Presentazione tragedie Andromaca e Filottete

Euripide, Andromaca – Sofocle, Filottete : Presentazione

                                          (  U.P.G.C. 2011)

Se la tragedia classica si fonda sulla contrapposizione tra due sistemi di pensiero inconciliabili, né l’Andromaca, né il Filottete sono “vere” tragedie, o meglio, per  dirla con il Lesky, “ non esprimono una concezione tragica della vita”: esse appartengono, per così dire, alla fase crepuscolare del dramma attico. La polis è ormai una realtà affermata. La cultura greca vive la sua fase più splendida, contrassegnata dal trionfo del razionalismo. Gli dei indietreggiano, cedendo il passo all’azione consapevole e responsabile dell’uomo. Non vi sono più dilemmi insolubili , nelle tragedie prese in esame, ma solo uno scontro tra personaggi “buoni” e “cattivi”, tra virtù e frode. In entrambi i casi il “lieto fine” – ma forse sarebbe più appropriato parlare di un finale “agrodolce”- viene assicurato dall’intervento del “deus ex machina”, innovazione euripidea  adottata anche dal più anziano poeta Sofocle. Ma questi dei, ( Teti nell’Andromaca, Eracle nel Filottete) hanno ormai ben poco di divino, soprattutto in Euripide: puri espedienti teatrali, essi non hanno nulla in comune con lo Zeus giusto di certi drammi eschilei; sembrano molto più simili alla “divinità” che assumerà un ruolo dominante nei secoli successivi: la Tyche, cioè la Fortuna, il caso. E non sono, comunque, esenti da critiche  più o meno radicali. Anche il ruolo del coro appare ridotto – più in Euripide che in Sofocle – alla funzione di semplice spettatore dei fatti, e il suo canto diventa un semplice intermezzo tra gli episodi: non è più il portavoce del pensiero del poeta o della collettività.

L’Andromaca (la cui data di rappresentazione è incerta: risale probabilmente ai primi anni della guerra del Peloponneso, cioè al 428 – 425 a. C. circa, come si può presumere dagli accenti violentemente anti spartani presenti nel testo) non è tra i capolavori di Euripide, ma la sua problematica è comunque interessante: la condizione femminile in primo luogo, e la sorte dei vinti in antitesi all’arroganza dei vincitori, l’ambiguo – e dubbio – ruolo degli dei nelle vicende umane, soggette ai rovesciamenti voluti dal caso. Come  numerose tragedie euripidee “minori”, anche questa è caratterizzata dall’intreccio complicato e dalla tendenza al “patetico”, che mira al coinvolgimento emotivo del pubblico: Euripide sperimenta quella “poetica del dolore” che culminerà, un decennio più tardi, ne Le Troiane.

Ecco, in sintesi, la trama: la protagonista – che appare, peraltro, solo nella prima parte del dramma – ha subito tutte le sventure che si possono abbattere su una donna:l’uccisione del marito Ettore e del figlioletto Astianatte,la perdita della patria e degli affetti familiari, la schiavitù e il concubinaggio forzato con il suo padrone, Neottolemo, che è il figlio di Achille, il suo peggior nemico. Da questa unione è nato un bambino, Molosso, unica ragione di vita e di speranza di Andromaca. Ma Neottolemo contrae nuove  legittime nozze con la figlia di Elena e Menelao, la giovane Ermione, la quale è gelosa della schiava e, soprattutto, del suo piccolo figlio ( oltre tutto, lei è sterile).Approfittando dell’assenza del marito, e con l’appoggio del padre Menelao, Ermione decide di uccidere la rivale. Andromaca trova un asilo inviolabile presso l’altare della dea Teti, ma Ermione e suo padre la costringono ad abbandonare il suo rifugio con un perfido ricatto: se non si consegnerà a loro, uccideranno il suo bambino. Andromaca accetta di morire  pur di salvare il figlio. Ma – come afferma cinicamente Menelao – il suo sacrificio sarà vano. La promessa di risparmiare il piccolo era un inganno: anch’egli morirà per mano di Ermione. Quando la situazione sembra precipitare, sopraggiunge, avvertito da una schiava, il vecchio padre di Achille, Peleo, a salvare la vita del suo piccolo e amato pronipote, e di sua madre. Vistosi scoperto, Menelao, vilmente, fugge. Ora è Ermione a disperarsi, fino a tentare il suicidio. Rimasta sola, consapevole della gravità del suo gesto, teme il ritorno del marito e la sua immancabile vendetta. Ma all’ improvviso giunge nel palazzo  Oreste, il matricida figlio di Agamennone e cugino di Ermione, cui è rimasto legato fin dalla prima giovinezza. I due decidono di fuggire insieme. Ma prima Neottolemo dovrà morire, vittima di un’imboscata che Oreste gli ha teso. Così puntualmente avviene. I due amanti omicidi scappano, mentre l’anziano Peleo si abbandona al suo dolore per la morte dell’unico figlio di suo figlio. Appare ex machina la dea Teti, a consolare l’uomo che era stato suo marito: egli sarà assunto tra gli dei e vivrà per sempre al suo fianco. In quanto ad Andromaca e a suo figlio, la loro sorte subirà un radicale rovesciamento: Molosso, unico erede di Neottolemo, diventerà il sovrano dell’Epiro, e Andromaca, per una beffarda ironia della sorte, vivrà onorata e rispettata, in quanto madre dell’erede al trono, accanto ad un nuovo sposo, il troiano Eleno, fratello del suo Ettore. La barbara disprezzata e perseguitata, la schiava, diventerà signora di una regione greca e capostipite di una stirpe regale.

Di ben altra intensità artistica (per la rappresentazione dei caratteri, per certi splendidi squarci naturalistici) è il Filottete, messo in scena nel 409 a. C., poco meno di un ventennio dopo l’Andromaca : è una delle ultime tragedie di Sofocle a noi pervenute. Dramma tutto al maschile, è centrato su singole, grandi personalità, in primo luogo quella eccezionale del protagonista, senza alcun riferimento diretto all’attualità, che rimane in ombra, sullo sfondo: la guerra del Peloponneso,  con la sua pesante eredità di devastazioni , non sembra ancora volgere al termine. Atene è lacerata da rivalità e conflitti socio- politici, agitata e oppressa dalle trame di demagoghi privi di scrupoli. Non a caso il tema dominante della tragedia è la sofferenza fisica (già presa in esame ne Le Trachinie) e quella morale (la solitudine, l’abbandono, il tradimento da parte di persone “amiche”);  e, in secondo luogo, il conflitto tra ragion di stato e morale, e una problematica  molto dibattuta tra i sofisti: la virtù è ereditaria o può essere insegnata? La ragion di stato, che in qualche modo “giustificava” la spietata intransigenza di Creonte nell’Antigone (rappresentata più di un trentennio prima) ora è presentata in modo totalmente negativo, senza alcuna giustificazione etica. Ulisse non sbaglia in buona fede: è un demagogo cinico e senza scrupoli, un essere spregevole, cui il Poeta attribuisce come padre il malvagio Sisifo ( il più famoso “peccatore”  dell’Aldilà greco) anziché Laerte, come voleva la tradizione mitica. Perché la virtù e la nobiltà d’animo – con buona pace dei sofisti che sostenevano il contrario – non si possono insegnare: si ereditano, sono inscritte, per così dire, nel DNA. Il figlio di Achille , quindi, non può macchiare la sua coscienza e la sua fama  con una condotta ignobile.

La trama è molto più lineare di quella dell’Andromaca:  il protagonista, Filottete, che era partito con la flotta achea per partecipare alla spedizione contro Troia, durante la sosta su un’isola, viene morso  al piede da un serpente. La ferita non guarisce, anzi si trasforma in una piaga purulenta che emana un fetore insopportabile. Infastiditi dall’odore e dalle urla di dolore del disgraziato, gli Achei lo abbandonano sull’isola di Lemno, che  Sofocle, con audace innovazione, immagina deserta e selvaggia. Il poveretto sopravvive grazie al suo arco prodigioso, dono del suo amico di gioventù, Eracle. Grazie ad esso riesce a procurarsi di che vivere, cacciando uccelli e piccoli animali, ma la sua è una vita misera, dura, solitaria. Ai disagi della sua condizione si aggiunge lo strazio del suo male, i cui improvvisi attacchi lo lasciano spossato e privo di sensi. Trascorrono così nove anni. Al decimo, un indovino rivela che Troia non può essere conquistata senza Filottete e il suo arco straordinario. Bisogna quindi portare al campo acheo l’eroe, volente o nolente, o, almeno, il suo arco. Ulisse e Neottolemo, il giovane figlio di Achille, si recano a Lemno per compiere la non facile missione, accompagnati dai marinai di Ftia, che costituiscono il coro . L’astuto Ulisse – vera incarnazione del demagogo privo di scrupoli – ammaestra il giovane guerriero: fingendo inimicizia nei confronti dei  capi achei (odiati da Filottete, per ovvi motivi ) egli, che, a causa della giovane età, non è conosciuto dallo sfortunato eroe, dovrà guadagnarsene la fiducia e convincerlo a seguirli, oppure dovrà farsi consegnare il suo arco. Pur mostrandosi riluttante a eseguire gli ordini di Ulisse, poiché la  finzione ripugna alla sua indole schietta e leale, Neottolemo obbedisce e riesce a persuadere Filottete a imbarcarsi con lui, con la promessa di ricondurlo in patria. Sentendo imminente un nuovo attacco del suo male, l’eroe arriva persino a consegnare il suo arco al giovane, che non riesce più a fingere e rivela all’eroe la verità. Filottete si dispera : senza il suo arco è condannato a morte certa. Neottolemo esita, diviso tra il dovere di combattente e la compassione per lo sventurato. Alla fine, malgrado le proteste e le minacce di Ulisse, prevale la sua naturale nobiltà d’animo :  restituisce l’arco al protagonista e si accinge a mantenere la parola data e a riaccompagnarlo in patria. Ma appare, nelle vesti di deus ex machina, Eracle,a comunicare il volere di Zeus all’ amico di un tempo: Filottete andrà a Troia, che sarà conquistata grazie al suo intervento, e  la sua piaga sarà risanata   dal medico divino, Asclepio. Così, per mezzo della sua tremenda sofferenza egli otterrà gloria e fama immortale. Allo stesso modo, egli stesso, Eracle, dopo lo strazio della sua terribile morte (descritta dal Poeta ne Le Trachinie) era stato assunto tra gli dei ; e anche Edipo, protagonista dell’ultima tragedia sofoclea ( Edipo a Colono ) aveva conosciuto l’apoteosi dopo una vita di  eccezionali sventure.

L’autore sembra focalizzare la sua attenzione sul problema del dolore fisico, che egli analizza e descrive con crudo realismo e con quella dovizia di particolari che non può sorprenderci  in un autore vissuto nel secolo di Ippocrate, e che, per giunta, della malattia più spaventosa e devastante aveva avuto esperienza, durante la terribile peste del 430-429 . Ma, se ne Le Trachinie l’esistenza del male e del dolore sembravano spingerlo alla bestemmia contro gli dei, nel Filottete, anche se in modo assai problematico, essi gli appaiono come un mezzo , un prezzo da pagare per acquistare gloria perenne. Ma il rapporto tra Sofocle e la religione tradizionale è assai complesso e tormentato, al di là di certi stereotipi consolidati, ed esigerebbe un’analisi ben più attenta e puntuale di quanto ci sia consentito in questa sede.

 Lucia Cutuli

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