro ruolo rivestiva l’attore che impersonava Agamennone? E gli altri?)
4) Problematica del testo eschileo: quali problemi sono al centro dell’opera? Quali messaggi l’autore intendeva comunicare al suo pubblico?  Che cosa si intende con l’espressione παθει μαθος? Che cos’è la hybris? Quale idea ha Eschilo della religione? Lo Zeus dell’Agamennone è uguale a quello del Prometeo? (Ovviamente, gli alunni devono avere già studiato l’autore sul manuale) Qual è in questo dramma il ruolo di Dike?  Chi è Ate? Gli uomini sono pienamente responsabili delle loro azioni? E infine: quale concezione della donna è presente nell’Agamennone?

5) Analizza le figure retoriche (soprattutto similitudini e metafore) e i simboli presenti nel dramma. Certe figure ricorrono con maggiore insistenza:

- un primo gruppo fa riferimento al mondo della caccia e a quello del sacrificio. Cerca di individuare nel testo tutti i termini riferibili al lessico venatorio e a quello sacrificale, stando bene attento/attenta al contesto in cui sono inseriti;

- un secondo gruppo è riconducibile all’opposizione luce/tenebre, bianco/nero. Cerca tutti i termini indicanti tale contrasto.  Tieni presente che l’Orestea si apre con l’attesa del segnale di fuoco e si conclude con una processione notturna “al chiarore di fiaccole risplendenti”. Secondo te, queste immagini ricorrenti hanno un significato? Se sì, quale?

6) Rubando il mestiere a Calcante, cerca di interpretare il prodigio delle aquile citato nella Parodo (vv. 114- 140)

Testi consigliati: in primo luogo, Caccia e sacrificio nell’Orestea di Eschilo, di Pierre Vidal-Naquet (in “mito e tragedia I, Einaudi, pp. 121-144) e poi il capitolo sull’Agamennone del Di Benedetto, L’ideologia del potere e la tragedia greca, Einaudi. Mentre, però, il Di Benedetto può essere una lettura consigliata ai più volonterosi, magari con l’incentivo di un voto in più, il saggio di Vidal- Naquet deve essere conosciuto da tutti, o tramite la lettura diretta, o, più verosimilmente, tramite sintesi preparata dal docente.

Dopo avere consegnato ai miei alunni il questionario – guida all’analisi, e avere stabilito una scadenza, preparavo io stessa un mio schema, e le mie risposte al questionario, per mostrare ai ragazzi come procedere. Trascorso il tempo stabilito, si discuteva in classe delle risposte date dai ragazzi, io davo copia del mio schema e delle mie osservazioni, se ne discuteva ancora, e infine , a conclusione del lavoro, assegnavo un vero e proprio “tema” in classe. Ovviamente, esso veniva valutato come interrogazione orale , e faceva media con le normali verifiche di letteratura (che vertevano sull’autore in generale ), o, in caso di mancanza di tempo, e in presenza di classi troppo numerose, veniva integrato da questionari scritti, a risposta aperta per lo più, o da “quiz” a risposta multipla in caso di necessità (quiz non necessariamente “facili”: ero brava a formulare quiz “cattivi”, ai quali non si poteva rispondere se non si conosceva bene l’autore e soprattutto i testi). Qui di seguito ripropongo il mio schema dell’Agamennone: schema ampio data la difficoltà dell’argomento e la necessità di far capire ai ragazzi “come procedere”.

                                                   STRUTTURA DELLA TRAGEDIA

                                                             PROLOGO

La sentinella: – lunga attesa di un segnale di fuoco che annunci la caduta di Troia;

                      – così ha deciso una donna dal cuore maschio nei suoi voleri;

                      – cenno alle sventure della casa degli Atridi;

                      – gioia per l’apparizione della fiaccola, e speranza nel ritorno del re;

                      – ambigua allusione ai mali della casa, dei quali non si può parlare: il bue 

                         sulla lingua  (espressione tipica dei misteri eleusini?)

Accanto a ciascun punto dello schema annotavo le “cose notevoli”: temi dominanti, figure retoriche significative, confronti ecc. (ad esempio: contrasto luce/tenebra; contrapposizione donna/uomo; ambiguità di Clitemestra; dura condizione dei servi e dei sudditi – la difficile vita della sentinella, da confrontare con la difficile vita dei soldati combattenti a Troia per la donna di un altro, ecc.) che poi spiegavo oralmente, e che, riportate qui così come erano, risulterebbero poco comprensibili. Riporto qui, invece, le mie osservazioni che sono state riformulate in modo meno frammentario, in occasione di  alcune lezioni da me tenute un paio di anni fa alla “università popolare” :

Nel prologo ricorrono, in maniera ossessiva, termini riconducibili a due campi semantici dominanti: quello della luce (simbolo di gioia) in antitesi a quello delle tenebre (simbolo di angoscia). Ma la luce che brilla infine nella notte è un falso segno di gioia: in realtà essa annuncia un evento luttuoso (la caduta di Troia) che si inserisce nella catena di colpa/hybris del casato degli Atridi (in quanto molti innocenti hanno pagato con la vita colpe  altrui) e che ne preannuncia un altro, altrettanto drammatico e delittuoso (l’uccisione di Agamennone). Non a caso la trilogia si apre col simbolo della luce – ambigua – che segnala la vittoria achea e si chiude con la processione – alla luce delle fiaccole – in onore delle Eumenidi: ma in quest’ultimo caso la luce è simbolo di vera gioia, segno di conciliazione tra due mondi antitetici, dell’avvenuta pacificazione nel segno della polis, dove c’è posto per le luminose divinità olimpiche e per le oscure e primordiali forze ctonie (v. Vidal – Naquet “Caccia e sacrificio nell’ Orestea di Eschilo”, in “Mito e tragedia I, Einaudi). Emerge, fin dalle prime battute della sentinella, una caratteristica di fondo dell’opera: l’ambiguità (v. a tale proposito Vernant “Ambiguità e rovesciamento …” nell’opera sopra citata). L’ambiguità di Clitemestra è messa in evidenza dall’ossimoro “una donna dal cuore maschio”, che introduce uno dei temi dominanti dell’intera trilogia: la contrapposizione uomo / donna. Nell’Atene classica tutto ciò che riguarda la donna è svalutato e disprezzato: la donna non è credibile, perché si lascia suggestionare (v. dialogo Clitemestra – coro), è, per definizione, debole. Se è forte, ha “un cuore virile”. Clitemestra viene trattata con rispetto solo perché “moglie” del re. Non conta per se stessa: come gli schiavi, non è “persona”, è esclusa dalla polis, emarginata. Eppure questa Clitemestra è il motore dell’azione: è uno dei più grandi personaggi del teatro mondiale. Come dice Lesky, bisognerà aspettare la Lady Macbeth di Shakespeare, per trovarne un altro di pari grandezza.

Nell’Orestea emerge, per la prima volta, il problema della donna. Si tratta ancora di figure eccezionali, non di persone comuni. Sofocle, accanto alle sue eroine (Antigone, Elettra), lascerà spazio anche a qualche figura femminile più “umana” (come la Deianira delle Trachinie). Ma sarà soprattutto Euripide ad assegnare alle donne il ruolo centrale in una parte rilevantissima della sua opera.

Ambiguo è il linguaggio della sentinella ( “per coloro che sanno io parlo,per quelli che non sanno, volutamente io mi nascondo”, ma anche “dimentico”, dato che ληθομαι può avere entrambi i significati. L’espressione “ho un bue sulla lingua” ha valore proverbiale, ed è riconducibile, probabilmente, al linguaggio degli iniziati ai Misteri Eleusini (per esprimere l’obbligo al silenzio che vincolava i fedeli). Eschilo, che era nato ad Eleusi, pur non essendo un iniziato, doveva, in qualche modo, avere una certa conoscenza di questi rituali (dato che fu processato – ed assolto – per averli involontariamente divulgati).

                                                                 PARODO

 Riveste un’importanza eccezionale. Non si limita a rievocare gli antefatti (il sacrificio di Ifigenia ecc. ), ma costituisce il nucleo tematico, il”cuore” dell’Orestea.

Essa è divisibile in quattro sequenze:

1) Recitazione del Corifeo:- Sono trascorsi 10 anni dalla partenza degli Achei per Troia. Agamennone e Menelao sono definiti   saldo giogo di Atridiparagonati ad avvoltoi cui sono stati sottratti i piccoli dal nido.

- Rievocazione della colpa di Paride. Per punirlo, Zeus invia l’Erinni.

- I sacrifici  e le suppliche agli dei non possono cambiare il destino. Scoppia la guerra, a causa di una donna.

- I vecchi, paragonati ad alberi dal fogliame secco, non possono partecipare al conflitto

A Clitemestra, che frattanto è entrata in scena, il Corifeo chiede spiegazioni: perché i segnali di fuoco? Perché si compiono sacrifici nell’intera città?  Si tratta forse di una buona notizia?

2) Parte del Coro:

STROFE 1: il Coro innalza un canto di gioia per la vittoria del duplice trono acheo. Viene rievocato un prodigio verificatosi 10 anni prima, alla partenza degli Achei per Troia: due aquile avevano catturato e divorato una lepre gravida.

 RITORNELLO: αíλινον αíλινον  ειπε, τò δ’ευ νικατω, cioè lugubre lugubre canto intona, ma il bene trionfi.

ANTISTROFE 1:

Calcante aveva interpretato il prodigio delle aquile: le due aquile simboleggiavano i due Atridi. La lepre gravida era Troia con tutti i suoi tesori, destinata a divenire preda degli Achei. Ma Artemide aveva pietà della lepre ed era adirata con le aquile “alati cani di Zeus”, che avevano compiuto un sacrificio empio.

RITORNELLO: Lugubre lugubre canto …

EPODO: Artemide è protettrice dei piccoli di tutte le bestie selvatiche. Il sacrificio  di una lepre incinta con i cuccioli in grembo è ai suoi occhi esecrando e “contro natura”. A questo punto Calcante aveva pronunciato  parole inquietanti e oscure: “Non voglia la dea, inviando venti contrari alle navi, esigere a sua volta un altro sacrificio contro natura, sacrificio che rende nemica la sposa allo sposo, e che lascerà nella reggia una terribile furia, subdola, incapace di dimenticare, pronta a levarsi per vendicare i figli.

RITORNELLO: Lugubre lugubre canto …

3) Il coro interrompe la rievocazione degli eventi passati per eseguire l’ INNO A ZEUS, articolato in una strofe, un’antistrofe e poi in un’altra strofe, che fa le veci dell’epodo:

STROFE 2: il coro si rivolge a Zeus “quale che sia il suo nome;

ANTISTROFE 2: si rievoca la successione al trono divino (Urano, Crono, Zeus). Solo chi canta epinici a Zeus coglierà suprema saggezza.

STROFE 3: Zeus ha stabilito la legge del παθει μαθος (= apprendimento mediante la sofferenza): il rimorso delle colpe commesse genera sofferenza, il che permette all’uomo di raggiungere la saggezza.

ANTISTROFE 3: riprende la narrazione dei fatti che precedettero la partenza: i venti contrari, la flotta bloccata in Aulide …

STROFE 4: …e il logorio dell’esercito e della flotta stanchi di un’attesa senza fine … finché Calcante ne rivela il motivo (l’ira di Artemide) e propone l’amaro rimedio: il sacrificio di Ifigenia.

ANTISTROFE 4: Agamennone, pur soffrendo, decide di sacrificare la figlia.

STROFE 5: Agamennone “immerge il collo nel collare della necessità”, e, “spirando sacrilegio, empietà, profanazione, il padre diventa sacrificatore della figlia, vergine casta, a causa di una femmina adultera.

ANTISTROFE 5: racconto – con accenti toccanti – del sacrificio di Ifigenia …

STROFE 6 . prosecuzione della narrazione

ANTISTROFE 6: funge da conclusione dell’intera parodo: ciò che accadde dopo non può essere riferito (cfr. l’espressione della sentinella .”un bue mi pesa sulla lingua”). I vaticini di Calcante non sono mai stati vani. A chi ha sofferto Dike concede il dono della saggezza.

Ma il futuro è ignoto. Non resta che sperare e augurarsi che sia buono.

COMMENTO: Come si può notare, le due prime sequenze presentano notevoli simmetrie e corrispondenze:

A) Il Corifeo definisce Agamennone e Menelao “saldo giogo di Atridi, duplice trono” ecc.

B) Il coro ribadisce la precedente definizione: Agamennone e suo fratello costituiscono un “duplice trono acheo”.

A) Il Corifeo paragona  i due Atridi ad avvoltoi cui sono stati sottratti i piccoli. Il termine αíγυψ può indicare sia, genericamente, l’uccello da preda, sia l’avvoltoio: l’ambiguità non è casuale e non bisogna scegliere una sola delle due interpretazioni. I sovrani achei sono indubbiamente “dei predatori”, ma l’assimilazione agli avvoltoi è particolarmente significativa: l’avvoltoio è un divoratore di cadaveri. La similitudine ben si adatta al γενος maledetto degli Atridi e verrà ripresa, nel IV episodio, da Cassandra, che vede le Erinni danzare sul tetto della reggia e sente “l’odore di putredine” emanare da essa.

B) A proposito del prodigio delle aquile, che divorano la lepre gravida, il Coro istituisce un esplicito  parallelismo con gli Atridi: l’aquila, re degli uccelli, appare ai re delle navi.

A) Il Corifeo paragona i due Atridi ad avvoltoi “meteci dell’aria” disperati per avere perduto i loro piccoli: contro i predatori del nido Zeus invia l’Erinni, come pure, contro Paride, che ha violato i vincoli dell’ospitalità, invia l’esercito acheo.

B) Calcante – nella rievocazione del Coro – così interpreta il prodigio: le aquile sono i due Atridi; la lepre gravida simboleggia Troia, che un giorno cadrà, con tutti i suoi tesori, nelle mani degli Achei.

A) Il destino è inesorabile e non lo si può scongiurare con sacrifici e preghiere (riflessioni del Corifeo).

B) Ma la collera divina può abbattersi anche sull’esercito acheo. Artemide protegge i piccoli figli di tutte le creature viventi, e odia il banchetto delle aquile (è la replica del coro). I versi 134 – 136 sono un capolavoro di ambiguità, suscettibili, come sono, di una duplice lettura (v. Vidal – Naquet, Caccia e sacrificio …già citato):

v.134        οικτωι                            γαρ               επíφθονος      Αρτεμις         αγνα

                per compassione      infatti   (è)          irata              Artemide      sacra

v.135        πτανοισιν               κυσì         πατρòς                  θυομενοισιν

                 con gli alati            cani         del padre               che sacrificano

v. 136       αυτóτοκον                      πρò        λóχου               μογεραν       πτακα

              coi piccoli in grembo       prima del parto                la povera       lepre,    ma anche

             la propria figlia               davanti all’esercito      povera creatura tremante.

Gli alati cani del padre Zeus, come si è già detto, sono le aquile. Si noti quel participio presente (θυομενοισιν) che indica azione ripetuta nel tempo: le due aquile hanno sacrificato la lepre, le aquile – Atridi hanno sacrificato la fanciulla del loro sangue, e i loro sacrifici empi non hanno fine … Non a caso ricorrono in tutta la parodo, e in questo passo in modo particolare, termini appartenenti al lessico sacrificale e venatorio (= della caccia): l’uccisione della lepre è un sacrificio (θúω), ma un sacrificio empio: si sacrificano gli animali domestici (come il bue da lavoro), non quelli selvatici, e meno che mai le femmine gravida coi loro cuccioli, che sono sacri ad Artemide posti sotto la sua protezione. Chi osa ucciderli si pone al di fuori della società umana, regredisce allo stato selvaggio. Allo stesso modo sono empi la distruzione di Troia e di tutti i suoi abitanti, vittime innocenti della vendetta achea contro Paride, e il sacrificio di Ifigenia (sia Troia che la figlia di Agamennone sono rappresentati simbolicamente dalla lepre). Gli Atridi, esseri ambivalenti,   partecipi della natura regale dell’aquila, ma nello stesso tempo di quella – ripugnante – dell’avvoltoio, si sono posti al di fuori del consorzio umano. Il loro gesto contro natura si inserisce nella catena di delitti mostruosi che insanguina il loro γενος maledetto: prima ancora di Ifigenia, sono stati i piccoli figli di Tieste le vittime di un’atroce vendetta tra consanguinei, offerti in un orrido pasto cannibalesco al loro stesso padre, anche in questo caso in seguito ad un adulterio ( né la catena di uccisioni avrà fine: si preannuncia un nuovo delitto “contro natura”, cioè l’assassinio di Agamennone per mano di Clitemestra). Non c’è posto nella società umana – nella polis – per chi si macchia di simili delitti, per il re . il tiranno – che, a metà tra aquila e avvoltoio, calpesta i vincoli più sacri. Il punto di vista qui espresso è quello, democratico, del coro, che rappresenta il popolo ( e l’Autore stesso) in contrapposizione al punto di vista degli aristocratici.

Terza sequenza: è costituita dall’ “Inno a Zeus” ed occupa la parte centrale della parodo. Vi è espresso il nucleo fondamentale del pensiero religioso  di Eschilo, che si riallaccia alla linea Esiodo – Solone. Il suo Zeus non è più il capriccioso dio omerico, ma il garante della giustizia. Dal punto di vista formale, l’inno a Zeus consta di una strofe ( la seconda) seguita dall’antistrofe, senza esodo né ritornello, e da una terza strofe in cui viene enunciata la legge del παθει μαθος, cioè l’apprendimento della saggezza mediante la sofferenza.

E’ proprio il παθει  μαθος, secondo Di Benedetto (L’ideologia del potere e la tragedia greca – Studi su Eschilo) la chiave interpretativa dell’intera trilogia: nell’Agamennone sarebbe il protagonista, che, per mezzo del dolore (per il sacrificio della figlia) ha acquisito una diversa e superiore saggezza; nelle Coefore, Clitemestra; nelle Eumenidi, Oreste.

Ma fino a che punto è condivisibile una simile interpretazione?

Se esaminiamo la quarta sequenza (costituita dalla terza antistrofe e dalle successive tre coppie di strofe e antistrofe) in cui viene rievocato crudamente il sacrificio di Ifigenia, vediamo che ne è protagonista Agamennone, il quale “immerge il collo nel collare di Αναγκη (la necessità), e “spirando dal cuore sacrilegio, empietà, profanazione”, accecato da Ate, uccide la figlia, casta fanciulla, per vendicare l’adulterio di una “femmina”.

Il problema fondamentale che qui viene affrontato è quello della responsabilità: fino a che punto l’uomo è responsabile dei suoi atti? Secondo la mentalità tradizionale, i responsabili dell’agire umano sono soprattutto gli dei. L’essere umano agisce sotto influsso divino, e quindi solo in piccola parte è responsabile di ciò che fa ( ad esempio, Elena, nel III canto dell’Iliade, è condotta – contro la sua volontà – da Afrodite  nel letto di Paride. In altre occasioni si considera colpevole di avere, con la sua fuga, provocato la guerra di Troia). Insomma, non è ancora chiaramente delimitata la sfera dell’agire umano. Qualche generazione più tardi di Eschilo, col trionfo del razionalismo, l’uomo sarà unico responsabile dei suoi atti (v. ad esempio la Fedra di Euripide), non ci sarà più posto per intromissioni divine. Allora sarà la morte della tragedia classica: essa vive in questo breve spazio temporale in cui sussiste ambiguità (fine VI – V sec. a. C.) in cui non è ben delineata la sfera del divino e quella dell’umano, in cui la mentalità tradizionale e l’eredità del passato convivono, scontrandosi, con la mentalità e i valori nuovi. Non a caso, il problema dell’agire umano emerge con forza in una società che si pone il problema della giustizia e dei tribunali (la riforma che costa la vita a Efialte è anteriore di pochi anni alla rappresentazione dell’Orestea, avvenuta nel 458). Del resto, non potrebbero sussistere né leggi, né tribunali, se l’uomo non fosse responsabile dei suoi atti. Gli dei non colpiscono l’uomo per invidia, (come pensa il suo contemporaneo Erodoto), ma perché l’uomo si rende colpevole di sua volontà, entrando coscientemente nella catena di delitti  dei suoi avi: uccidendo Ifigenia per sua libera scelta, Agamennone rinnova il delitto contro natura commesso da suo padre Atreo, che ha ucciso i nipoti e ne ha imbandito le carni al fratello Tieste ( reo di avergli sedotto la moglie). Anche Clitemestra  si inserisce per sua scelta in questo circuito maledetto, tramando l’uccisione del marito e tradendolo con Egisto (il figlio superstite di Tieste).

Nel commettere la colpa, l’uomo è però “accecato da Ate” (un dio sembra quasi collaborare a spingerlo sulla via del male), ma dal dolore che segue alla colpa – e solo grazie ad esso – egli può apprendere la saggezza. Questo, in sintesi, il pensiero di Eschilo. Uomo e dio, insomma, non sono ancora del tutto separati; l’uomo non è ancora del tutto autonomo, anche se – rispetto alla tradizione – la responsabilità e l’autonomia dell’uomo sono qui accentuati.

                                                      PRIMO EPISODIO

Riemerge il motivo della luce in contrapposizione alle tenebre. Clitemestra  descrive il sistema di segnali di fuoco da lei predisposto. Il suo discorso è un capolavoro di ambiguità:

- esprime gioia per la caduta di Troia (si attua la giustizia divina: v. Parodo) e traccia un quadro drammatico – e molto verosimile – della città conquistata;

- afferma che gli Achei  – purché rispettino i templi e gli dei di Troia, senza macchiarsi di atti empi - non dovranno temere la vendetta divina;

-   ma   può anche svegliarsi il male sofferto dai morti, ed esigere, presto o tardi, vendetta del sangue versato. Il Coro intende dei morti troiani (il che è vero: gli Atridi hanno ecceduto nella loro vendetta), ma Clitemestra si riferisce alla morta Ifigenia, e alla vendetta che lei stessa compirà;

 - Clitemestra afferma di parlare da donna. Per il Coro questa è un’affermazione di modestia, ma in realtà essa significa: da donna ferita in quanto madre, da donna a cui non importa nulla della guerra e della ragion di stato, e che non potrà mai perdonare l’uccisione della figlia in nome di questi presunti “valori maschili”.

- Infine Clitemestra, riprendendo il ritornello del Coro, si augura che “il bene trionfi” e che il trionfo sia chiaro. Per il Coro si tratta del trionfo di Agamennone. In realtà Clitemestra parla del  suo trionfo, una volta realizzata la sua vendetta.

                                                         PRIMO    STASIMO

Tornano le metafore venatorie, applicate a Troia: i Troiani soffrono giustamente, perché si sono macchiati  di ingiustizia, violando i sacri vincoli dell’ospitalità. L’empietà nasce dalla hybris e dalla mancanza di misura.

 Viene rievocato l’adulterio di Elena e il dolore di Menelao. Ma ancora maggiore è il dolore di chi è costretto a partire e a morire in terra straniera per donna altrui. Si elencano gli orrori della guerra, voluta dai potenti:il popolo ne è vittima. Anche la voce del popolo reclama giustizia.

Vi è, nelle parole del Coro, l’oscuro  presagio di una minaccia incombente, insieme all’esaltazione della medietas : grave cosa aver gloria oltre misura. Il Coro loda felicità non invidiata, e si augura di non essere mai distruttore di città, nè di cadere in mano nemica, sì da essere prigioniero soggetto ad altri.

Viene qui espresso il punto di vista del popolo, il suo ethos, in contrapposizione a quello dei potenti. Anche la guerra è vista nella prospettiva del popolo: essa non è motivo di gloria, ma causa di lutti e orrori infiniti, espressi con immagini efficacissime. Sono partiti degli uomini. Tornano ceneri e urne. Ares scambia i vivi con i morti. E tanta desolazione è causata dall’adulterio di una donna. Per donna altrui molti uomini sono morti. La guerra è voluta dai potenti.

Ma il dolore subito dal popolo suscita Ara, la maledizione, C’è un’atmosfera di angoscia, di attesa di qualcosa di terribile. Chi ha causato tanto dolore pagherà. Le parole del Coro sono ambigue:potrebbero riferirsi a Elena e a Paride, ma potrebbero riferirsi ad Agamennone.

 Il democratico Eschilo trova assurdo che un intero popolo soffra per i capricci e gli interessi di un uomo solo (cfr. I Persiani). La polis democratica mette sotto processo il suo passato aristocratico ed eroico, i valori tradizionali ormai inaccettabili. La conclusione etica rispecchia i nuovi valori: l’idealedella medietas, del μηδεν  αγαν, del rifiuto della hybris, di una vita tranquilla, in cui non si debba né distruggere né essere distrutti.

Fino a questo momento, sul capo di Agamennone si sono addensati presagi infausti, maledizioni e critiche: è davvero condivisibile la tesi di Di Benedetto? E’ proprio vero che la sofferenza derivante dal sacrificio di Ifigenia ha insegnato la saggezza al protagonista?

                                      SECONDO EPISODIO

A giudicare dalle parole dell’araldo – che viene ad annunciare l’imminente arrivo dell’esercito e di Agamennone vittorioso – non si direbbe proprio che quest’ultimo sia diventato saggio: come Clitemestra aveva previsto, la vendetta degli Achei è stata eccessiva e ha superato ogni limite. Molti innocenti sono morti. I templi e gli e gli altari degli dei sono stati distrutti. Ma nel discorso dell’araldo prevale, per il momento, la gioia del ritorno in patria e del lieto annuncio della vittoria: tornano con insistenza le metafore venatorie, e dell’antitesi luce/tenebre (Agamennone riporta la luce nella sua patria). Vengono riprese, soprattutto, le immagini della Parodo: il giogo degli Atridi e l’aggettivo duplice  tornano qui, ma riferiti a Troia. Agamennone ha gettato il giogo sul collo di Troia. Paride ha scontato la duplice colpa di rapimento e di furto, e ha pagato una duplice pena, cioè lo sterminio della casa paterna e la distruzione della sua patria. E’ stato Zeus giustiziere (δικηφορος) a punire Troia: Agamennone ha scalzato il suolo di Troia dal fondo con la vanga di Zeus giustiziere (questa metafora è presente in tutte le tragedie di Eschilo a noi pervenute e, in modo quasi ossessivo,nei Sette a Tebe).

Nel dialogo con il Coro, l’Araldo rievoca le sofferenze subite in terra straniera dai soldati. La risposta del Corifeo (” Da tempo medicina al dolore non ho che il silenzio”) suona ambigua, come un presagio di sventura, e richiama l’espressione della Sentinella nel Prologo (“ho un bue sulla lingua”). Il discorso diClitemestra è estremamente ambiguo. Dice la verità, ma in modo tale che il Coro interpreti le sue parole in senso “buono”: sua cura è accogliere il marito nella casa, spalancargli le PORTE di casa.

Così intendono gli altri, ma in realtà le πυ̃λαι che essa intende spalancare ad Agamennone, le δώματα in cui vuole farlo entrare, sono quelle dell’Ade. Egli, al suo ritorno, la ritroverà quale la lasciò (cioè piena di odio per lui), γυναι̃κα πιστὴν δωμάτων κύνα cioè
moglie fedele della casa cane da guardia, custode.
Ma l’espressione, soprattutto all’ascolto, per chi – come il pubblico del V secolo – non ha davanti il testo scritto può anche, al contrario, suonare γυναι̃κ ‘άπιστον, δωμάτων κύνα , cioè ”moglie infedele, la cagna di casa”: e – si badi – l’epiteto cagna, attribuito ad una donna, ha un senso molto spregiativo : indica la sfrenatezza sessuale (un po’ come il nostro “troia”). Lei – prosegue – non ha conosciuto piaceri di altro uomo più di quanto conosca tempera di spada. E anche in questo caso Clitemestra è sincera: in realtà ha un altro uomo, così come è capace di maneggiare la spada (e ne darà prova in seguito). Insomma, con le sue parole apparentemente tranquillizzanti, di moglie devota, essa esprime il suo odio per il marito, proclama apertamente il suo adulterio e pronuncia oscure minacce di vendetta.
Quindi l’araldo dà notizie di Menelao, disperso in mare in seguito ad una furiosa tempesta. Tornano, nel suo discorso, le consuete metafore, con qualche novità: le onde fanno cozzare le navi con le corna dei rostri, come gregge in fuga; il raggio di sole è citato in antitesi alla spenta casa degli Atridi (ma l’araldo formula l’augurio che i presagi funesti non si verifichino).
SECONDO STASIMO
Vengono riprese le metafore della caccia, che qui ha come oggetto Elena (il cui nome Eschilo fa derivare da ελει̃ν, distruggere). Paride è paragonato ad un cucciolo di leone, che, allevato nella casa di un pastore, si mostra dapprima mansueto, ma, una volta cresciuto, mostra la sua vera natura sbranando coloro che lo hanno allevato; così Paride è un sacerdote di Ate. Anche le nozze con Elena, in apparenza fonte di gioia, sono state in realtà fonte di sciagura.
Nella terza antistrofe Eschilo riprende e precisa ulteriormente il suo pensiero religioso: non sono la fortuna o la ricchezza ad attirare la vendetta degli dei. Eschilo proclama con orgoglio la propria differenza di opinione rispetto alla tradizionale concezione dello φθόνος τω̃ν θεω̃ν (presente, ad esempio, in Erodoto): è la colpa a generare nuova colpa e sventura. La Giustizia (Dike) abita nei fumosi tuguri dei poveri, ma rifugge dalle regge costellate d’oro e macchiate di sangue.
TERZO EPISODIO
Il Corifeo saluta Agamennone: ma Il suo saluto non è esente da critiche. Anche qui, per sua bocca viene espresso il pensiero del popolo.
Agamennone ringrazia gli dei che gli hanno concesso la vittoria. Nel suo discorso, le metafore venatorie sono riferite a Troia, caduta nel laccio,presa nella rete ecc. L’esercito acheo viene paragonato a un leone affamato, che si sazia solo quando lecca il sangue della famiglia reale. La conquista di Troia si configura come un’azione di caccia, effettuata di notte, con astuzia e con ferocia: l’opposto degli ideali oplitici. Come dire : il mondo “eroico” degli aristocratici è estraneo alla polis e ai suoi valori, appartiene a un passato “selvaggio” – è “selvaggia” l’uccisione di consanguinei, come l’incesto e il cannibalismo; è “da selvaggi” lottare con l’astuzia e l’inganno, anziché corpo a corpo, lealmente, alla maniera degli opliti. Il mondo eroico, insomma, è lontano dalla civiltà, che, per un Greco del V sec. a. C., si identifica con la polis.
Il saluto di Clitemestra ad Agamennone è un capolavoro di abilità oratoria, ed è pervaso da una sinistra ironia: se Agamennone avesse ricevuto tante ferite, quante ne sono state – falsamente – annunciate alla regina, il suo corpo avrebbe più piaghe delle maglie di una rete (v. 868). Come, puntualmente, si verificherà tra breve: Agamennone morirà, preso nella rete di morte (1115), rete senza scampo (1382), rete da pesca (1382), che essa, Clitemestra, insieme ad Egisto, tende intorno a lui (1110). Le metafore venatorie, fin qui applicate soprattutto ai Troiani, e a Paride in primo luogo, subiscono un rovesciamento: il cacciatore sarà a sua volta cacciato; chi tendeva inganni e trappole ai nemici , sarà a sua volta ingannato e preso in trappola ecc. Il che si verificherà anche per Clitemestra nella tragedia successiva (le Coefore), e per Oreste nel terzo dramma della trilogia (Le Eumenidi): i giustizieri che si sono resi a loro volta colpevoli diventeranno a loro volta prede di altri giustizieri, in una sinistra catena di delitti a cui porrà fine solo l’istituzione dell’ Areopago (cioè dei tribunali: in ultima analisi, solo l’avvento della polis democratica e delle sue istituzioni porrà fine alle interminabili faide delle famiglie aristocratiche).Come nei precedenti discorsi, anche in questa occasione Clitemestra dice sempre la verità: è vero che non ha più lacrime. Le ha sparse tutte per la figlia ingiustamente uccisa. Ma, come al solito, il Coro , e lo stesso Agamennone, sono indotti a interpretare in senso diverso le sue parole. E’ vero che ha atteso il marito con ansia: per vendicarsi. Ma gli altri vedono nel suo discorso solo un’espressione di amore coniugale: Clitemestra cita addirittura una similitudine omerica ( cfr. ψ 253 – 293: è la scena in cui Penelope riconosce Ulisse): Come la terra appare insperata ai naviganti, così è per lei lo sposo … ecc. La donna invita quindi Agamennone a rientrare nella sua reggia camminando sui tappeti di porpora che le schiave hanno steso ai suoi piedi. E si augura che Dike, la Giustizia, lo veda: quei tappeti di porpora – il rosso della porpora simboleggia il sangue – porteranno Agamennone nella casa (δώματα) dell’ Ade. E sarà Dike stessa a presiedere alla sua punizione. Agamennone appare qui saggio e “moderato”: non vuole camminare sui tappeti di porpora, perché ritiene che ciò sia segno di hybris, atteggiamento tipico di un sovrano orientale. Vuole insomma presentarsi come un re “democratico” (cfr. il re Pelasgo delle Supplici). L’atteggiamento tracotante che caratterizza questo personaggio nell’epos omerico qui è completamente assente. Secondo Di Benedetto, egli ha appreso la saggezza mediante la sofferenza (secondo la legge del πάθει μάθος), ed è un Agamennone totalmente mutato quello che cadrà vittima della vendetta di Clitemestra. Persino il suo cedere alle insistenze della moglie – a proposito dei tappeti di porpora – è considerato dal Di Benedetto segno dell’avvenuto cambiamento.
Ma a me questa tesi non sembra condivisibile: le parole dell’araldo, che, poco prima, ha narrato lo scempio di Troia, non ci consentono di vedere nell’Atride un uomo che, attraverso il dolore, abbia appreso moderazione e saggezza. Piuttosto, egli appare come svuotato della carica eroica che gli attribuiva l’epos, come estenuato. In un mondo in cui non c’è più posto per il solitario eroe aristocratico, Agamennone ha perduto la primitiva baldanza e si avvia alla sua fine inevitabile. Della sua hybris è dimostrazione estrema proprio la prigioniera – concubina che si porta dietro, la sventurata Cassandra, prova vivente della violazione dei templi di Troia.
Destinatario del πάθει μάθος è, io credo, non il personaggio eroico che nel dramma – momento di autocoscienza collettiva – viene rimesso in discussione, ma la polis intera, il popolo (rappresentato dal Coro) che, attraverso le vicende paradigmatiche dei suoi eroi mitici, fa i conti col passato e ne prende le distanze. Non a caso, è proprio il Coro, nell’Agamennone, l’unico portatore di un messaggio di saggezza e di moderazione. E’ attraverso le parole del Coro che Eschilo esprime il suo pensiero religioso. In quanto all’eroe tragico, il momento dell’acquisizione della saggezza- del φρονει̃ν, dell’autoconsapevolezza, diremmo noi – coincide con il momento della sua morte, o comunque del suo annientamento.
Così Agamennone, eroe “stanco”, si avvia verso la morte, guidato dalla rete di lusinghe in cui lo avvolge Clitemestra, la quale, accingendosi a compiere la sua vendetta, invoca Zeus Teleios, lo Zeus che tutto compie, in apparenza perché l’assista mentre essa compie il sacrificio rituale, ma in realtà perché sia lui stesso, insieme a Δίκη e al demone vendicatore, a punire Agamennone: Zeus Teleios, appunto, è il dio che presiede alla morte “che tutto conclude”.

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