Le Baccanti : presentazione (U.P.G.C.2012)

Le  Baccanti di Euripide : trama

 

Quando Euripide scrive “Le Baccanti”, la sua vita volge al termine, e, insieme a lui, si avviano al tramonto la potenza di Atene e la tragedia stessa. Ultima espressione del dramma classico, Le Baccanti è un’opera inquietante, crudele, problematica, l’unica in cui sia presente da protagonista Dioniso, ispiratore e “creatore” del teatro antico.

L’argomento è noto: Il dio giunge a Tebe, sua città natale, con il suo seguito di menadi asiatiche, per compiere la sua atroce vendetta nei confronti dei congiunti, che un tempo  hanno oltraggiato sua madre Semele, e ora oltraggiano lui, rifiutandosi di riconoscere la sua natura divina e di rendergli onore. Penteo, suo cugino e re di Tebe, è nemico irriducibile del culto dionisiaco ( una religione vergognosa, a suo parere, che istiga le donne alla più sfrenata licenza e sovverte l’ordine sociale e familiare)  e giunge al punto di perseguitare le baccanti e di ordinarne l’arresto, minacciando le pene più gravi contro il loro sacerdote (cioè contro il dio stesso, che ha assunto sembianze umane).

Penteo sembra incarnare in modo esemplare i limiti dell’antica polis classica, o meglio, forse, quelli di certa opinione pubblica media: misogino, ma nello stesso tempo ossessionato dal sesso, arrogante e maschilista, ma attaccato alla madre in maniera morbosa, fiero della sua severa virilità, ma spinto da un sentimento di attrazione – ripulsa  verso lo straniero dall’ambiguo fascino androgino, orgoglioso del suo razionalismo, ma incapace di cogliere la complessità del reale (nella creazione di questo personaggio Euripide sembra avere anticipato di 24 secoli le scoperte del Dottor Freud).

Tranquillo, sorridente, beffardo, Dioniso si fa gioco di lui, avviluppandolo nelle sue reti mortali: per prima cosa priva del loro senno le donne di Tebe, incluse le figlie di Cadmo, inducendole ad unirsi alle sue baccanti nella celebrazione dei loro riti notturni sul Citerone. Poi convince facilmente Penteo a travestirsi da donna, per poterle spiare, ad assumere, cioè, in una sorta di tragico rovesciamento, l’aspetto degli esseri che sono il principale oggetto del suo disprezzo, e insieme del suo desiderio. Ma il travestimento viene scoperto, e Penteo viene fatto a pezzi dalla sua stessa madre, la quale, nel suo invasamento, crede di aver dato la caccia a un leone e di tenerne tra le mani la testa, quale trofeo della sua gloriosa impresa. Quando, troppo tardi, riacquista il senno e si accorge di avere ucciso il proprio figlio, si abbandona alla disperazione. E a Dioniso, che rivendica la legittimità della sua vendetta per le gravi offese subite, il vecchio Cadmo grida: “Sì, noi abbiamo sbagliato! Ma è concepibile che un dio gareggi nell’ira con gli esseri umani?” (il che, a mio parere, è l’espressione più chiara della consapevolezza dei limiti della religione classica: gli dei antichi, e Dioniso in particolare, sono amorali, vendicativi e crudeli. Possono offrire all’uomo le gioie più grandi, ma anche annientarlo. Come le forze della natura, di cui sono espressione e incarnazione).

Una tragedia ambigua e inquietante come Le Baccanti si presta, ovviamente, alle più contrastanti interpretazioni: essa è il frutto della conversione tardiva del poeta ateo alla religione tradizionale? O, viceversa, è una ulteriore conferma della sua condanna della religione, che, come dice Lucrezio, “tanti crimini è stata capace di suscitare”? O è il riconoscimento del fallimento dell’illuminismo greco, incapace di spiegare razionalmente fenomeni irrazionali di massa, e l’ammissione che “ci sono più cose tra cielo e terra di quante riesca a comprenderne la nostra filosofia”? Le risposte possono essere diverse: del resto proprio in questo consiste il fascino dell’antica tragedia, per eccellenza “opera aperta”.

 

 

 

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