confronto tra le protasi dell’odissea, dell’Iliade e dell’Eneide UPGC2012

PROTASI DELL’ODISSEA

( α,vv. 1-10)

 

1      Άνδρα      μοι      έννεπε ,    Μου̃σα,             πολύτοπον,       ός   μάλα     πολλά

L’uomo  a me     canta        o Musa      dall’ingegno multiforme         il quale molto a lungo

πλάγχθη,          επεί               Τροίης         ιερόν        πτολίεθον         έπερσε  ˙

andò errando, dopo che    di Troia         la sacra      rocca            distrusse;

πολλω̃ν    δ’ανθρώπων       ίδεν         άστεα            καί             νόον                  έγνω

di molti     uomini        vide        le  città           e            la mente         conobbe

πολλά    δ’ό     γ’εν    πόντω       πάθεν      άλγεα            όν   κατά     θυμόν,

molti     egli         in mare   patì           dolori            nel suo       animo ,

5 αρνύμενος       ήν      τε        ψυχήν     καί       νόστον            εταίρων.

lottando         per la sua        vita       e     per il ritorno     dei  compagni.

Αλλ ‘  ουδ ‘    ως       ετάρους            ερρύσατο ,           ιέμενός     περ·

Ma  neanche così     i compagni     riuscì a salvare,      benché lo bramasse:

αυτω̃ν     γάρ        σφετέρησιν     ατασθαλίησιν         όλοντο,

infatti    per la loro stessa       stolta follia        perirono,

νήπιοι,      οί             κατά     βου̃ς      Υπερίονος          Ηελίοιο

pazzi,  essi  che             le vacche      dell’Iperione       Sole

ήσθιον·          αύταρ      ο       τοι̃σιν            αφείλετο        νοστιμον         η̃μαρ.

divorarono;   ed     egli          a loro              tolse           il giorno del ritorno.

10     Τω̃ν    αμόθεν   γε,          θεά,    θυγάτερ  Διός,    ειπέ     καί       ημι̃ν.

Di  questi  fatti, cominciando da un punto qualunque, o dea,  figlia   di Zeus ,  narra  anche      a noi

(qualcosa).

Nota: i canti dell’Iliade si indicano con le lettere maiuscole dell’alfabeto greco, quelli dell’Odissea con le minuscole. Quindi α 1-10 significa: Odissea, canto 1° versi  1-10.

 

OSSERVAZIONI SULLA PROTASI DELL’ODISSEA

 

Al verso 1, l’uomo (andra), ma anche “l’eroe” ,cioè Odisseo, è collocato in posizione enfatica, cioè in una posizione di rilievo, perché costituisce l’argomento del poema. Analogamente, anche la qualità che gli viene attribuita (l’ingegno multiforme) ha una posizione speciale, dopo la pausa ritmica del verso (cesura), per sottolinearne l’importanza. In senso più lato, però, si potrebbe intendere “l’uomo “in genere, in quanto diverso sia dagli dei che dalle bestie, dai mostri subumani, perché Odisseo è il “paradigma”, cioè il modello esemplare dell’umanità, con i suoi pregi e le sue debolezze. “Moi” cioè “a me” è il dativo del pronome personale di  prima persona: è questa la prima volta e l’unica volta che in un poema epico così antico appare un riferimento all’”io” del poeta, il quale – si badi bene – non è l’autore, bensì il destinatario del canto: è la Musa  che canta (énnepe cioè “canta” imperativo), il poeta  ne è solo il portavoce.

Subito dopo, nei versi successivi  (dal 2 al 6) vengono delineate le caratteristiche fondamentali, o meglio le diverse componenti del personaggio Odisseo, che sono anche i temi dominanti del poema: il lungo vagabondaggio dopo la distruzione di Troia, che viene senz’altro attribuita a lui (Ulisse è quindi parte del mito troiano e del complesso ciclo mitico dei nòstoi, cioè dei  travagliati ritorni in patria dei guerrieri achei), il tema della curiosità e della sete di conoscenza, della varia esperienza di paesi e popoli acquisita nel corso dei lunghi viaggi, sottolineata dalla ripetizione dell’aggettivo-avverbio “molto”: nell’epiteto “polytropon”, per il quale trovo insuperata la traduzione del Pindemonte “dal multiforme ingegno”; in “mala pollà” ,molto a lungo, con funzione avverbiale alla fine del 1° verso; in “pollon” all’inizio del verso 3, in “pollà” all’inizio del 4. La ripetizione non è casuale: si tratta di  artifici retorici (anadiplosi, poliptoto) che sono un chiaro indizio dell’abilità “artigianale” del Poeta dell’Odissea (che per convenzione chiamiamo “Omero”). Come si può notare fin dalle prime battute, l’Odissea NON è espressione spontanea e immediata di un intero popolo, non è poesia popolare – come pretendevano i romantici -, bensì opera raffinata e complessa, che presuppone una plurisecolare tradizione “tecnica” e letteraria.

Nei versi 5 e 6 ci viene presentata un’altra caratteristica fondamentale dell’eroe: la sua ansia, la sua lotta per la salvezza dei compagni (compagni non sempre e non del tutto leali e fidati), la sua – diremmo noi – dimensione altruistica, naturale in un leader, ma purtroppo destinata al fallimento. Quello che è notevole, però, è la causa di tale fallimento: i compagni di Ulisse periscono per la loro “atasthalia”, termine che potremmo tradurre con “ stupida follia, stoltezza”. Non è il volere del fato o degli dei a provocarne la morte, ma la loro debolezza, la loro incapacità di resistere ai morsi della fame (resistere alla fame e al sonno sono le prove a cui, tradizionalmente, sono sottoposti gli eroi nell’epica e nel folclore): uccidono e divorano le vacche sacre del dio Sole (dimostrando, così, di non essere autentici eroi) e quindi sono indegni di raggiungere la meta agognata, Itaca. E’ ancora un dio a suscitare la violenta tempesta che travolge la loro nave, ma sono stati loro a provocarne la collera. Il concetto di responsabilità fa qui la sua prima, timida apparizione nella cultura europea ,concetto ribadito subito dopo , nel corso di un’assemblea divina, dallo stesso Zeus: “ Ahimè, quante colpe i mortali attribuiscono agli dei! Da noi, infatti, essi dicono che provengono le sventure, ma, invece, a causa della loro stolta follia (ancora una volta “atasthalia”)attirano su se stessi i mali, contro il volere del fato” . E  Zeus cita subito la morte – meritata – di Egisto, che aveva ucciso Agamennone , usurpandone la moglie e il regno. A ragione Oreste, figlio di Agamennone, l’aveva a sua volta assassinato, vendicando il padre (versi 32 – 43).

Tanto più rilevante ci appare questa sottolineatura del concetto di responsabilità personale, se lo confrontiamo con un episodio del 3° canto dell’Iliade: Elena, la “donna fatale” che con la sua fuga ha provocato la guerra di Troia, dall’alto delle mura ha assistito al duello tra Menelao, il marito da lei  tradito, e Paride, l’amante. Quest’ultimo si è rivelato un uomo da nulla, un vile, e si è salvato solo grazie alla protezione di Afrodite. Menelao, al contrario, ha dato prova di grande valore: lui sì è un vero uomo, Paride non è che un bellimbusto effeminato. Elena è pentita di ciò che ha fatto, prova vergogna e rimorso. Ma Afrodite ha portato Paride, il suo protetto, in salvo, a casa sua, nel suo letto. E Paride reclama la presenza di Elena, perché la desidera e vuole fare l’amore con lei. All’invito di Afrodite, che è andata a chiamarla assumendo l’aspetto di un’anziana ancella, Elena si ribella e risponde in malo modo, anche quando capisce che l’insolita messaggera è la dea in persona. Ma Afrodite la minaccia e le incute un timore tale che Elena obbedisce e va a letto con Paride. Insomma, La responsabilità della colpa è della dea, non della creatura umana, che non ha la forza di opporsi agli ordini divini. La differenza dall’Odissea è rilevante, ed è un chiaro indizio della maggiore antichità dell’Iliade.

La protasi si conclude con il verso 10 ( Di questi eventi, cominciando da un punto qualunque, o dea, narra qualcosa anche a noi): ha una struttura “ad anello”, in quanto nel 10° verso si ribadisce l’invocazione alla Musa presente nel 1° verso.  Seguono poco più di 80 versi che fungono da introduzione alla narrazione vera e propria: l’esposizione dell’antefatto, l’ostilità di Poseidon verso Odisseo, l’assemblea degli dei  (cui si è già accennato) che costituisce una sorta di cornice, (entro la quale si inserisce la cosiddetta Telemachia, cioè i primi 4 canti, in cui si narrano le avventure di Telemaco e gli avvenimenti di Itaca) che si chiude nel 5° canto, con l’entrata in scena del protagonista, prigioniero di Calipso. Nella parte introduttiva Ulisse non è presente se non nei ricordi, nei sentimenti e nei discorsi  di altri, nell’odio di Poseidon e nella pietà di Atena, che così  parla al padre Zeus: “ Il mio cuore si spezza per Odisseo dall’acuto intelletto, il quale , sventurato, lontano dai suoi cari, soffre interminabili pene, nell’isola in mezzo al mare … isola selvosa, in cui ha dimora una dea, la figlia del  terribile Atlante. Essa con lusinghe e discorsi incantatori trattiene quel povero infelice, perché scordi Itaca. Ma Odisseo, nel desiderio di scorgere anche solo il fumo che si leva dalla sua terra, vuole morire.”  Ecco la prima, significativa presentazione dell’eroe. La dea Calipso lo ama, vorrebbe trattenerlo sempre con sé. Calipso è bella, eternamente giovane. Accettare il suo amore significa ottenere l’immortalità, l’eterna giovinezza, una vita libera da affanni e dolori. Ma Ulisse preferisce morire pur di rivedere il fumo che si leva dalla sua patria. Quel fumo rappresenta un mondo: il mondo  degli affetti, la terra dei padri, e, in genere, degli uomini, in antitesi a quello degli dei e al mondo animale. Né gli uni né gli altri accendono il fuoco per cuocere il cibo, il pane in primo luogo, che è, per definizione, il cibo dell’uomo per eccellenza. Ulisse, insomma, sceglie di essere uomo, accettando implicitamente tutti i mali che la condizione umana comporta, inclusa la morte.

Come si può notare, nella protasi non c’è cenno alla seconda parte dell’Odissea, cioè agli avvenimenti successivi al ritorno di Ulisse nella sua Itaca. Ma questa “incongruenza”, che è un indizio della storia travagliata del poema, e della sua natura composita, risulterà più comprensibile in seguito.

Per il momento, conviene invece dare un’occhiata alle protasi dei due altri poemi dell’antichità: a quella dell’Iliade, di alcuni decenni anteriore all’Odissea e attribuita dalla tradizione allo stesso autore, ad Omero, e quella, di 800 anni posteriore, dell’Eneide di Virgilio.

 

 

 

 

PROTASI DELL’Iliade

( A,1-7)

L’ira canta, o dea, del Pelide Achille,

(ira) mortale, che infiniti  lutti agli Achei arrecò,

molte forti vite  scagliò nell’Ade,

(vite) di eroi, li rese preda per i cani

e per tutti gli uccelli: si compiva il volere di Zeus

da quando  per la prima volta si divisero  litigando

Atride sovrano di uomini  e il divino Achille.

L’argomento del poema, cioè l’ira di Achille, è enunciato  subito,all’inizio del primo verso( si dà così l’avvio ad una consuetudine letteraria che si perpetuerà nei secoli), ma è esclusivamente la Musa l’autrice del canto. L’io del Poeta è totalmente assente: non è citato nemmeno come destinatario del canto (ed è perciò discutibile la famosissima traduzione del Monti :“Cantami, o Diva, del Pelide Achille l’ira funesta”). Il narratore dell’Iliade è, in assoluto, il più “oggettivo” che si conosca. Totalmente estraneo all’azione, guarda gli eventi dall’alto, come “l’occhio di Dio” che tutto vede e conosce, anche i pensieri e i sentimenti degli uomini. L’ira, collocata in posizione enfatica, come pure l’attributo ad essa riferito, all’inizio del 2° verso, è definita “mortale” , nel duplice significato di “inestinguibile, tale da durare fino alla morte” e di “apportatrice di morte “.   Subito dopo, le conseguenze  di tale  ira: la morte di molti Achei , rimasti privi del  loro più forte difensore e quindi più esposti agli attacchi del nemico. Ma dei Troiani non si fa cenno: le perdite dell’esercito acheo sono direttamente attribuite a un’unica causa: l’ira. Ma, al di sopra di essa, è la volontà di Zeus  a determinare gli eventi: è Zeus che, in seguito alle preghiere di Teti, la ninfa madre  di Achille, ha stabilito che molti Achei muoiano per vendicare l’offesa arrecata dall’Atride Agamennone all’eroe “divino”: non a caso i nomi dei due avversari sono collocati l’uno all’inizio e l’altro alle fine del verso, in una forte contrapposizione sottolineata dalla disposizione incrociata (chiasmo) dei nomi e dei loro epiteti (nome – epiteto – epiteto – nome). La guerra di Troia rimane sullo sfondo, elemento secondario rispetto all’argomento del poema, che è la lite tra due sovrani achei. Come si può notare, la protasi dell’Iliade, ancor più di quella dell’Odissea, è “parziale”, non del tutto rispondente al contenuto effettivo del Poema come lo conosciamo noi. Anche in questo caso, come nell’Odissea, la motivazione dell’”incongruenza” è da ricercare nella formazione complessa e travagliata del Poema.

PROTASI dell’ENEIDE   (I,1-11)

Le imprese guerresche  e l’eroe  io canto, (l’eroe) che per primo, dalle spiagge di Troia

fuggiasco  per volere del Fato  venne in Italia e ai lidi

lavinii, molto a lungo sballottato per terre e per mari

dalla violenza degli dei, a causa dell’ira memore della crudele Giunone,

molto  soffrì  anche in guerra, finché  riuscì a fondare la città

e introdusse   nel Lazio  i suoi dei, donde ebbe origine la stirpe

latina  e i padri Albani, e le mura dell’alta Roma.

Musa, ricordami le cause, per quale oltraggio alla sua divinità,

o per quale torto subito, la regina degli dei  condannò

un uomo insigne per pietas  ad affrontare tante sventure,

ad affrontare tanti travagli. Così grandi sono le ire nell’animo dei  celesti!

 

L’Eneide, composta  nel primo secolo della nostra era,  a una distanza di più di otto secoli dai poemi omerici, che ne costituiscono il modello, da un Poeta, Virgilio, a noi perfettamente noto, è lontana migliaia di anni – luce dall’Odissea, e quindi estranea al nostro discorso. Tuttavia  un confronto tra i rispettivi proemi può servire  più di qualsiasi discorso teorico a far capire, per contrasto, la differenza tra l’epica dei secoli  più recenti e quella, antichissima, di Omero.

Anche qui l’argomento del poema è collocato in posizione enfatica, all’inizio del 1° verso, ma la differenza dai poemi omerici è notevole: nell’Iliade è l’ira, cioè un sentimento, una passione individuale che ci fa subito intuire il carattere del protagonista, uomo dalle passioni smisurate; nell’Odissea è l’eroe Ulisse a costituire il centro della narrazione. Nell’Eneide non più: sono le imprese e l’eroe, o meglio, se intendiamo l’espressione come una endiadi  (endiadi = espressione di un concetto per mezzo di due parole), le imprese guerresche dell’eroe a costituire il tema del canto. Tutto questo è molto “latino”: per gli antichi Romani l’uomo “è”  ciò che fa. Se leggiamo, ad esempio, l’epigrafe funeraria di qualsiasi personaggio ragguardevole, vediamo ridotta al minimo la dimensione privata, mentre viene evidenziato il ruolo pubblico del defunto: cariche politiche e militari, imprese belliche ecc. Mentre  gli eroi omerici, anche attraverso i loro epiteti, ci vengono presentati come individui dotati di una forte personalità, di Enea si dice soltanto che è “insigne per pietas”. La “pietas” è un termine intraducibile in italiano: indica un complesso di atteggiamenti che, nell’etica di Roma antica, sono tipici del cittadino modello: la pietà religiosa, il rispetto per i genitori e la famiglia, la devozione per la patria, l’osservanza del  rigido codice morale tradizionale … l’individuo Enea ci sfugge, è inafferrabile nei suoi tratti caratteriali e personali. O meglio, di lui possiamo cogliere un’unica caratteristica “umana”: il dolore. Perché Enea ha perduto tutto: la patria, la moglie, gli affetti più cari. Non ha il diritto di legarsi a un’altra donna, di cercare la sua non diciamo felicità, ma nemmeno serenità. Non può coltivare sogni e progetti personali. Esiste unicamente per la missione che il Fato gli ha assegnato: fondare una città e una stirpe da cui nascerà Roma. E il Fato – si badi bene – non ha nulla a che vedere col la capricciosa Moira (il destino) di Omero: il Fato virgiliano è la Prònoia, la provvidenza degli Stoici. L’Eneide è fortemente influenzata dall’ideologia augustea, stoicheggiante. Ed Enea è un eroe stoico: non può cedere ad alcuna passione, ad alcuna debolezza umana. Mentre Ulisse e Achille, i protagonisti dei poemi omerici, sono definiti da numerosi epiteti che ne delineano le caratteristiche fisiche e psichiche, Enea è definito da due soli epiteti: “pius”, cioè dotato di pietas, e “pater”, cioè padre fondatore della stirpe latina. Per questo motivo, probabilmente, al lettore odierno appare “scialbo”. Ulisse e Achille sono invece degli archetipi  universali. Ulisse, in particolare, è forse il più famoso e vitale personaggio della letteratura di tutti i tempi: dall’Ulisse di Dante a quello di Joyce, dà il nome a programmi televisivi e riviste di divulgazione scientifica, ed è presente persino nei cartoons … del resto, basta vedere la diversa reazione dei ragazzini del ginnasio di fronte all’epica classica: noia e indifferenza per l’Eneide, interesse per entrambi i poemi omerici, che sono sempre dei best seller. Infine: nei poemi omerici gli dei sono onnipresenti, considerati un” dato ovvio”, indifferenti al bene e al male, amorali come le forze della natura di cui sono l’espressione. Non sono “giudicati” né sottoposti a valutazione morale: spesso crudeli, indifferenti alla sorte degli uomini, o impotenti davanti alla Moira – destino, possono essere invocati o derisi o addirittura aggrediti dagli uomini, che tuttavia non pongono in dubbio la loro esistenza. Non così nell’Eneide: Virgilio, non dimentichiamolo, aveva avuto una formazione epicurea (“gli dei, ammesso che esistano, -ma non ne siamo sicuri – non si curano degli uomini). Per Virgilio gli dei sono malvagi, e sulla loro esistenza deve nutrire parecchi dubbi. Semmai può avere aderito nell’età adulta, come molti intellettuali a lui contemporanei, all’ideologia di Augusto: può credere in una intelligenza suprema che governa l’universo e gli uomini, e ne guida gli eventi finalizzandoli al raggiungimento di un ordine provvidenziale  – sotto il governo di Roma , beninteso – che è la riproduzione dell’ordine cosmico. Giunone, Venere, presenti nel Poema perché fanno parte del genere letterario, come “topoi”, sono in realtà puri espedienti narrativi, come il cattivo nella fiaba: se non ci fosse non accadrebbe nulla e l’eroe non sarebbe più tale.

Da notare, infine: l’autore del canto è il Poeta, Virgilio (io canto). La Musa è presente solo in quanto richiama alla memoria le cause degli antichi eventi (un cenno ai modelli omerici simboleggiati dalla Musa).

La distanza da Omero è abissale. Anche il canone dell’impersonalità è venuto meno: l’esclamazione del verso 11 (epifonema: così grandi sono le ire negli animi dei celesti!) rivela la partecipazione diretta dell’Autore agli eventi narrati, la sua perplessità di fronte a divinità così poco credibili.

PROTASI DELL’ODISSEA

( α,vv. 1-10)

 

1      Άνδρα      μοι      έννεπε ,    Μου̃σα,             πολύτοπον,                         ός   μάλα     πολλά

L’uomo  a me     canta        o Musa      dall’ingegno multiforme         il quale molto a lungo

πλάγχθη,          επεί               Τροίης         ιερόν        πτολίεθον         έπερσε  ˙

andò errando, dopo che    di Troia         la sacra           rocca            distrusse;

πολλω̃ν    δ’ανθρώπων       ίδεν         άστεα            καί             νόον                        έγνω

di molti     uomini                 vide        le  città           e                 la mente         conobbe

πολλά    δ’ό     γ’εν    πόντω       πάθεν      άλγεα            όν   κατά     θυμόν,

molti     egli         in mare           patì           dolori            nel suo        animo ,

5      αρνύμενος       ήν      τε        ψυχήν     καί       νόστον            εταίρων.

lottando          per la sua       vita         e     per il ritorno     dei  compagni.

Αλλ ‘  ουδ ‘    ως       ετάρους            ερρύσατο ,           ιέμενός     περ·

Ma  neanche così     i compagni     riuscì a salvare,      benché lo bramasse:

αυτω̃ν     γάρ        σφετέρησιν     ατασθαλίησιν         όλοντο,

infatti    per la loro stessa            stolta follia              perirono,

νήπιοι,      οί             κατά     βου̃ς      Υπερίονος          Ηελίοιο

pazzi,  essi  che             le vacche      dell’Iperione       Sole

ήσθιον·          αύταρ      ο          τοι̃σιν                αφείλετο        νοστιμον         η̃μαρ.

divorarono;   ed     egli               a loro                 tolse                 il giorno del ritorno.

10     Τω̃ν         αμόθεν             γε,                                                θεά,    θυγάτερ  Διός,    ειπέ     καί           ημι̃ν.

Di  questi  fatti, cominciando da un punto qualunque, o dea,  figlia   di Zeus ,  narra  anche      a noi

(qualcosa).

 

Nota: i canti dell’Iliade si indicano con le lettere maiuscole dell’alfabeto greco, quelli dell’Odissea con le minuscole. Quindi α 1-10 significa: Odissea, canto 1° versi  1-10.

 

OSSERVAZIONI SULLA PROTASI DELL’ODISSEA

 

Al verso 1, l’uomo (andra), ma anche “l’eroe” ,cioè Odisseo, è collocato in posizione enfatica, cioè in una posizione di rilievo, perché costituisce l’argomento del poema. Analogamente, anche la qualità che gli viene attribuita (l’ingegno multiforme) ha una posizione speciale, dopo la pausa ritmica del verso (cesura), per sottolinearne l’importanza. In senso più lato, però, si potrebbe intendere “l’uomo “in genere, in quanto diverso sia dagli dei che dalle bestie, dai mostri subumani, perché Odisseo è il “paradigma”, cioè il modello esemplare dell’umanità, con i suoi pregi e le sue debolezze. “Moi” cioè “a me” è il dativo del pronome personale di  prima persona: è questa la prima volta e l’unica volta che in un poema epico così antico appare un riferimento all’”io” del poeta, il quale – si badi bene – non è l’autore, bensì il destinatario del canto: è la Musa  che canta (énnepe cioè “canta” imperativo), il poeta  ne è solo il portavoce.

Subito dopo, nei versi successivi  (dal 2 al 6) vengono delineate le caratteristiche fondamentali, o meglio le diverse componenti del personaggio Odisseo, che sono anche i temi dominanti del poema: il lungo vagabondaggio dopo la distruzione di Troia, che viene senz’altro attribuita a lui (Ulisse è quindi parte del mito troiano e del complesso ciclo mitico dei nòstoi, cioè dei  travagliati ritorni in patria dei guerrieri achei), il tema della curiosità e della sete di conoscenza, della varia esperienza di paesi e popoli acquisita nel corso dei lunghi viaggi, sottolineata dalla ripetizione dell’aggettivo-avverbio “molto”: nell’epiteto “polytropon”, per il quale trovo insuperata la traduzione del Pindemonte “dal multiforme ingegno”; in “mala pollà” ,molto a lungo, con funzione avverbiale alla fine del 1° verso; in “pollon” all’inizio del verso 3, in “pollà” all’inizio del 4. La ripetizione non è casuale: si tratta di  artifici retorici (anadiplosi, poliptoto) che sono un chiaro indizio dell’abilità “artigianale” del Poeta dell’Odissea (che per convenzione chiamiamo “Omero”). Come si può notare fin dalle prime battute, l’Odissea NON è espressione spontanea e immediata di un intero popolo, non è poesia popolare – come pretendevano i romantici -, bensì opera raffinata e complessa, che presuppone una plurisecolare tradizione “tecnica” e letteraria.

Nei versi 5 e 6 ci viene presentata un’altra caratteristica fondamentale dell’eroe: la sua ansia, la sua lotta per la salvezza dei compagni (compagni non sempre e non del tutto leali e fidati), la sua – diremmo noi – dimensione altruistica, naturale in un leader, ma purtroppo destinata al fallimento. Quello che è notevole, però, è la causa di tale fallimento: i compagni di Ulisse periscono per la loro “atasthalia”, termine che potremmo tradurre con “ stupida follia, stoltezza”. Non è il volere del fato o degli dei a provocarne la morte, ma la loro debolezza, la loro incapacità di resistere ai morsi della fame (resistere alla fame e al sonno sono le prove a cui, tradizionalmente, sono sottoposti gli eroi nell’epica e nel folclore): uccidono e divorano le vacche sacre del dio Sole (dimostrando, così, di non essere autentici eroi) e quindi sono indegni di raggiungere la meta agognata, Itaca. E’ ancora un dio a suscitare la violenta tempesta che travolge la loro nave, ma sono stati loro a provocarne la collera. Il concetto di responsabilità fa qui la sua prima, timida apparizione nella cultura europea ,concetto ribadito subito dopo , nel corso di un’assemblea divina, dallo stesso Zeus: “ Ahimè, quante colpe i mortali attribuiscono agli dei! Da noi, infatti, essi dicono che provengono le sventure, ma, invece, a causa della loro stolta follia (ancora una volta “atasthalia”)attirano su se stessi i mali, contro il volere del fato” . E  Zeus cita subito la morte – meritata – di Egisto, che aveva ucciso Agamennone , usurpandone la moglie e il regno. A ragione Oreste, figlio di Agamennone, l’aveva a sua volta assassinato, vendicando il padre (versi 32 – 43).

Tanto più rilevante ci appare questa sottolineatura del concetto di responsabilità personale, se lo confrontiamo con un episodio del 3° canto dell’Iliade: Elena, la “donna fatale” che con la sua fuga ha provocato la guerra di Troia, dall’alto delle mura ha assistito al duello tra Menelao, il marito da lei  tradito, e Paride, l’amante. Quest’ultimo si è rivelato un uomo da nulla, un vile, e si è salvato solo grazie alla protezione di Afrodite. Menelao, al contrario, ha dato prova di grande valore: lui sì è un vero uomo, Paride non è che un bellimbusto effeminato. Elena è pentita di ciò che ha fatto, prova vergogna e rimorso. Ma Afrodite ha portato Paride, il suo protetto, in salvo, a casa sua, nel suo letto. E Paride reclama la presenza di Elena, perché la desidera e vuole fare l’amore con lei. All’invito di Afrodite, che è andata a chiamarla assumendo l’aspetto di un’anziana ancella, Elena si ribella e risponde in malo modo, anche quando capisce che l’insolita messaggera è la dea in persona. Ma Afrodite la minaccia e le incute un timore tale che Elena obbedisce e va a letto con Paride. Insomma, La responsabilità della colpa è della dea, non della creatura umana, che non ha la forza di opporsi agli ordini divini. La differenza dall’Odissea è rilevante, ed è un chiaro indizio della maggiore antichità dell’Iliade.

La protasi si conclude con il verso 10 ( Di questi eventi, cominciando da un punto qualunque, o dea, narra qualcosa anche a noi): ha una struttura “ad anello”, in quanto nel 10° verso si ribadisce l’invocazione alla Musa presente nel 1° verso.  Seguono poco più di 80 versi che fungono da introduzione alla narrazione vera e propria: l’esposizione dell’antefatto, l’ostilità di Poseidon verso Odisseo, l’assemblea degli dei  (cui si è già accennato) che costituisce una sorta di cornice, (entro la quale si inserisce la cosiddetta Telemachia, cioè i primi 4 canti, in cui si narrano le avventure di Telemaco e gli avvenimenti di Itaca) che si chiude nel 5° canto, con l’entrata in scena del protagonista, prigioniero di Calipso. Nella parte introduttiva Ulisse non è presente se non nei ricordi, nei sentimenti e nei discorsi  di altri, nell’odio di Poseidon e nella pietà di Atena, che così  parla al padre Zeus: “ Il mio cuore si spezza per Odisseo dall’acuto intelletto, il quale , sventurato, lontano dai suoi cari, soffre interminabili pene, nell’isola in mezzo al mare … isola selvosa, in cui ha dimora una dea, la figlia del  terribile Atlante. Essa con lusinghe e discorsi incantatori trattiene quel povero infelice, perché scordi Itaca. Ma Odisseo, nel desiderio di scorgere anche solo il fumo che si leva dalla sua terra, vuole morire.”  Ecco la prima, significativa presentazione dell’eroe. La dea Calipso lo ama, vorrebbe trattenerlo sempre con sé. Calipso è bella, eternamente giovane. Accettare il suo amore significa ottenere l’immortalità, l’eterna giovinezza, una vita libera da affanni e dolori. Ma Ulisse preferisce morire pur di rivedere il fumo che si leva dalla sua patria. Quel fumo rappresenta un mondo: il mondo  degli affetti, la terra dei padri, e, in genere, degli uomini, in antitesi a quello degli dei e al mondo animale. Né gli uni né gli altri accendono il fuoco per cuocere il cibo, il pane in primo luogo, che è, per definizione, il cibo dell’uomo per eccellenza. Ulisse, insomma, sceglie di essere uomo, accettando implicitamente tutti i mali che la condizione umana comporta, inclusa la morte.

Come si può notare, nella protasi non c’è cenno alla seconda parte dell’Odissea, cioè agli avvenimenti successivi al ritorno di Ulisse nella sua Itaca. Ma questa “incongruenza”, che è un indizio della storia travagliata del poema, e della sua natura composita, risulterà più comprensibile in seguito.

Per il momento, conviene invece dare un’occhiata alle protasi dei due altri poemi dell’antichità: a quella dell’Iliade, di alcuni decenni anteriore all’Odissea e attribuita dalla tradizione allo stesso autore, ad Omero, e quella, di 800 anni posteriore, dell’Eneide di Virgilio.

 

 

 

 

PROTASI DELL’Iliade

( A,1-7)

L’ira canta, o dea, del Pelide Achille,

(ira) mortale, che infiniti  lutti agli Achei arrecò,

molte forti vite  scagliò nell’Ade,

(vite) di eroi, li rese preda per i cani

e per tutti gli uccelli: si compiva il volere di Zeus

da quando  per la prima volta si divisero  litigando

Atride sovrano di uomini  e il divino Achille.

L’argomento del poema, cioè l’ira di Achille, è enunciato  subito,all’inizio del primo verso( si dà così l’avvio ad una consuetudine letteraria che si perpetuerà nei secoli), ma è esclusivamente la Musa l’autrice del canto. L’io del Poeta è totalmente assente: non è citato nemmeno come destinatario del canto (ed è perciò discutibile la famosissima traduzione del Monti :“Cantami, o Diva, del Pelide Achille l’ira funesta”). Il narratore dell’Iliade è, in assoluto, il più “oggettivo” che si conosca. Totalmente estraneo all’azione, guarda gli eventi dall’alto, come “l’occhio di Dio” che tutto vede e conosce, anche i pensieri e i sentimenti degli uomini. L’ira, collocata in posizione enfatica, come pure l’attributo ad essa riferito, all’inizio del 2° verso, è definita “mortale” , nel duplice significato di “inestinguibile, tale da durare fino alla morte” e di “apportatrice di morte “.   Subito dopo, le conseguenze  di tale  ira: la morte di molti Achei , rimasti privi del  loro più forte difensore e quindi più esposti agli attacchi del nemico. Ma dei Troiani non si fa cenno: le perdite dell’esercito acheo sono direttamente attribuite a un’unica causa: l’ira. Ma, al di sopra di essa, è la volontà di Zeus  a determinare gli eventi: è Zeus che, in seguito alle preghiere di Teti, la ninfa madre  di Achille, ha stabilito che molti Achei muoiano per vendicare l’offesa arrecata dall’Atride Agamennone all’eroe “divino”: non a caso i nomi dei due avversari sono collocati l’uno all’inizio e l’altro alle fine del verso, in una forte contrapposizione sottolineata dalla disposizione incrociata (chiasmo) dei nomi e dei loro epiteti (nome – epiteto – epiteto – nome). La guerra di Troia rimane sullo sfondo, elemento secondario rispetto all’argomento del poema, che è la lite tra due sovrani achei. Come si può notare, la protasi dell’Iliade, ancor più di quella dell’Odissea, è “parziale”, non del tutto rispondente al contenuto effettivo del Poema come lo conosciamo noi. Anche in questo caso, come nell’Odissea, la motivazione dell’”incongruenza” è da ricercare nella formazione complessa e travagliata del Poema.

PROTASI dell’ENEIDE   (I,1-11)

Le imprese guerresche  e l’eroe  io canto, (l’eroe) che per primo, dalle spiagge di Troia

fuggiasco  per volere del Fato  venne in Italia e ai lidi

lavinii, molto a lungo sballottato per terre e per mari

dalla violenza degli dei, a causa dell’ira memore della crudele Giunone,

molto  soffrì  anche in guerra, finché  riuscì a fondare la città

e introdusse   nel Lazio  i suoi dei, donde ebbe origine la stirpe

latina  e i padri Albani, e le mura dell’alta Roma.

Musa, ricordami le cause, per quale oltraggio alla sua divinità,

o per quale torto subito, la regina degli dei  condannò

un uomo insigne per pietas  ad affrontare tante sventure,

ad affrontare tanti travagli. Così grandi sono le ire nell’animo dei  celesti!

 

L’Eneide, composta  nel primo secolo della nostra era,  a una distanza di più di otto secoli dai poemi omerici, che ne costituiscono il modello, da un Poeta, Virgilio, a noi perfettamente noto, è lontana migliaia di anni – luce dall’Odissea, e quindi estranea al nostro discorso. Tuttavia  un confronto tra i rispettivi proemi può servire  più di qualsiasi discorso teorico a far capire, per contrasto, la differenza tra l’epica dei secoli  più recenti e quella, antichissima, di Omero.

Anche qui l’argomento del poema è collocato in posizione enfatica, all’inizio del 1° verso, ma la differenza dai poemi omerici è notevole: nell’Iliade è l’ira, cioè un sentimento, una passione individuale che ci fa subito intuire il carattere del protagonista, uomo dalle passioni smisurate; nell’Odissea è l’eroe Ulisse a costituire il centro della narrazione. Nell’Eneide non più: sono le imprese e l’eroe, o meglio, se intendiamo l’espressione come una endiadi  (endiadi = espressione di un concetto per mezzo di due parole), le imprese guerresche dell’eroe a costituire il tema del canto. Tutto questo è molto “latino”: per gli antichi Romani l’uomo “è”  ciò che fa. Se leggiamo, ad esempio, l’epigrafe funeraria di qualsiasi personaggio ragguardevole, vediamo ridotta al minimo la dimensione privata, mentre viene evidenziato il ruolo pubblico del defunto: cariche politiche e militari, imprese belliche ecc. Mentre  gli eroi omerici, anche attraverso i loro epiteti, ci vengono presentati come individui dotati di una forte personalità, di Enea si dice soltanto che è “insigne per pietas”. La “pietas” è un termine intraducibile in italiano: indica un complesso di atteggiamenti che, nell’etica di Roma antica, sono tipici del cittadino modello: la pietà religiosa, il rispetto per i genitori e la famiglia, la devozione per la patria, l’osservanza del  rigido codice morale tradizionale … l’individuo Enea ci sfugge, è inafferrabile nei suoi tratti caratteriali e personali. O meglio, di lui possiamo cogliere un’unica caratteristica “umana”: il dolore. Perché Enea ha perduto tutto: la patria, la moglie, gli affetti più cari. Non ha il diritto di legarsi a un’altra donna, di cercare la sua non diciamo felicità, ma nemmeno serenità. Non può coltivare sogni e progetti personali. Esiste unicamente per la missione che il Fato gli ha assegnato: fondare una città e una stirpe da cui nascerà Roma. E il Fato – si badi bene – non ha nulla a che vedere col la capricciosa Moira (il destino) di Omero: il Fato virgiliano è la Prònoia, la provvidenza degli Stoici. L’Eneide è fortemente influenzata dall’ideologia augustea, stoicheggiante. Ed Enea è un eroe stoico: non può cedere ad alcuna passione, ad alcuna debolezza umana. Mentre Ulisse e Achille, i protagonisti dei poemi omerici, sono definiti da numerosi epiteti che ne delineano le caratteristiche fisiche e psichiche, Enea è definito da due soli epiteti: “pius”, cioè dotato di pietas, e “pater”, cioè padre fondatore della stirpe latina. Per questo motivo, probabilmente, al lettore odierno appare “scialbo”. Ulisse e Achille sono invece degli archetipi  universali. Ulisse, in particolare, è forse il più famoso e vitale personaggio della letteratura di tutti i tempi: dall’Ulisse di Dante a quello di Joyce, dà il nome a programmi televisivi e riviste di divulgazione scientifica, ed è presente persino nei cartoons … del resto, basta vedere la diversa reazione dei ragazzini del ginnasio di fronte all’epica classica: noia e indifferenza per l’Eneide, interesse per entrambi i poemi omerici, che sono sempre dei best seller. Infine: nei poemi omerici gli dei sono onnipresenti, considerati un” dato ovvio”, indifferenti al bene e al male, amorali come le forze della natura di cui sono l’espressione. Non sono “giudicati” né sottoposti a valutazione morale: spesso crudeli, indifferenti alla sorte degli uomini, o impotenti davanti alla Moira – destino, possono essere invocati o derisi o addirittura aggrediti dagli uomini, che tuttavia non pongono in dubbio la loro esistenza. Non così nell’Eneide: Virgilio, non dimentichiamolo, aveva avuto una formazione epicurea (“gli dei, ammesso che esistano, -ma non ne siamo sicuri – non si curano degli uomini). Per Virgilio gli dei sono malvagi, e sulla loro esistenza deve nutrire parecchi dubbi. Semmai può avere aderito nell’età adulta, come molti intellettuali a lui contemporanei, all’ideologia di Augusto: può credere in una intelligenza suprema che governa l’universo e gli uomini, e ne guida gli eventi finalizzandoli al raggiungimento di un ordine provvidenziale  – sotto il governo di Roma , beninteso – che è la riproduzione dell’ordine cosmico. Giunone, Venere, presenti nel Poema perché fanno parte del genere letterario, come “topoi”, sono in realtà puri espedienti narrativi, come il cattivo nella fiaba: se non ci fosse non accadrebbe nulla e l’eroe non sarebbe più tale.

Da notare, infine: l’autore del canto è il Poeta, Virgilio (io canto). La Musa è presente solo in quanto richiama alla memoria le cause degli antichi eventi (un cenno ai modelli omerici simboleggiati dalla Musa).

La distanza da Omero è abissale. Anche il canone dell’impersonalità è venuto meno: l’esclamazione del verso 11 (epifonema: così grandi sono le ire negli animi dei celesti!) rivela la partecipazione diretta dell’Autore agli eventi narrati, la sua perplessità di fronte a divinità così poco credibili.

 

 

 

 

Lascia un Commento