Settima lezione U.P.G.C. 2011 Edipo secondo Vernant

EDIPO  secondo VERNANT: sintesi del saggio  “ Ambiguità e rovesciamento – Sulla struttura enigmatica dell’Edipo re”( da ”Mito e tragedia in Grecia antica 1, Torino, Einaudi  )

 

Tra gli antichi  scrittori che si sono occupati del mito di Edipo, SOFOCLE  è senza dubbio il più rilevante. Senza il suo “Edipo re” ( che, a giudizio di Aristotele, era una tragedia perfetta) noi, oggi, forse non ne parleremmo  nemmeno, come non prestiamo  attenzione a un’infinità di altri miti che non suscitano  particolare interesse. Se Edipo ha avuto ed ha ancora un ruolo importante nella cultura del mondo occidentale, se è una creatura poetica straordinariamente viva, come Ulisse o Prometeo, lo dobbiamo all’arte di Sofocle. Caratteristica fondamentale di tale arte è, secondo Vernant, l’ambiguità: tutti i tragici greci  hanno fatto ricorso ad essa per  esprimere la loro visione del mondo dilaniato da contraddizioni insanabili. C’è un tipo di ambiguità che riguarda il lessico (che Aristotele chiama  “ omonymia”): in bocca ai vari personaggi, le stesse parole assumono sensi diversi, addirittura opposti,perché il loro valore semantico non è il medesimo nella lingua religiosa, in quella giuridica,in quella politica e in quella comune. L’ambiguità, allora, traduce la tensione fra determinati valori sentiti come inconciliabili. Le parole sottolineano l’incomunicabilità dei personaggi, disegnando le linee del conflitto: all’unilateralità di un personaggio si contrappone l’unilateralità dell’altro ( quando, ad esempio, le Supplici di Eschilo parlano di “Dike”, cioè di Giustizia, si riferiscono al  loro diritto di unirsi in matrimonio con gli sposi  prescelti dal loro padre; i loro cugini e pretendenti, invece, rivendicano il loro diritto di sposarle). Solo al di sopra della testa dei personaggi, tra autore e pubblico, può aprirsi un dialogo in cui la lingua recupera la sua capacità di comunicazione. Ma ciò che trasmette il messaggio tragico è precisamente questo: nelle parole scambiate tra gli uomini esiste un margine di opacità e di incomunicabilità. Tale messaggio tragico diventa intelligibile nella misura in cui si prende coscienza dell’ambiguità della condizione umana, della conflittualità dell’universo, della problematicità del mondo.

Nell’Agamennone di Eschilo l’ambiguità lessicale, più che il conflitto dei valori, esprimeva la duplicità dei personaggi: così Clitemestra, nel proclamare pubblicamente la gioia per il ritorno del marito, e nelle manifestazioni di apparente affetto coniugale con cui lo accoglieva, rivelava apertamente – ma in modo da non essere compresa dagli altri – il suo odio e i suoi propositi di vendetta.

Ben diversa è l’ambiguità nell’Edipo re. Essa non riguarda né un conflitto di valori né la doppiezza del personaggio. E’ Edipo a condurre il gioco e a volere portare fino in fondo la sua inchiesta. E alla fine egli scopre che è proprio lui l’oggetto dell’inchiesta, è proprio lui ad essere giocato.

La tragedia è tutta costruita sull’ambigua condizione del protagonista. Senza rendersene conto, quando Edipo  parla, dice il contrario di ciò che vuol dire. L’ambiguità dei suoi discorsi traduce non l’ambiguità del suo carattere ( che è “tutto d’un pezzo” ) ma, più profondamente, il dualismo del suo essere. Egli costituisce un enigma per se stesso. La duplice dimensione del suo linguaggio riproduce, in forma capovolta, la duplice dimensione del linguaggio degli dei, quale si esprime nella forma enigmatica dell’oracolo: gli dei conoscono e dicono la verità, ma la formulano con parole che sembrano dire tutt’altra cosa.Edipo non conosce e non dice la verità, ma le parole che usa per dire tutt’altro la manifestano, a sua insaputa, per coloro che sanno intenderla. Il linguaggio di Edipo appare come il luogo in cui si incontrano e si scontrano, nella stessa parola, due discorsi diversi: uno umano, uno divino. All’inizio, i due discorsi sono scissi. Alla fine del dramma, quando tutto è chiarito, il discorso umano si capovolge e si trasforma nel suo contrario. I due discorsi si ricongiungono: l’enigma è risolto. Gli spettatori, come gli dei, sono in posizione privilegiata perché possono capire i due discorsi nello stesso tempo e seguirne, attraverso il dramma, il confronto. L’Edipo re, dal punto di vista dell’anfibologia, ha una portata esemplare: in esso coincidono quelli che per Aristotele sono i due elementi costitutivi della tragedia, cioè l’anagnorisis (il riconoscimento), e la peripéteia (il capovolgimento dell’azione nel suo contrario). L’auto-riconoscimento finale dell’eroe costituisce un rovesciamento completo dell’azione: la situazione di Edipo si rivela contraria a quella che era prima, la sua puntigliosa ricerca raggiunge il risultato opposto a quello che sperava. Al termine dell’indagine, il giustiziere si scopre identico all’assassino. Dietro la domanda esplicita di Edipo (“Chi ha ucciso Laio?) si intravvede un altro problema: “Chi è Edipo?”  “Io lo scoprirò”, dice il protagonista, “εγω̃  φανω̃, egò fanò” in greco. Ma il futuro di φαίνω  può avere un duplice significato: uno transitivo (“io scoprirò”) e uno intransitivo: “Io apparirò quale sono realmente, io mi manifesterò”. Così Edipo crede in buona fede di proclamare la sua  certezza di riuscire a scoprire il colpevole, ma in realtà dice – senza rendersene conto – tutt’altro:” io apparirò quale sono, io mi scoprirò criminale”.

Chi è dunque Edipo? E’ un personaggio duplice, enigmatico, che, senza sua colpa, si rivela alla fine il contrario di ciò che credeva di essere: lo straniero si rivela nativo di Tebe; il decifratore di enigmi, un enigma indecifrabile; il giustiziere, un criminale; il chiaroveggente, un cieco; il salvatore della città, la sua rovina. Disprezza il cieco Tiresia, che vive nelle tenebre. Ma, quando le tenebre si dissolvono e la verità viene alla luce, egli si acceca perché non può più sostenere lo sguardo degli uomini. La luce che gli dei hanno gettato su di lui è troppo forte perché la si possa sopportare. Come Tiresia, anch’egli paga, a prezzo della vista, l’accesso alla luce terribile del divino. Dal punto di vista degli uomini, Edipo è un capo chiaroveggente, simile agli dei; dal punto di vista degli dei, è un cieco, un nulla.

Il capovolgimento dell’azione,come l’ambiguità della lingua, sottolinea la duplicità di una condizione umana che, a guisa di enigma, si presta a due interpretazioni opposte. Il linguaggio umano si inverte e cambia di segno quando gli dei parlano attraverso di esso. La condizione umana si capovolge quando la si paragona a quella divina. L’opera medesima è costituita da un enigma. Lo schema formale è il rovesciamento, in base al quale i valori positivi si invertono in valori negativi, quando si passa dal piano umano a quello divino, piani che la tragedia unisce e contrappone. Il messaggio fondamentale è questo: L’uomo è un essere che non si può né descrivere né definire; un enigma, un problema di cui non si finisce mai di decifrare il duplice senso. Il significato dell’opera non riguarda né la psicanalisi né la morale: è di ordine specificamente tragico. Edipo commette due crimini senza colpa: la legittima difesa diventa parricidio; il matrimonio, incesto. Innocente dal punto di vista delle leggi umane, è colpevole dal punto di vista religioso. Per questo, ormai apolis (letteralmente “senza patria”), incarna la figura dell’escluso: è, contemporaneamente, al disotto dell’umano – come una bestia selvatica – e al di sopra, come un daimon, un essere divino.

Questa ambiguità di fondo del protagonista, questo rovesciamento di valori sono espressi nei termini con i quali  si definisce Edipo; termini di cui si inverte sistematicamente il significato appena si passa dall’attivo al passivo ( Edipo cacciatore – Edipo cacciato, preda) o che si staccano da lui per fissarsi su personaggi divini       ( Edipo potente, kratynon – Zeus kratynon). Persino il nome di Edipo può essere interpretato in modo duplice:  “piede gonfio” (da  οιδάω , sono gonfio e πούς, piede), nome che evoca il bambino rifiutato e maledetto, ma anche “colui che sa l’enigma del piede, da oida (so) e pous – podos (piede), nome che richiama alla mente l’eroe trionfatore sulla Sfinge e il sovrano potente.

La sapienza di Edipo decifratore di enigmi verte, in qualche modo, su lui stesso.  Alla Sfinge egli risponde : “L’uomo”. Ma questa è una saggezza apparente,che maschera il vero problema: che cosa è l’uomo? Chi è  veramente Edipo?

La pseudo soluzione apre al protagonista la via della sovranità, ma realizza, a sua insaputa, la sua vera identità di assassino e di incestuoso. Edipo è il paradigma dell’uomo tragico: si proclama “figlio della Tyche”, cioè della Sorte. Ma in realtà ne è la vittima.La sua persona, venerata come quella di un dio, alla fine si rovescia nel suo contrario: Edipo, colui che “sa l’enigma del piede” si capovolge e diventa il “piede gonfio”, abominevole sozzura (άγος, μίασμα) che bisogna espellere come un “farmakos” (φαρμακός) perché la città sia purificata e salvata.

La drammatica condizione di Edipo non è frutto della fantasia poetica di Sofocle: essa affonda le sue radici nel pensiero sociale e nella prassi religiosa  della Grecia classica.

Nella società greca del V secolo a. C. c’è una figura che viene considerata “figlia della Tyche”: il tiranno. Tiranno è colui che conquista il potere non per diritto ereditario, ma con la forza, grazie alle sue capacità, alla sua intelligenza. E’ l’uomo che “si fa da sé”, come Edipo τύραννος ,tiranno (non a caso è questo il titolo del dramma sofocleo: tiranno e non wanax, né basileus, che sono i termini greci con i quali si indica il “re”). Dal nulla egli sale ai vertici della scala sociale, diventando quasi pari agli dei.

All’estremità opposta, nella  gerarchia sociale, troviamo la figura del farmakos (φαρμακός) che rivestiva un ruolo centrale nella festa primaverile  delle Targhelie. Nel corso di essa si celebrava un antico rituale purificatorio:  veniva scelto tra la “feccia” della città uno schiavo,o comunque un uomo di infima condizione sociale. Poi si teneva una processione, i cui partecipanti portavano ramoscelli di olivo ornati di bende di lana bianca (eiresione) e accompagnavano il farmakòs prescelto ( o i farmakoi: potevano anche essere più d’uno) fino alle porte della città cantando un peana catartico (cioè un tipo particolare di canto purificatorio misto a singhiozzi).  Durante il percorso il malcapitato  veniva colpito sui genitali con piante  e bulbi di scilla (un specie di giacinto selvatico) per propiziare la fertilità e poi veniva solennemente espulso, nella convinzione che insieme a lui venisse espulso ogni male dalla comunità cittadina. Nei tempi più antichi, probabilmente, veniva addirittura sacrificato. Si trattava del rituale del “capro espiatorio” comune alle culture più svariate e non del tutto estraneo neanche a noi “moderni” (si pensi alla poco civile usanza di gettare dalla finestra ogni sorta di oggetti “vecchi” la notte di S. Silvestro o di bruciare l’immagine allegorica del Carnevale o, presso altri popoli, quella di Babbo Natale).

Il rito del farmakòs è evocato nel prologo dell’Edipo re: anche qui una delegazione di cittadini si reca al palazzo del re portando l’eiresione e cantando un peana misto a singhiozzi. Queste analogie dovevano facilmente  richiamare alla memoria del pubblico ateniese le feste di primavera. Edipo si presenta con il duplice volto di re divino, e di άγος (sacrilegio, contaminazione), di farmakòs che bisogna espellere per salvare la città.

La polarità tra il tiranno e il farmakòs è dunque, per Sofocle, di fondamentale importanza:  nella loro opposizione essi  gli apparivano simmetrici e, per certi aspetti, intercambiabili. Entrambi erano responsabili della salvezza  collettiva  e del benessere della polis. Quando su un popolo si abbatteva una calamità – nei tempi  eroici  in cui erano ambientati  i  miti, cioè nell’età del bronzo – la soluzione normale  era quella di sacrificare il re: se egli era il responsabile della fecondità, ed essa veniva meno, ciò significava che la sua potenza di sovrano era venuta meno, trasformando così l’άριστος  (aristos, cioè eccellente, il migliore, il più potente) in κάκιστος (kakistos, cioè il peggiore, il più vile e spregevole). Quindi si compiva l’uccisione rituale del re o di suo figlio. Oppure il peso dei mali si scaricava su un individuo che era l’immagine rovesciata del re, il farmakòs appunto. Costui era un duplicato del re, ma all’inverso, come un re di carnevale che viene incoronato quando ogni ordine è messo sottosopra, e infine espulso o bruciato: con lui viene eliminato tutto il disordine che egli incarna e di cui  purifica – con la sua morte – la città.

Nell’Atene classica, il rituale delle Targhelie lascia intravvedere, nel personaggio del farmakòs, certi tratti che evocano la figura del re divino, padrone della fecondità: il farmakòs era mantenuto a spese dello stato e nutrito con cibi particolarmente puri. La sua sozzura era una qualifica religiosa che poteva essere utilizzata in modo benefico. L’ambiguità del personaggio si nota anche nei racconti eziologici, cioè nei racconti che spiegano l’origine del rito. In alcune versioni di tali miti i farmakoi non erano la feccia della polis, ma i giovani più nobili, i migliori, che si offrivano spontaneamente per salvare la città.

La simmetria fra il re divino e il farmakòs può  forse chiarire un istituto come l’ostracismo  (L’ostracismo era un’elezione in cui nessuno si augurava di vincere:ciascuno scriveva su un coccio –ostrakon, appunto- il nome del cittadino che, a suo parere, per ricchezza, nobiltà e prestigio rischiava di imporsi agli altri come tiranno. Colui che otteneva il maggior numero di voti -almeno 6000- era mandato in esilio). Nel quadro della polis non c’era più posto per il re divino, signore della fecondità. La sua figura era stata cancellata dal corso della storia. Nell’epoca arcaica (VII-VI secolo a. C.), quando venne istituito l’ostracismo, era il tiranno che, per certi aspetti, aveva  ereditato i valori religiosi propri dell’antico sovrano miceneo.

L’ostracismo mira, in principio, a espellere il cittadino che si innalza troppo, e che potrebbe aspirare a diventare tiranno. Ma  in questo istituto sono presenti tratti estremamente arcaici, che non sono del tutto spiegabili con argomenti di tipo positivo e razionale. In primo luogo, la procedura è insolita. Tutto è organizzato per dare modo allo φθόνος (  fthonos,invidia, malevolenza) popolare di manifestarsi in forma spontanea e unanime. Si rimprovera all’ostracizzato la sua superiorità, la sua fortuna o virtù eccessive, che rischiano di attirare sulla polis la vendetta divina. Il timore della tirannide si confonde e si mescola con il timore religioso. Rispetto al rito purificatorio delle Targhelie l’ostracismo ha un ruolo simmetrico: nella persona dell’ostracizzato, la polis espelle ciò che in essa è troppo elevato e incarna il male che può venirle dall’alto. In quella del farmakòs espelle ciò che in essa si trova di più vile e che incarna il male che la minaccia dal basso. Mediante questa duplice e complementare espulsione, essa delimita i suoi confini ideali, presentandosi come il luogo dell’umano in contrapposizione da una parte al divino e all’eroico, al bestiale e al mostruoso dall’altra. Come dice Aristotele, in essa non c’è posto né per il superuomo, né per il bruto, né per chi è superiore, né per chi è inferiore all’uomo.

Questa è proprio la condizione tragica di Edipo, nel suo aspetto duplice e contraddittorio: al di sopra e al di sotto dell’umano nello stesso tempo, uguale a un dio e insieme bruto respinto nella selvaggia solitudine dei monti. Incesto e parricidio costituiscono un attentato alle regole fondamentali del vivere civile. Edipo sconvolge l’ordine stabilito: occupa il posto del padre, è sposo e figlio di Giocasta, padre e fratello dei suoi figli, mescolando insieme tre generazioni. Edipo è dunque un apolis, estraneo al consorzio umano. Si crede simile a un dio e si ritrova uguale a un niente. Il tiranno uguale agli dei, come pure la bestia selvaggia, non riconoscono le leggi che regolano la società umana. L’incesto è legittimo tra gli dei e tra gli animali, che vivono nella anomia (cioè senza legge). La  risposta di Edipo all’enigma della Sfinge è una soluzione illusoria: con un ultimo rovesciamento tragico essa si ritorce contro di lui, essere diverso da tutti gli altri uomini, non decifratore di enigmi e vincitore di mostri, ma enigma insolubile e mostro egli stesso, re divino che si trasforma in farmakòs.

In conclusione, se l’opposizione tra re e farmakòs è presente nel pensiero politico e nelle istituzioni ateniesi, non bisogna però pensare che la tragedia si limiti a rifletterla. Al contrario, essa la contesta: mentre nella prassi e nella teoria della polis la polarità sovrumano-subumano mira a delimitare il campo dell’umano, definito dalle leggi (νόμοι), per Sofocle,al contrario, sopraumano e subumano si confondono e si uniscono nello stesso personaggio; e poiché questo personaggio è il modello dell’uomo, cade ogni limite che dovrebbe permettere di definire senza equivoci la condizione umana. Quando, come Edipo, l’uomo vuole indagare  fino in fondo per scoprire la sua identità, si scopre enigmatico e indefinibile, oscillante tra il divino e il bestiale. La sua vera grandezza consiste proprio in ciò che esprime la sua natura di enigma:l’interrogazione.

Dato, poi, che la tragedia si fonda sullo schema del rovesciamento, e dato il suo carattere di opera  aperta a diverse interpretazioni, non è difficile capire come si sia prestata, nel tempo, a diverse e contrastanti letture; e come mantenga intatto, ancor oggi, il suo perenne fascino.

 

 

 

 

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