Osservazioni sull’Ifigenia

Osservazioni sull’ Ifigenia in Aulide

A differenza dell’Ifigenia in Tauride, composta verso il 412 – 11, grosso modo, nello stesso periodo dell’Elena, l’Ifigenia in Aulide appartiene alla fase macedone, conclusiva dell’attività e della vita di Euripide (in verità, alcuni ritengono che essa sia l’ultima tragedia composta ad Atene. Ma gli indizi sul luogo di composizione sono piuttosto fragili, e la questione a me sembra del tutto irrilevante). Tanto che l’Autore non la mise mai in scena, come, del resto, accadde per le Baccanti. Come sappiamo, egli lasciò Atene nel 408 a. C., stanco del difficile rapporto con i suoi concittadini, e si trasferì alla corte di Archelao, sovrano – mecenate della Macedonia, dove morì tra la fine del 407 e l’inizio del 406: ne siamo certi, perché nel proagone del 406 Sofocle si presentò in abiti di lutto per onorare la memoria di Euripide, morto di recente. Fu suo figlio, o suo nipote, a mettere in scena, postume, sia l’Ifigenia sia le Baccanti, insieme alla perduta Alcmeone a Corinto, di cui conosciamo poco più che il titolo: una tragedia “leggera” probabilmente, basata sugli espedienti dell’intrigo, della peripezia e dell’anagnorisis (riconoscimento), come nello Ione, nell’Elena, nell’Ifigenia in Tauride; quegli espedienti, cioè, che anticipano la Νέα; dramma forse destinato ad attenuare l’impatto che due tragedie dure, crudeli, cariche di interrogativi angosciosi dovevano avere sul pubblico. Sia nell’Ifigenia in Aulide che nelle Baccanti non ci sono eroi del tutto positivi. Non c’è più spazio per gli affetti familiari, né per la giustizia, né per la pietà. Se si applicassero alle tragedie greche le stesse categorie che usiamo per definire i film, dovremmo catalogarle nel genere “noir”. Dominano sovrani l’ambizione, l’interesse personale o di gruppo, l’arrivismo cinico dei politicanti di mestiere, la meschinità … e, per contro, i personaggi “ingenui” sono caratterizzati da una certa fragilità di fondo, dalla tendenza a divenire vittime, prima ancora che della violenza altrui, di pregiudizi e “valori” acriticamente accettati che li portano all’esaltazione e alla follia. E all’autodistruzione. Si tratta di due tragedie diversissime tra loro. Non sappiamo nemmeno se nelle intenzioni del Poeta dovessero far parte di un’unica trilogia. Eppure … siamo proprio certi che non abbiano nulla in comune, soprattutto nelle problematiche di fondo? E se facessero parte di un unico “discorso” estremamente inquietante e “urticante” del Poeta più scomodo per gli Ateniesi di quegli anni tumultuosi?
Si discute sull’autenticità del prologo dell’Ifigenia: alcuni lo ritengono spurio. A me personalmente sembra bellissimo, con quel contrasto tra la pace della natura e il tormento interiore di Agamennone: se non dovesse essere di Euripide, dovremmo credere che il suo continuatore (suo figlio? Suo nipote?) fosse veramente un grande poeta. La parte finale dell’esodo, invece, è sicuramente scritta da altri. Forse, addirittura, è stata aggiunta da uno scrittore bizantino. Il finale euripideo (ammesso che l’Autore l’abbia davvero scritto) doveva essere costituito, verosimilmente, dall’apparizione di Artemide, “dea ex machina”, che rivelava il prodigioso salvataggio della protagonista, sostituita in extremis da una cerva, e il suo altrettanto prodigioso trasferimento nel santuario della dea, di cui sarebbe diventata sacerdotessa (vedi l’Ifigenia in Tauride, che, dal punto di vista dell’argomento, costituisce il seguito dell’Ifigenia in Aulide).
Ma dobbiamo chiederci: perché la tragedia ci è pervenuta incompleta? Poteva, quel tipo di finale, con il solito espediente del deus ex machina, soddisfare la volontà creatrice dell’Autore? Era mai stata davvero una soluzione a un dilemma senza sbocco l’apparizione del dio? O non si trattava, piuttosto, di un puro espediente teatrale tendente a “rassicurare” gli spettatori? E se fosse una scelta precisa del Poeta lasciare il dramma incompiuto? Nella tradizione mitica sono presenti entrambe le varianti: il sacrificio reale di Ifigenia (v. Parodo dell’Agamennone di Eschilo e delle tragedie in genere che riguardano il mito di Oreste) e il miracoloso salvataggio della fanciulla. Comunque si concludesse la tragedia, il finale è estremamente ambiguo. Non è un “lieto fine”. Clitemestra ha perduto sua figlia. Per sempre. E Ifigenia, anche se “salvata”, non vedrà mai realizzati i suoi sogni di “quel vago avvenire” che si attendeva (v. supplica al padre): non avrà una famiglia sua. Non conoscerà l’amore di un uomo, né l’esperienza della maternità (potrà davvero la gloria futura compensarne la mancanza?). Benché salvata in extremis, avrà una sorte poco invidiabile: quella di sacerdotessa e ministra dei riti selvaggi della dea. Le parole di Agamennone, poi, sono un capolavoro di cinismo e di ambiguità:”Possiamo essere contenti per nostra figlia: vive insieme agli dei” (il che può benissimo essere detto di una persona defunta”. Anche il racconto del messo è giudicato poco credibile da Clitemestra, null’altro che una pietosa menzogna consolatoria.
Non a caso, quando, una decina di anni fa, abbiamo messo in scena l’Ifigenia (la sezione H, Marco Longo e io) abbiamo eliminato il finale (ci sembrava poco convincente), e concluso il dramma nel modo più crudo: Ifigenia che si avvia al supplizio per mano del padre. Sacrificio empio e contro natura, come sottolineava giustamente Eschilo nell’Orestea. Rituali selvaggi (che purtroppo hanno un fondamento storico reale), vendette disumane, catene di crimini ai quali la polis democratica, allora nella sua fase “aurorale”, e l’affermazione del diritto avrebbero finalmente posto fine. Ai tempi di Eschilo, beninteso. Poco prima della metà del V secolo ( l’Orestea è del 458). Ma ai tempi di Euripide, un quarantennio dopo, nel corso di una interminabile guerra più che ventennale (di cui non si intravedeva la fine e il cui esito era piuttosto incerto), Atene, la polis per eccellenza, era in piena crisi, e non solo in campo politico – istituzionale (degenerazione della democrazia in demagogia, tentativi di restaurazione della patrios politeia), ma anche in quello socio- economico e culturale. Le disuguaglianze su cui era fondata la polis classica esplodevano. Prendiamo in considerazione i temi dominanti dell’ Ifigenia:
- Il tormento interiore di Agamennone, diviso – a suo dire – tra ragion di stato e amore paterno. Ragion di stato? O non, piuttosto, meschina ambizione personale, come gli rinfaccia suo fratello? In quanto a lui, Menelao, perché esige in modo così inumano il sacrificio della nipote? Per riprendersi Elena, certamente, per vendicarsi del suo tradimento. Ma è possibile considerare le donne e i figli – propri o altrui – come una proprietà privata di cui si può disporre secondo il proprio capriccio, o interesse, come se fossero puri oggetti? Fino al punto di sacrificare una fanciulla innocente per una moglie infedele?
- Il conflitto insanabile tra uomo e donna: che quello tra Clitemestra e Agamennone non sia stato propriamente un “matrimonio d’amore” è cosa ovvia. Anzi, esso è nato dalla violenza. Agamennone, nel corso di chissà quale mitico conflitto, ha brutalmente ucciso il primo marito e il figlioletto di lei. Quindi l’ha stuprata, come il vincitore era solito fare con le prigioniere di guerra (a proposito: il nome Ifigenia significa etimologicamente “generata con la violenza”). Poi sono intervenuti i Dioscuri, i divini fratelli della donna, e hanno avuto il sopravvento. Agamennone si presenta, in veste di supplice, al vecchio Tindaro, padre di Clitemestra, gli chiede pace, diventa suo alleato: il nuovo patto è sancito dalle nozze tra Agamennone e la sua “prigioniera”. Clitemestra obbedisce al volere paterno. Non ha mai amato Agamennone. Tuttavia gli perdona i precedenti delitti e la violenza subita, e cerca di essere una moglie irreprensibile. Sarà il sacrificio della figlia a fare esplodere il suo odio: il suo silenzio finale è carico di minaccia e lascia presagire gli eventi futuri.
- Infine, la rhesis finale di Ifigenia e il suo “patriottismo razzista”: i Greci sono “nati per comandare” e i barbari “per essere servi” Come spiegare la subitanea trasformazione della mite fanciulla in una “pasionaria” esaltata, sostenitrice delle tesi militaristiche e guerrafondaie che si affermavano ad Atene verso la fine del V secolo, e sarebbero state ampiamente riprese nel dibattito politico del IV?
Che i “barbari” (cioè, principalmente, i popoli asiatici e in particolare i Persiani) fossero uomini inferiori perché “schiavi” di un sovrano assoluto quasi – dio è un’antica convinzione greca. Vedi ad esempio I Persiani di Eschilo: la regina Atossa si stupisce del valore dei soldati ellenici perché, senza essere costretti dal timore di un’autorità superiore, sono disposti a rischiare la vita. – Ma è proprio per questo motivo, ribatte il messo, perché combattono da uomini liberi, per se stessi, per le loro famiglie, per la loro terra, che sono così “invincibili” – I Greci, che “non piegano le ginocchia davanti a nessun essere umano” sono gli unici uomini degni di questo nome. Gli altri sono servi per natura.
La posizione di Erodoto, che, grazie al suo “relativismo culturale”, mostra rispetto per il mondo, la cultura, le usanze dei “barbari”, resta abbastanza isolata nell’Atene classica. Il primo dei “padri della storiografia” può attribuire ai persiani Otane, Megabizo e Dario lo straordinario dibattito costituzionale sulla migliore forma di governo, e la loro libera e ragionata scelta della monarchia. Ma tra il popolo l’idea più radicata resta sempre quella dell’inferiorità naturale dei popoli asiatici.
Queste convinzioni e questi atteggiamenti sono rafforzati dalle vicende storico – militari dell’ultimo scorcio del V secolo, e lo saranno ancor più nel secolo successivo: da tempo le sorti della guerra del Peloponneso dipendevano dal sostegno della Persia (come aveva ben compreso Alcibiade). La Persia diventerà sempre più l’ago della bilancia nei primi decenni del IV secolo,, quando l’intera Grecia sarà perennemente dilaniata da guerre intestine per la supremazia. Alcuni sosterranno la necessità di allearsi con la Persia per assicurare ad Atene il primato sulle poleis rivali (Sparta in primo luogo). Altri, invece, come ISOCRATE, ribadiranno le antiche ragioni di inimicizia tra Greci e barbari, citando ed esaltando proprio Agamennone e la sua spedizione contro Troia, e la necessità di un’alleanza tra Atene e Sparta, e le poleis greche in genere, in funzione anti-persiana.
Dunque Ifigenia si fa sostenitrice di questa precisa scelta politica? O è solo un’adolescente plagiata dal padre? E’ questo il pensiero di Euripide, l’autore di tragedie come Le Troiane, l’Ecuba, l’Andromaca? No, naturalmente. Pensare che Ifigenia sia la portavoce delle idee dell’Autore è frutto di ingenuità critica. Tra il Poeta e le sue creature “fatte della materia di cui sono composti i sogni” (non bisogna dimenticarlo) c’è sempre una DISTANZA incolmabile: Euripide non “è” Ifigenia, per quanta tenerezza e compassione possa ispirargli il personaggio della vittima innocente. Non si identifica MAI con un singolo personaggio dei suoi drammi, e nemmeno con il coro, bensì, di volta in volta, ora con l’uno, ora con l’altro: è in tutti e in nessuno.
Del resto, CHI è Ifigenia? CHI Agamennone, Clitemestra, Menelao? La caratteristica più vistosa dei personaggi del dramma è la loro mutevolezza, o, per dir meglio, il ROVESCIAMENTO radicale dei loro atteggiamenti e del loro volere: Agamennone è deciso a sacrificare sua figlia per “ragion di stato”, perché costretto da Ananke, la Necessità; poi però decide di rimandare a casa moglie e figlia; poi di nuovo si convince dell’ineluttabilità del sacrificio (non l’ha mai sfiorato, però, il minimo dubbio sulla necessità, o almeno sull’opportunità di scatenare una guerra contro Troia: la ragion di stato coincide con la sua bramosia di potere e di un ricco bottino); Menelao esige il sacrificio con brutale egoismo, poi si pente e sostiene le ragioni degli affetti familiari; lo stesso Achille, che tra i personaggi è forse il più coerente, insieme a Clitemestra e al vecchio servo, dapprima si infuria perché il suo nome illustre è stato usato, a sua insaputa, per un meschino inganno. Sarebbe toccato a lui, semmai (qualora le sue nozze con Ifigenia fossero state reali) “fare dono” della sua sposa agli Achei (insomma per le donne non c’era scampo: se si salvavano dal padre, potevano essere tranquillamente ammazzate dal marito per “un gesto di cortesia” verso altri maschi). Poi, però, preso da ammirazione – e forse da un iniziale embrione di innamoramento per la fanciulla- è disposto a rischiare la vita per salvarla, solo contro tutti. Ma il rovesciamento più stupefacente è quello riguardante la protagonista stessa, che passa dalle lacrime e dalle suppliche accorate al padre, agli atteggiamenti e ai discorsi “eroici”, facendo sue le convinzioni razziste e guerrafondaie della società di quel tempo. Il mutamento repentino ha stupito diversi critici, che ricercano la coerenza come virtù positiva nei personaggi poetici. Ma in un mondo come quello di Euripide, in cui sono venute meno tutte le certezze, in cui tutto è fluttuante e problematico, direi che anche Ifigenia ha una sua coerenza interiore. Ifigenia è una ragazzina, un’adolescente (dobbiamo immaginarla sui 15 – 16 anni), non una donna adulta. Ha gli slanci e gli entusiasmi improvvisi – e la straordinaria abnegazione- di cui sono capaci, a volte, i giovanissimi (Euripide ne era ben consapevole: vedi Macaria, Meneceo …). I suoi affetti principali sono quelli familiari, il padre soprattutto, cui è particolarmente legata. Quel padre le ha presentato il suo sacrificio come inevitabile: altrimenti gli Achei si rivolterebbero contro di lui, lo ucciderebbero insieme alla moglie e agli altri figli. Una sorta di ricatto affettivo. Nello stesso tempo, lei sa che nella società dell’epoca le donne non contano nulla (“… è meglio che viva un solo uomo, piuttosto che moltissime donne”) e che la loro vita è irrilevante. Forse c’è anche un timido, pudico inizio di attrazione per il bell’Achille. Ma un uomo –un eroe- non deve rischiare la vita, o addirittura morire, per una donna. (Elena, che causa la morte di molti uomini, è un essere esecrabile). Sua padre, la persona a lei più cara, esige la sua morte. Il sacrificio spontaneamente accettato le assicurerà l’approvazione e l’ammirazione di suo padre, e gloria perenne tra gli Achei: morirà per il bene di tutti, sarà ricordata come un’eroina. Anche Achille l’ammira, pur giudicando la sua scelta come frutto di ἀϕροσύνη (una folle esaltazione). E allora è meglio morire. Per esistere almeno nella memoria delle persone care, che saranno salve grazie a lei. Per il bene di tutti, insomma. Allo stesso modo delle altre eroine euripidee.
La scelta e l’atteggiamento di Ifigenia sono l’espressione di uno dei nuclei problematici più rilevanti nel teatro euripideo: la condizione della donna nella società classica. Ogni personaggio femminile compie scelte diverse per sopravvivere in un universo dominato dai maschi. Ifigenia accetta totalmente i “valori” di quell’universo. Per esistere, paradossalmente, deve accettare di morire. Altrimenti cadrebbe nell’irrilevanza totale, il che, per un’adolescente, è intollerabile (almeno per quanto riguarda le persone a cui tiene maggiormente).
Gli dei, infine. Non mi pare che abbiano un gran ruolo, in questa tragedia. Nei racconti dei tardi mitografi è Artemide a imporre il sacrificio di Ifigenia per punire Agamennone dell’uccisione di una cerva a lei sacra. Nel dramma euripideo Artemide è citata come puro pretesto da Calcante (ma la categoria degli indovini è disprezzata ed esecrata dagli altri personaggi, tanto che Menelao suggerisce di ucciderlo). Nessuna vendetta divina, nessuna cerva. Tutto ciò che accade è determinato da ragioni umane, e anche decisamente squallide. Neanche nel (discusso) finale gli dei hanno un ruolo importante. La “dea ex machina” , ammesso che appaia in un finale autenticamente euripideo (che non abbiamo) non è che un espediente drammatico- narrativo che serve a rassicurare il pubblico (il quale ben conosceva il mito e la sua conclusione “positiva”. Il racconto del messo (assai scialbo e sicuramente tardo) e il breve, cinico commiato di Agamennone dalla moglie nulla aggiungono a quanto già si è detto. Del resto, Clitemestra mette in dubbio qualsiasi versione consolatoria.
Io preferisco pensare che Euripide abbia volutamente lasciato l’opera incompiuta. Probabilmente non ne poteva più. Atene gli stava ormai “stretta”. Doveva esplorare vie nuove. E il nuovo è la sua ultima tragedia, le Baccanti, “simmetrica”, per certi versi, all’Ifigenia, in cui vengono riprese, ma “a rovescio”, contrassegnate da segno inverso le tematiche già affrontate in quella.

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