Presentazione de “Le Baccanti” di Euripide

Euripide, Le Baccanti: trama

 

 

“Le Baccanti” è un dramma singolare: ultima tragedia di Euripide (composta nel periodo del suo soggiorno in Macedonia, cioè tra il 408 e il 406 a. C.) fu rappresentata, postuma, dal figlio dell’autore, in un’Atene ormai stremata dalla pluridecennale guerra contro Sparta, lacerata da contrasti e pervasa da profonda inquietudine. Ultima espressione del teatro antico a noi pervenuta, essa è anche, per uno strano paradosso, l’unica tragedia  in cui sia presente, da protagonista, il dio ispiratore della tragedia stessa, Dioniso.

Eccone in breve l’antefatto: invaghitosi di Semele, figlia di Cadmo,fondatore e sovrano di Tebe,  Zeus si unisce a lei furtivamente, senza rivelarsi nella maestà del suo aspetto divino, che sarebbe intollerabile alla vista di una mortale. Semele,quindi, concepisce un figlio, Dioniso. Ma le sorelle  di Semele (Ino,Autonoe ed Agave), accortesi della sua gravidanza , la insultano pesantemente, mettendone  in dubbio l’ onorabilità:  l’unione con il padre degli dei, a loro parere, sarebbe una comoda copertura delle tresche clandestine della ragazza con chissà chi, e quando essa, indotta dalla gelosa Era a chiedere al suo misterioso amante di mostrarsi a lei nel suo aspetto reale, resta folgorata, dicono che questa è la punizione del dio per le mentite nozze. Ma Zeus salva il bambino  e lo cuce nella propria coscia fino al termine della gestazione. La nascita di Dioniso è, quindi, straordinaria, come le vicende e le imprese del nuovo dio, il cui culto si diffonde per l’Asia. Trascorrono parecchi anni.   All’inizio della tragedia, il dio ci appare in sembianze umane, nelle vesti di un sacerdote del suo stesso culto.  E’ lui stesso a recitare il prologo, nel quale espone gli eventi passati e i suoi propositi di vendetta sia nei confronti delle zie, che hanno calunniato sua madre, sia nei confronti del cugino Penteo, figlio di Agave, al quale il vecchio re Cadmo ha  ceduto il potere. Penteo è ostile alla diffusione del  culto di Dioniso, perché lo considera apportatore di disordine sociale e familiare, pericoloso per l’equilibrio dello stato. Perché il dionisismo è diverso da tutti gli altri culti della Grecia classica, estraneo alla polis: culto democratico, aperto a  tutti, senza distinzioni di età, sesso, condizione sociale, nazionalità, è diffuso soprattutto tra le donne, che, invasate dal dio, lasciano le case per celebrare, sui monti, i loro riti notturni. Riti strani e selvaggi, simboleggianti un ritorno alla natura che sembra la negazione stessa dell’incivilimento umano. Vestite di pelli di cerbiatta (nebridi) e inghirlandate di edera, con un tirso come unica “arma” (cioè una canna sormontata da una pigna e ornata di bende e ramoscelli di smilace)  le baccanti, in preda al loro invasamento mistico, sono dotate di una forza sovrumana cui nulla e nessuno può opporsi. Uccidono con le nude mani anche animali di grossa taglia, come i buoi, e li fanno a pezzi (diasparagmos) per divorarne le carni crude (omofagia).Per vendetta, dunque, Doniso ha privato della ragione le figlie di Cadmo (le sue zie), e con loro tutte le donne di Tebe, inducendole a fuggire sui monti insieme alle baccanti provenienti dall’Asia, dalle pendici dello Tmolo (odierno Boz Dag, in Turchia). Sono appunto costoro a costituire il coro, che irrompe sulla scena per cantare (parodo) le lodi del dionisismo.

Uscite di scena le baccanti, ha inizio il primo episodio: due illustri vecchi, l’indovino Tiresia e l’ex re Cadmo, indossati i paramenti dionisiaci, si propongono di raggiungere, sia pure a fatica, le baccanti sui monti, per unirsi a loro nella celebrazione del nuovo culto: perché è saggio rendere onore a tutti gli dei, senza trascurarne alcuno. Sopraggiunge, sconvolto da una collera incontrollabile, il giovane re Penteo, il quale redarguisce aspramente i due anziani per la loro adesione a quella che egli considera una religione abominevole e vergognosa: perché i culti orgiastici sui monti sono – a suo parere – nient’altro che una scusa per coprire  ben altre orge, di natura sessuale. Pertanto i sostenitori di un simile culto, che induce le donne a lasciare le proprie case per abbandonarsi, la notte, sui monti, a chissà quali sfrenatezze, vanno severamente puniti. Egli ha dato ordine alle sue guardie di mettere in catene le straniere e di riportare a casa, anche con la forza, le donne tebane, comprese sua madre e le sue zie. In quanto allo stregone forestiero, si propone addirittura di condannarlo a morte. Inutilmente i due anziani cercano di farlo desistere dai suoi propositi: Penteo è irremovibile. Sono particolarmente interessanti le argomentazioni di Tiresia e di Cadmo, che cercano spiegazioni razionalistiche di un culto popolare, orgiastico, che si fonda su credenze e pulsioni che di razionale hanno ben poco: è un culto che presenta tratti di straordinaria arcaicità, legato com’è alla religione della antica dea madre mediterranea, particolarmente radicata in Asia Minore e decisamente estranea alla religione “olimpica” della polis classica (Particolare curioso: il culto di Dioniso non è introdotto in Grecia dall’Asia, come si riteneva un tempo, dopo l’affermazione della religione olimpica: al contrario, esso è molto antico e probabilmente radicato nel popolo e soprattutto nelle campagne dell’Attica. Dioniso è citato in alcune tavolette micenee come destinatario di offerte insieme agli altri dei “classici”). Probabilmente l’ostilità contro il suo culto – che costituisce l’argomento di diverse tragedie a noi non pervenute – rispecchia un fenomeno storico relativamente recente (rispetto ai tragici, ovviamente) : l’ascesa al potere, nel VII e VI sec. a. C. dei tiranni,  che erano espressione degli interessi e della cultura della popolazione rurale contro quelli degli aristocratici. Pisistrato in particolare aveva favorito l’affermazione del culto di Dioniso. Non a caso, proprio in questo periodo, all’insegna del dionisismo, nasce la tragedia greca.

L’adesione dei due vecchi alla religiosità dionisiaca non è, però, del tutto sincera: essa è dettata anche da motivi utilitaristici: è opportuno onorare Dioniso, anche se non si crede alla sua nascita divina, perché questo è, comunque, motivo di vanto e di gloria per il casato di Cadmo.

In radicale contrapposizione alle parole e ai sospetti di Penteo, il coro delle baccanti intona (Primo Stasimo) un inno alla Purezza e alla Santità (Osia), esaltando le gioie di una vita semplice e tranquilla, rallegrata dai doni di Dioniso, contro il sapere, che non è un vero sapere, di chi nutre pensieri superiori all’umano (cioè contro il razionalismo e la superbia intellettuale dei ceti dominanti), proclamando la propria adesione alle credenze del popolo.

Il Secondo Episodio è incentrato sul confronto- scontro dei due antagonisti, Penteo e Dioniso. La guardia incaricata di arrestare le baccanti e il loro misterioso sacerdote giunge al cospetto del re  portando il sue illustre prigioniero. In quanto alle donne, le loro catene si sono sciolte da sole, e così pure, prodigiosamente,si sono aperte le porte della prigione in cui erano rinchiuse: esse sono fuggite, ritornando sui monti. Lo straniero, invece, si è lasciato arrestare senza opporre resistenza, sorridente, tranquillo, mite. Penteo nota la bellezza del suo aspetto che, ai suoi occhi, è decisamente poco virile, quasi femminea: sicuramente, i suoi lunghi riccioli profumati rivelano la sua natura di seduttore di donne (  il razionalista e “macho” Penteo prova in realtà un ambiguo sentimento di repulsione – attrazione per quello straniero che sembra incarnare tutto ciò che ai suoi occhi è proibito e pericoloso: il sesso, la promiscuità con le donne, l’ebbrezza … e anche un sentimento di disprezzo per quell’ effeminato che viene dall’Asia, motivo tipico, questo, di certa ideologia razzista greca). Apparentemente  la superiorità del re è indiscutibile. Ma all’arroganza e alle minacce il dio oppone il suo immutabile, ironico, inquietante sorriso. Penteo lo fa incatenare e condurre in prigione, e ordina che le baccanti del suo seguito siano imprigionate e vendute schiave; in quanto alle donne tebane “traviate” devono essere riportate, volenti o nolenti, alle loro case e ai loro telai.

Il coro (secondo stasimo) contrappone alla natura divina, luminosa di Dioniso, quella ctonia (cioè terrestre)e mostruosa di Penteo, la cui stirpe aveva avuto origine dai denti del drago e il cui padre, Echione, evocava anche nel nome la sua natura di “serpente”. Afflitto per le minacce del re, rivolge un accorato appello a Tebe, così inospitale e ostile nei confronti di Dioniso e dei suoi seguaci, esprimendo il desiderio di poter tornare nei luoghi in cui la celebrazione dei riti bacchici era tranquillamente ammessa; ma nello stesso tempo invoca il dio perché venga in suo soccorso, a punire l’empia arroganza del re.

Il secondo episodio si apre con una serie di prodigi: la terra trema, dalla tomba di Semele scaturiscono fiamme, la regia s’incendia e crolla. Dioniso appare in scena a rincuorare le baccanti e narra la sua straordinaria liberazione, mentre Penteo si consuma in un’ira impotente. Quando egli entra in scena, in un primo momento inveisce contro le donne e il dio, ma è interrotto dall’arrivo di un messaggero: mentre portava le mandrie al pascolo sui monti, egli aveva visto le baccanti. Dormivano tranquillamente tra gli alberi, in atteggiamento composto. Nessuna sfrenatezza  sessuale, nessun disordine, nessuna violenza. Al loro risveglio, compivano prodigi: facevano scaturire dalle rocce, sfiorandole con il tirso, sorgenti di acqua pura, di latte, di vino.  Si cingevano il capo con ghirlande di edera e di smilace, e le madri, che avevano lasciato a casa i loro piccoli, allattavano cerbiatti e cuccioli di lupo: erano, insomma, un perfetto esempio di armonia con la natura.

Ma quando i pastori, per ingraziarsi il re, cercano di rapire con la forza Agave, le baccanti si trasformano in furie selvagge. Gli uomini fuggono terrorizzati. Le donne si lanciano sulle mandrie e  con le nude mani fanno a pezzi gli animali, ne divorano le carni crude, poi aggrediscono e devastano due villaggi che sorgono alle falde del Citerone. Invano gli uomini in armi cercano di fermarle. Le baccanti, disarmate, li volgono in fuga. Sulle loro teste brilla un fuoco soprannaturale. Infine tornano sui monti, vittoriose.

L’ira di Penteo esplode. Chiama a raccolta i suoi uomini, minaccia di massacrare le baccanti … ma Dioniso, solleticando la naturale curiosità del re, insinua in lui l’idea di andare sul monte, per spiare  le donne. Ma per un uomo sarebbe pericoloso farsi sorprendere dalle menadi invasate. Più prudente, quindi, per non farsi riconoscere … travestirsi da donna. Penteo approva l’idea. Egli è ormai caduto nella rete del dio, e senza rendersene conto, collabora alla propria rovina.

Dopo un nuovo canto del coro ( terzo stasimo), in cui si inneggia alla gioia della vendetta, e si condanna la dismisura, che attira la punizione divina, rientrano in scena i due antagonisti,Dioniso e Penteo in abiti femminili. La situazione iniziale si è rovesciata nel suo contrario: Penteo, il sovrano, che prima appariva onnipotente, austero custode della pubblica moralità e dispregiatore delle donne, è diventato uno zimbello nelle mani di Dioniso. Trasformatosi in ciò che costituiva l’oggetto del suo disprezzo, ma anche del suo desiderio e del suo timore, indugia ridicolmente sui particolari della sua pettinatura e del suo abbigliamento (lui, che derideva l’aspetto androgino e i riccioli di Dioniso!). Il dio, intanto, con feroce determinazione, porta a termine il suo disegno, senza curarsi di nascondere le sue intenzioni. Ma Penteo, totalmente irretito, non comprende: quando Dioniso gli predice che tornerà tra le braccia di Agave, egli – rivelando un legame piuttosto ambiguo, quasi morboso con la madre – definisce la cosa “una delizia”.

Mentre i due si avviano, il coro esegue il quarto stasimo, nel quale tornano i temi della vendetta e della giusta punizione divina contro gli empi che non accettano i limiti della condizione umana e insolentiscono contro gli dei.

Il quinto episodio è quasi interamente costituito dal racconto di un servo, che è stato testimone della fine orribile del suo signore: scoperto dalle baccanti mentre cercava di spiarle, Penteo era stato massacrato e fatto letteralmente a pezzi, per una sorta di atroce ironia, dalla sua stessa madre, che, invasata dal delirio dionisiaco, lo aveva scambiato per un leone e lo aveva ucciso, staccandogli la testa dal corpo ,e, tenendola tra le mani come un macabro trofeo di caccia, si avviava per tornare a casa, del tutto inconsapevole della reale natura del suo gesto. Le parole di pietà e di orrore del servo non sono per nulla condivise dal coro delle baccanti, che si abbandonano a un breve canto di gioia (quinto stasimo) per la giusta vendetta divina abbattutasi sul loro persecutore.

Ha  così inizio l’esodo, la parte conclusiva della tragedia. Entra in scena Agave, ancora in preda alla follia, con la testa del figlio infilzata al suo tirso, orgogliosa dell’esito della caccia. Invano le donne del coro cercano di richiamarla alla realtà. Giunge Cadmo, affranto, che insieme ai suoi servi ha raccolto i miseri resti del corpo di Penteo. Pian piano, riesce a fare risvegliare la figlia dal suo delirio. Agave si rende finalmente conto di ciò che ha fatto, e ne è distrutta. In una scena straziante, che ci è pervenuta lacunosa, l’infelice madre cerca di ricomporre il corpo del figlio. Appare infine Dioniso, che ha ripreso il suo aspetto divino. In un lungo discorso, che possediamo solo parzialmente, giustifica la sua vendetta e predice il futuro a Cadmo e ad Agave, che si avviano a un doloroso esilio in terra straniera. Notevoli le parole di Cadmo a Dioniso, che rivendica la giustezza del suo operato: “ Abbiamo sbagliato … lo ammettiamo. Ma non sta bene che gli dei rivaleggino nell’ira con gli uomini” La chiusa del dramma, affidata al coro, è un generico riconoscimento della imprevedibilità degli eventi umani (che Euripide utilizza, senza modificare nulla, per concludere diverse tragedie).

Come interpretare un dramma complesso e problematico come “Le baccanti”? Un’improvviva conversione senile del poeta razionalista e ateo, folgorato dal fascino dionisiaco? Oppure, al contrario, la rappresentazione di riti crudeli e selvaggi, allo scopo di mostrare a quali aberrazioni può condurre il fanatismo religioso (“tantum religio potuit suadere malorum’ come diceva Lucrezio)? Oppure non è vero nulla di tutto questo. Forse Euripide, con la sensibilità straordinaria che lo contraddistingueva, avvertiva il tramonto di un mondo, quello della polis, e della cultura razionalistica che l’aveva caratterizzata, di fronte all’emergere di nuovi culti di origine asiatica, capaci di coinvolgere vasti strati della popolazione. E la sua posizione coincide con quella del vecchio Cadmo: bisogna rispettare le convinzioni del popolo, anche se non le si condivide. O forse Euripide, con un anticipo di 24 secoli rispetto a Freud, ha “scoperto” l’incoscio personale e collettivo, e le sue oscure, ambigue, crudeli pulsioni di fronte alle quali la ragione umana si rivela impotente. Oppure, ancora, lucidamente, il senso del dramma si trova nel grido sconsolato di Cadmo: come è possibile credere in divinità che gareggiano con l’uomo per spirito vendicativo, ira e crudeltà? Perché  gli dei del mondo classico, e Dioniso in modo particolare, possono essere, per l’uomo, fonte di gioia e insieme di disperazione, come le forze della natura, di cui sono l’incarnazione. Il che potrebbe essere considerato, ancora una volta, un’espressione dell’ateismo del poeta. O la sua aspirazione a credere in divinità diverse, superiori all’uomo dal punto di vista etico.

Difficile, comunque, trovare una risposta certa. Perché la tragedia classica è, per sua natura, problematica, opera aperta per eccellenza, e forse proprio in questo consiste il suo fascino perenne.

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