Osservazioni sull’Antigone

A una prima lettura, si sarebbe tentati di collocare l’Antigone nella fase “eschilea” di Sofocle (v. la battuta finale del coro, teatralmente piuttosto “debole”, che sembra riecheggiare il concetto di παθει μαθος). Nulla di più falso. Certamente, l’Antigone è opera composita, diseguale, ancora lontana dalla perfezione e dalla compattezza drammatica dell’Edipo re. E tuttavia il distacco da Eschilo si è già compiuto: tipici del Sofocle maturo sono i personaggi e la problematica affrontata. Antigone, la protagonista, appare al centro di una duplice contrapposizione: con Ismene da una parte, con Creonte – e i principi che egli incarna – dall’altra. Spiritualmente vicina ad Aiace, ad Eracle, a Filottete, non ammette compromessi, nè riesce a capire le ragioni di chi fa riferimento a un diverso sistema di valori. Non è un caso che i suoi discorsi siano dominati dall’ossimoro e – soprattutto – dall’antitesi, intesa non solo come figura retorica, ma anche come struttura “sotterranea” del pensiero.

Ben diversa dalla sorella, Ismene appartiene a un “mondo etico” differente. Il suo atteggiamento non è dettato da viltà. L’accumularsi di sventure sul γενος “maledetto”      dei Labdacidi la induce a cercare di spezzare la spirale di morte che minaccia lei e Antigone, uniche eredi di una stirpe illustre e disgraziata. Come una naufraga sopravvissuta – a stento  - al tracollo della sua casa, vuole vivere perché ” non ha senso gettare via la vita in un’impresa certamente eroica, ma inutile”.. Come l’ Eracle euripideo, che – dopo avere massacrato moglie e figli, in un accesso di follia – rinuncia a suicidarsi, perché, in certe situazioni ci vuole più coraggio a vivere che a morire, e segna, con la sua scelta, la nascita dell’uomo “moderno” dalle ceneri dell’eroe (cfr. all’opposto, il suicidio di Aiace), Ismene rappresenta la donna della nuova società classica, che accetta, con dolore e rassegnazione, la sua posizione di subordinazione nella famiglia e nello stato (vv. 78 – 79). Forse, le parole che più di tutto indicano la distanza che la separa da Antigone, sono quelle pronunciate da sua sorella: “Tu hai scelto di vivere, io di morire” (v.555). Antigone non vuole sopravvivere alla distruzione della sua famiglia e del suo mondo. Come Aiace, è sola. Nella nuova società non c’è posto per lei. “Cruda figlia di un padre crudo,”, ha in sé, nella sua irriducibile determinazione, nel suo eroismo senza cedimenti, qualcosa di inquietante. Non a caso Sofocle la definisce “cruda” (ωμη): l’attributo, che evoca i riti delle Baccanti (omofagia), richiama alla memoria qualcosa di primitivo, di “selvaggio”, anteriore a qualsiasi ordinamento civile, e legato più alla natura che alla cultura. Antigone è estranea alla polis: in quanto figlia di una coppia incestuosa, in quanto donna, e in quanto rappresentante di un arcaico mondo aristocratico. Che i principi da lei difesi siano quelli tradizionali del γενος a me pare indiscutibile. Ma è anche vero che tali principi travalicano ampiamente l’orizzonte ideologico del γενος, per assumere validità più universalmente umana (1). Ciò che non ha più senso, oggi, è discutere da quale parte stia il progresso, e da quale la conservazione (e poi, anche ammesso che la polis di Creonte costituisca “il nuovo”, e la φιλíα di Antigone rappresenti “il vecchio”, chi ha detto che il “nuovo” sia, di per sé, migliore? E che la storia umana sia un’evoluzione verso “magnifiche sorti e progressive”? E’ possibile, oggi, essere ancora hegeliani?)

La contrapposizione tra Antigone e Creonte mi sembra originata dallo scontro tra una “ragion di stato” erroneamente assolutizzata, e le ragioni della pietà e dell’umanità, fatte proprie da un’appassionata “coscienza” individuale. Creonte non è un tiranno: ad ogni passo viene sottolineata la legittimità del suo potere, fondato, da una parte, sui vincoli di parentela con la famiglia regnante, e dall’altra sulla volontà popolare. Viene in mente Alceo (fr.348V): “Pittaco, il bastardo, l’hanno eletto tiranno di una città senza bile e senza fortuna, acclamandolo a gran voce tutti insieme”; oppure Tucidide (II, 65, 9), nel passo in cui definisce il governo di Pericle “di nome una democrazia”, aggiungendo che “di fatto, però, il potere era nelle mani del primo cittadino”. I principi ai quali Creonte si ispira non sono quelli di un despota (v. la rhesis iniziale), anzi, quando afferma il primato degli interessi della polis rispetto a quelli privati, o a qualsiasi altro legame o interesse personale, ivi inclusi i suoi, sta affermando principi validi, universalmente accettati in qualsiasi democrazia.

Se Creonte fosse, tout court, un malvagio, non ci sarebbe tragedia. Ma Creonte – come tutti i personaggi tragici – è ambivalente: sbaglia quando assolutizza i valori della polis e li pone unilateralmente al di sopra di tutto, ignorando il resto, sottovalutando le leggi    ”immutabili e non scritte” degli dei, come pure gli affetti familiari e i sentimenti del figlio. Sbaglia “in buona fede” se si vuole: perché ha una visione autoritaria, maschilista, paternalista (diremmo noi moderni) della vita, dei rapporti sociali e familiari (ma qual era, verso la metà del V secolo a. C., l’idea della democrazia? Essa era una conquista recente, sperimentata proprio ad Atene per la prima volta nella storia; non era rivolta a tutti:  donne, stranieri, schiavi ne erano esclusi; l’affermazione dei diritti dell’individuo di fronte allo stato era ancora di là da venire, molto di là; e del resto, il tipo di governo che appare in questa, come nella maggior parte delle tragedie, è abbastanza indeterminato: viene definito monarchia, ma non ne ha i tratti tipici (la monarchia è un dato tradizionale della tradizione mitica, ma i sovrani della tragedia non sono né βασιλεις, né, tanto meno, wanaktes). Ma forse non è questo che importa al Poeta: gli importa far riflettere i suoi concittadini sulla possibile degenerazione del potere, di qualsiasi tipo di potere (democrazia inclusa).

Creonte sarà crudelmente punito: perderà proprio ciò che aveva sottovalutato, la moglie e il figlio, l’eros e la philia, e solo in quel momento ne capirà l’importanza, tanto da esserne distrutto. Come Edipo, per quanto in misura minore, anche Creonte subirà un rovesciamento di situazione: da sovrano autoritario e sicuro di sé, a “relitto” di uomo, psicologicamente annientato, disperatamente solo: “Io non sono più niente” dirà alla fine. E il coro gli farà eco, concludendo con la massima consueta sull’apprendimento tardivo – e acquistato “a proprie spese” – della saggezza, e con le consuete considerazioni sulla instabilità della fortuna umana. Ma c’è un altro elemento che lo accomuna ad Edipo: l’ambiguità.Come Edipo, Creonte fa delle affermazioni che gli si ritorceranno contro, dicendo, senza rendersene conto, verità che suonano condanna per lui. Quando, ad esempio, parlando del suo bando, conclude:” Questo è il mio intendimento”, non si rende conto della polisemia del termine φρóνημα, che, otre all’accezione positiva di “intendimento, volere”, ha quella – negativa – di “tracotanza”, e quindi egli stesso definisce “tracotante” lla sua decisione di lasciare insepolto Polinice. O quando replica alle suppliche di Ismene: “Sarà Ade a porre fine a queste nozze per me“, egli intende riferirsi  alle nozze di Antigone ed Emone, dando a quel μοι il senso di “in mia vece”; ma, senza saperlo, è anche del suo matrimonio con Euridice che sta parlando, matrimonio che verrà troncato dal suicidio di lei (e, in questo senso, μοι  vale “a mio danno”). Ma il culmine dell’ironia tragica viene raggiunto quando, nel finale, egli paragonerà se stesso a un “cadavere ambulante” o a un “nulla”, proprio lui che, nella rhesis iniziale, non faceva che ripetere ossessivamente “io .. io ..”

Molto ha fatto discutere l’appellativo di “stratego”, con cui Creonte viene designato al v. 7. Nel 442 a. C. lo stratego per antonomasia era Pericle. Come non pensare che Sofocle volesse alludere a lui? E’ significativo il fatto che Pericle, nell’epitafio riportato da Tucidide (II, 37,3) – discorso da lui pronunciato nel 430, per commemorare i caduti nel primo anno di guerra del Peloponneso, cioè dodici anni dopo la prima rappresentazione dell’Antigone – faccia riferimento alle “leggi non scritte”, fornendo indirettamente una risposta a Sofocle: ad Atene, “scuola dell’Ellade”, il rispetto per le le leggi scritte si coniuga perfettamente con l’ossequio alle leggi non scritte, la cui violazione porta, “per consenso unanime, il disonore”. Pericle, insomma, non vuole  essere identificato con Creonte; né che la “sua” Atene possa essere accomunata alla “sacrilega” Tebe della tragedia sofoclea. Ma la discolpa presuppone l’accusa: se Pericle avverte il bisogno di scagionarsi, evidentemente sente rivolta a se stesso l’allusione del Poeta.

Questo no significa che Sofocle sia avversario di Pericle e della “sua” democrazia: altrimenti sarebbe inspiegabile il successo di cui le sue opere godevano nell’Atene periclea. Molto probabilmente, invece, egli apparteneva a quel gruppo di intellettuali, come Tucidide, che vivevano con ansia e inquietudine critica la “rivoluzione culturale” del V secolo, e che sarebbero approdati, qualche decennio dopo, al conservatorismo moderato di  Teramene. Non a caso, trent’anni dopo l’Antigone, ritroveremo Sofocle tra i fautori del governo dei Quattrocento, da lui considerato come “extrema ratio” per i mali di Atene.

Sofocle, insomma, si comporta da “coscienza critica” dell’Atene democratica. Non è un avversario della rivoluzione culturale, ma ne vede acutamente i limiti, e denuncia i rischi di una possibile degenerazione, richiamando i suoi concittadini al rispetto di quei valori che costituiscono l’eredità positiva del passato, e che, lungi dall’essere legati a una fase storica o a una classe sociale determinata, hanno carattere e validità perenni e universali. In particolare (non diversamente dall’ultimo Euripide) denuncia i limiti del razionalismo: nell’Edipo re, soprattutto, dove contrappone al “conoscere razionalmente” il φρονειν (l’essere saggi), ma anche nell’Antigone. Qui è proprio Creonte il rappresentante del “razionalismo cieco”. Come Penteo nelle Baccanti, vede nell’elemento femminile il germe dell’irrazionalità, del disordine, della minaccia all’ordine costituito. La donna è qualcosa di pericoloso, da controllare e da sottomettere a tutti i costi, e, in definitiva, da temere. Perché la donna, in quanto amante e madre, radice dell’ερως come della φιλíα, costituisce una potenza alternativa a quella dello stato, ad esso estranea,, più profonda e “primordiale”, ostile a qualsiasi considerazione politica,  perché portatrice di un diverso codice etico. Da qui il suo antifemminismo becero, che si manifesta negli atteggiamenti sprezzanti nei confronti di Antigone e Ismene, nella sua brutale volgarità (“Ci sono altri campi da arare, altri grembi da fecondare”), nell’odio verso la “ribelle”, nella sua totale incapacità di comprendere le ragioni del figlio.

Non a caso Fromm vedeva nello scontro tra Antigone e Creonte il conflitto di due mondi: quello matriarcale e quello patriarcale. Certo, oggi è difficile condividere l’opinione di chi identificava matriarcato e patriarcato con precise fasi storiche (o preistoriche) reali . E’ più ragionevole vedere nel “matriarcato” una “utopia negativa” del pensiero e dell’immaginario greco, un “altrove mitico” che serviva a giustificare – per contrasto – la situazione esistente e la subordinazione delle donne (v. mito delle Amazzoni, delle donne di Lemno ecc.)

Ma vedere nello scontro tra Creonte e Antigone il conflitto tra patriarcato e matriarcato, o tra stato e famiglia, o tra νóμος (inteso come convenzione umana) e φúσις (intesa come legge non scritta) è riduttivo. Bisogna tener conto di un terzo elemento: Eros, l’amore tra uomo e donna, che “trionfa possente” sugli dei e sulle creature e “ha sede pari accanto alle leggi inviolabili”, come afferma il coro nel terzo stasimo (vv.793 – 800). Eros – insieme a Dioniso – è l’unica divinità invocata dal coro nel corso del dramma: essi rappresentano le potenze dell’irrazionale – le pulsioni dell’inconscio, diremmo noi moderni – ciò che non si può, in nessun modo, controllare o ignorare, perché si rischia di esserne travolti, ciò che è totalmente apolitico, estraneo a qualsiasi “ragion di stato”. Creonte non ne tiene conto, condannando a morte la fanciulla amata da suo figlio, e le conseguenze della sua ostinazione sono disastrose (“errori di folle ragione” li definirà più tardi, con efficace ossimoro). Ma anche l’eroina Antigone è, in qualche modo, “colpevole” di unilateralità. Anche lei sottovaluta – anzi, ignora del tutto – la forza di Eros. Nella sua assoluta dedizione alle leggi della φιλíα familiare, dimentica Eros. Non una sola parola, neanche un cenno al giovane che, per amor suo, si ucciderà (a meno che la battuta del verso 572 “Carissimo Emone, come ti disprezza tuo padre!” non sia da attribuire a lei, anziché ad Ismene, come fanno alcuni codici; ma questa ipotesi  mi sembra poco probabile, perché spezzerebbe la simmetria strutturale del secondo episodio). Solo quando sarà trascinata alla grotta che sarà la sua tomba, Antigone – con il “rovesciamento” consueto negli eroi sofoclei     -comprenderà il valore di ciò che le viene “rubato” con la violenza: le nozze, l’esperienza della maternità; e sentirà il peso enorme dell’ingiustizia che si compie contro di lei. E tuttavia, neanche in questa occasione, nominerà mai Emone. Anzi, dirà cose sconcertanti, per noi moderni:”" … Mai, nemmeno se fossi diventata madre di figli, né se il cadavere di mio marito fosse stato abbandonato a disfarsi, mi sarei assunta questo peso contro il volere dei concittadini … se il mio sposo fosse morto, avrei potuto averne un altro, e un altro figlio da un altro uomo, se avessi perduto il primo; ma, dato che mio padre e mia madre giacciono nell’Ade, non è più possibile che io abbia un altro fratello”.(vv. 905 – 910). Ci si è chiesti, con stupore, perché mai Sofocle abbia qui inserito questo passo, che suona come una “citazione” di un aneddoto erodoteo (III,119) e che sembra stonare rispetto al contesto, e guastare l’intenso pathos della scena. Appare poco convincente la spiegazione di chi ritiene che il Poeta abbia voluto rendere omaggio all’amico Erodoto. Mi sembra, invece, logico pensare che la discussa affermazione, inserita in quel contesto a ragion veduta, sia rivelatrice del mondo interiore di Antigone, delle motivazioni che la spingono ad agire. . Mi sembra, anzi, che essa fornisca la giustificazione del primato della φιλíα, degli affetti e dei legami di sangue, rispetto all’amore.

Ma questa sottovalutazione dell’eros – che Antigone, come la giovane puledra di Anacreonte, non ha ancora sperimentato, non è priva di conseguenze: essa taglia fuori l’eroina dalla società del suo tempo (per una greca di età classica, l’unica partecipazione possibile alla vita della polis era costituita dal matrimonio) e la relega fuori del consorzio umano, come aveva detto Creonte (v.890), nella sfera del “crudo”, del “selvatico”, del “perennemente acerbo”. E, di fronte all’enormità dell’ingiustizia che subisce, la pietosa Antigone perde ogni fiducia negli dei. Il suo grido fiale non è molto diverso da quello “ateo” di Illo nelle Trachinie: “Quale dio potrei ancora invocare … poiché,essendo pia, ho guadagnato l’accusa di empietà?”  Insomma, non esiste una giustizia divina. Gli dei sono infinitamente lontani, estranei alle vicende e alle sofferenze umane. L’uomo è solo … e del resto, è lui l’unico artefice della sua storia, del suo continuo progredire. L’uomo si è fatto da sé: da solo ha appreso la parola, ha creato ordinamenti civili, ha dominato la natura … (vedi lo splendido primo stasimo). Gli dei sono scomparsi dall’orizzonte umano: non sono più garanti di alcun ordine, di alcuna giustizia superiore, sono ridotti a metafore degli istinti umani. Anche le scelte morali sono dettate da un codice puramente umano: l’osservanza delle leggi non scritte (cioè di quei principi etici che sono universalmente riconosciuti come validi) da coniugare con il rispetto delle leggi dello stato. La tragedia si verifica quando non c’è accordo tra i due codici, quando ne esistono diversi, in conflitto tra loro. Di questo conflitto cade vittima l’eroina Antigone. Ma anche nella realtà storica, un quarantennio circa  dopo la rappresentazione dell’Antigone, il conflitto tra leggi dello stato e coscienza individuale avrebbe provocato una vittima illustre.

Nota 1: L’individualismo ereditato dagli antichi γενη aristocratici, nel contesto della polis, acquista un nuovo valore: la difesa della coscienza dell’individuo nei confronti dell’assolutismo statale. Si  tenga presente che la polis antica – anche quella democratica – nei confronti del singolo è sempre “totalitaria”. I diritti dell’individuo nei confronti dello stato sono una conquista dell’età moderna. La rivolta di Antigone – come, nella realtà storica, quella di Socrate – acquista quindi un significato esemplare, precorrendo i tempi.

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