La tarda età del bronzo: la civiltà di Pantalica

LA CIVILTA’ DI PANTALICA
TARDA ETA’ DEL BRONZO
( distinta in tre fasi: civiltà di Pantalica nord, dal 1270 al 1000; civiltà di Cassibile, dal 1000 all’850; civiltà di Pantalica sud, dall’800 al 750 a. C.)
La civiltà di Pantalica nord (1270 – 1000 a. C.)
Pantalica – ma questo è un nome di epoca bizantina: in origine, probabilmente, si chiamava Ibla – è una fortezza naturale, un monte che si eleva a dominare la valli circostanti, il canyon scavato dall’Anapo e dal suo affluente, il Calcinara, e il vasto altopiano a cui è unito dalla stretta sella di Filiporto. Il complesso archeologico – scoperto da Paolo Orsi – è uno dei più vasti e suggestivi della Sicilia orientale (80 ettari di superficie, più di 5 km. di perimetro): comprende una vastissima necropoli – circa 5000 tombe a grotticella artificiale, e i resti di un anaktoron (cioè di un palazzo principesco) che riproduce e imita, in piccolo, i palazzi micenei dell’Argolide.
La fase più antica della cultura di Pantalica, la più interessante, non mostra alcun indizio dell’arrivo di genti nuove e di nuovi apporti culturali. L’influsso miceneo è più marcato di quanto non lo fosse in precedenza, sia nei riti funebri e nella forma delle tombe (camere sepolcrali scavate nel calcare), sia nella ceramica, il cui impasto è più fine ed è – finalmente – fatta al tornio, e caratterizzata da un bel colore rosso vivo: le forme tipiche sono i grandi vasi cuoriformi su altissimo piede; le hydrie – cioè i vasi per l’acqua – panciute e dotate di quattro piccole anse, le bottiglie monoansate con un beccuccio fornito di una specie di filtro, le cosiddette teiere. Riconducibili a modelli minoico – micenei sono i grandi anelli d’oro decorati con motivi spiraliformi o con figure di pesci stilizzati o con l’occhio apotropaico ( = che scaccia il malocchio); e anche i bronzi, che ci sono stati restituiti, numerosissimi – segno che il bronzo era ormai destinato all’uso quotidiano – dai corredi funerari: pugnali, rasoi, coltellini con lama detta a fiamma, fibule ad arco semplice o ad arco di violino, caratterizzato da una specie di occhiello rotondo a un’estremità (v. foglio 3, figure B, C, D, E, F, G, H, I). Particolare interesse riveste l’anaktoron, per la tecnica di costruzione a grandi blocchi grossolanamente squadrati, per la forma rettangolare o quadrangolare degli ambienti di cui era composto, che si ispira, su scala ridotta, ai palazzi achei. Nel megaron è stato rinvenuto il grande vaso su alto piede che è un po’ il simbolo della cultura di Pantalica nord. In una stanza secondaria sono state scoperte delle forme di arenaria per la fusione di oggetti in bronzo: segno, questo, che il sovrano di Pantalica aveva il monopolio della lavorazione dei metalli: come il wanax miceneo, accentrava nelle sue mani ogni potere, e presiedeva alla vita economica del suo regno, che si estendeva dal monte Lauro fino al mare.
Dell’abitato corrispondente alla più antica necropoli (quella di nord – ovest) non si è trovata traccia: si trattava, evidentemente, di capanne costruite con materiale facilmente deperibile. Altri villaggi, di piccole dimensioni, dovevano sorgere sull’altopiano e nella zona circostante. Tra questi, il più importante era quello del sito in cui, secoli dopo, sarebbe sorte Akrai (oggi Palazzolo Acreide), la cui esistenza è testimoniata da una piccola necropoli (circa 50 tombe).
Verso il 1000 a. C. Pantalica sembra avere perduto importanza e abitanti. Ha inizio la seconda fase della tarda età del bronzo, che dal suo sito più rilevante, Cassibile, prende il nome di
Civiltà di Cassibile (1000 – 850 a. C.)
Il villaggio preistorico di Cassibile (di cui non ci è rimasto nulla) si trovava a una ventina di Km. da Noto, anch’esso situato su una montagna di difficile accesso, ai piedi della quale scorre, in uno scenario selvaggio e suggestivo, il fiume omonimo. La necropoli corrispondente comprende oltre 2000 tombe a grotticella artificiale ( segno, questo, dell’importanza dell’abitato) mentre a Pantalica le tombe risalenti a questo periodo sono pochissime.
Altre necropoli notevoli di questa fase sono quelle del Dessueri, del Mulino della Badia (presso Grammichele), di Calascibetta. Neanche qui si è trovata traccia dei villaggi.
La ceramica di questa seconda fase è quella cosiddetta piumata, simile a quella ausonia delle Eolie. Ma le forme sono diverse: solo in parte conservano le forme dell’età precedente; molte sono nuove: secchielli, piattini su alto piede (probabilmente lampade) ecc. Anche le fibule hanno una forma diversa (con arco a gomito), anch’essa riscontrabile sull’acropoli di Lipari (e non solo: fibule simili sono state trovate in Palestina). Ma gli influssi culturali più rilevanti sono di tipo occidentale: soprattutto per quanto riguarda i bronzi siciliani di questo periodo, che presentano strette affinità con quelli spagnoli, francesi e inglesi. Si tratta di rasoi quadrangolari o “a foglia”, di asce dette “a cannone”, di coltellini con manico “a occhio”. Queste analogie non sono sicuramente accidentali: esse sono dovute al commercio dei Fenici, che costituiscono, in questo periodo,il principale tramite fra Oriente e Occidente, collegando paesi tra loro lontanissimi (si tenga presente che questi sono, per la Grecia, i “secoli oscuri”; che la civiltà micenea è crollata e che il dominio dei mari è ora dei mercanti fenici). All’influsso fenicio pare si debba anche la forma della “oinochoe a bocca trilobata” (parola difficile, alla lettera “brocca versa – vino), che designa l’antenata della cannata siciliana).
La terza fase della tarda età del bronzo comprende poco più di un secolo e viene denominata
Civiltà di Pantalica sud
(850 -730 a. C. circa)
Essa è rappresentata soprattutto dalle necropoli della zona meridionale di Pantalica, Filiporto e Cavetta.
Le forme della ceramica cambiano, per influsso dello stile geometrico greco: oltre alle oinochoai a bocca trilobata, di cui si è già parlato, appaiono scodellini a profilo carenato, àskoi, boccali. Insieme alla decorazione “piumata” troviamo una decorazione a solchi paralleli eseguiti al tornio o con incisioni a stecca su fondo grigio; anche le forme delle fibule sono diverse: l’arco è più piccolo, lo spillo si allunga e si incurva; si trovano anche anelli, bottoni, spirali a disco o a cilindro (v. figura). In questo periodo Pantalica doveva avere riacquistato la primitiva importanza, testimoniata anche dalle tombe principesche, di dimensioni veramente notevoli e riecheggianti le tholoi micenee (si trovano nelle balze rocciose sottostanti all’anaktoron). Probabilmente in una di queste fu sepolto il re Hyblon, quello che concesse ai Megaresi di Lamis quel lembo di territorio su cui doveva sorgere, negli stessi anni in cui coloni corinzi fondavano Siracusa, o poco prima (735 – 734 a. C., ma la questione è controversa), Megara Hyblea.
La costa orientale, fino a quel momento poco popolata (c’era solo un gruppo di Siculi, le cui capanne – o meglio, racce di esse – sono state rinvenute sull’Ortigia, parte sotto l’attuale via Minerva, parte sotto il municipio) si accingeva ad essere letteralmente “invasa” dalle colonie greche, che avrebbero influenzato in maniera determinante la successiva fase culturale indigena ( civiltà del Finocchito, 730 – 650 a. C. circa), fino a soppiantarla del tutto. Tra queste, la più forte, Siracusa, avrebbe determinato anche il declino di Pantalica.
Queste lezioni sono una sintesi (parziale) de La Sicilia prima dei Greci, di L. Bernabò Brea, Milano 1966.

La Sicilia nell’età del bronzo

LA SICILIA NELL’ETA’ DEL BRONZO
L’antica età del bronzo: la cultura di Castelluccio (1800 – 1400 circa)
Mentre nell’età del rame (III millennio, inizi del II a.C.) la Sicilia presentava una notevole varietà di culture, nell’età del bronzo si afferma una cultura unitaria, artisticamente rigida e conservatrice, che prende il nome dal suo centro più importante, Castelluccio (sito preistorico individuato da Paolo Orsi, a una ventina di Km. da Noto) e che presenta caratteri simili in tutta la parte orientale e meridionale dell’isola, fino all’agrigentino.
La Sicilia occidentale è invece caratterizzata dalla cultura della Conca d’Oro – e poi della Moarda – che è la prosecuzione, senza cesure, della fase precedente, aperta a influssi occidentali, soprattutto iberici (ne è espressione tipica il bicchiere campaniforme ).
Le isole Eolie, dopo un lungo periodo di crisi, conoscono una nuova rifioritura (civiltà di Capo Graziano) grazie alla loro fortunata posizione di collegamento tra il Mediterraneo occidentale e quello orientale (area egeo – anatolica). Questa è proprio la caratteristica fondamentale della prima età del bronzo: l’intensificarsi di scambi culturali e commerciali anche tra paesi lontanissimi, in particolar modo tra la Cornovaglia (da cui proveniva lo stagno), attraverso le coste atlantiche della Francia, l’Aquitania, quindi le coste tirreniche fino allo stretto di Messina, e il mondo egeo – anatolico: come in passato, sarà proprio la civiltà del medio e tardo elladico (quella micenea in particolare) a influenzare notevolmente la cultura inglese del Wessex e tutte quelle costiere del Mediterraneo occidentale. Anzi, è il mondo egeo a costituire il punto di riferimento cronologico che ci permette di datare con una discreta approssimazione le culture siciliane ed eoliane di questa prima fase dell’età del bronzo: gli oggetti di sicura provenienza micenea (v. ad esempio il pomello di spada micenea, foglio 1, fig. 4) rinvenuti in Sicilia, le somiglianze tipologiche tra le ceramiche castellucciane ed eoliane e quelle del medio elladico ci inducono a fissare il periodo che va dal 1800 al 1400 a. C. circa come epoca di fioritura della più antica civiltà del bronzo in Sicilia.
La cultura di Castelluccio – tralasciamo le altre culture coeve in Sicilia – in sintesi è caratterizzata dai seguenti elementi:
- La ceramica è fatta a mano (il tornio non è ancora conosciuto) e presenta decorazioni geometriche brune su fondo rosso o giallino (v. foglio 1, figure 1a, 1b, 1c);
- Gli abitati erano situati prevalentemente nell’interno, su colline, in posizione amena; qualche volta erano fortificati da un aggere di pietrame. Le capanne avevano pianta ovale o circolare. I villaggi – di cui abbiamo scarse testimonianze – sorgevano l’uno vicino all’altro, in modo che gli specialisti metallurghi potessero girare facilmente da un abitato all’altro. Il metallo, però, era ancora relativamente raro e quindi molto pregiato. All’uso quotidiano erano destinati prevalentemente gli strumenti litici (di selce o quarzite), eredità del passato;
- le necropoli a grotticella artificiale sono costituite da stanze sepolcrali collettive, del diametro di 1 – 2 metri, scavate nelle balze calcaree (il calcare è una roccia poco dura, facile da lavorare); alcune tombe sono precedute da un vestibolo a pilastri, raro esempio di architettura preistorica in Sicilia. Le camere sepolcrali, di forma ovale, erano chiuse a volte con semplici muretti a secco, a volte con portelli in pietra, di altezza variabile tra i 70 e i 90 cm., decorati con motivi spiraliformi in rilievo, che richiamano vagamente le sculture dei templi megalitici della coeva civiltà di Tarxien (pronuncia Tarscé) e tipi sepolcrali egeo – anatolici (v. fig. 2);
- intensi erano gli scambi culturali con la Grecia e l’Asia Minore: ad esempio sono stati rinvenuti, nei villaggi castellucciani, degli strani ossi a globuli (v. figura 3) che probabilmente erano idoletti (qualcuno era stato scoperto anche nei siti dell’età del rame) identici a quelli trovati a Troia II e III, a Lerna in Argolide, a Malta.
Particolarmente assidui erano scambi e contatti tra Malta e la gente “castellucciana”, ad esempio con gli abitanti dell’Ognina, isoletta che si trova un po’ più a sud di Siracusa: qui è stata scoperta una gran quantità di ceramica grigia impressa, decorata con un materiale gessoso – diversissima, quindi, da quella siciliana dell’antica età del bronzo – tipica dello stile di Tarxien, ma simile anche a un particolare tipo di ceramica meso – elladica rinvenuta dal Dörpfeld nell’Altis di Olimpia. Alcuni hanno ipotizzato addirittura un insediamento commerciale maltese all’Ognina. Insomma, in questo periodo la Sicilia non è abitata solo dalle popolazioni agricolo – pastorali castellucciane: essa è centro e tramite di scambi intensi tra popoli marinari, provenienti da tutto il Mediterraneo: Maltesi e Micenei, Micro-asiatici e Franco-iberici (certe fortificazioni di pietrame dei villaggi castellucciani sono identiche a quelle dei villaggi preistorici della Francia meridionale, del Portogallo, della Spagna), per non parlare delle genti eoliane della cultura di Capo Graziano.

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La Sicilia nell’età del rame (2)

d) L’età del rame nella Sicilia occidentale: la cultura della Conca d’Oro
Nella Sicilia nord – occidentale in questo periodo si afferma la cultura della Conca d’Oro, così chiamata dall’archeologa Marconi Bovio perché la maggior parte dei reperti proviene dalla zona di Palermo e dintorni. Meno conosciuta la fascia costiera della provincia di Trapani e quella settentrionale che si affaccia sul Tirreno.
Conosciamo questa cultura solo attraverso il ritrovamento di alcune sepolture, effettuate sia in grotte naturali che in celle scavate nella roccia (cioè di tipo orientale ) e dei loro corredi funebri. Si tratta di tombe a forno, alcune a più stanze sepolcrali (del diametro di due metri al massimo), a cui si accede dal fondo di un pozzetto verticale. In ogni celletta si trovavano diversi scheletri rannicchiati, circondati dal corredo funebre costituito da armi, vasi, strumenti di pietra e di osso, e, in un caso, anche da due idoletti fittili. Come nelle epoche più antiche, sui defunti era sparsa ocra macinata di colore rosso.
I vasi riferibili all’età del rame ( ma ce ne sono altri, di epoca successiva: le tombe erano usate per secoli) sono decorati ( stile della CONCA d’ORO) da linee o coppie di linee incise fiancheggiate da punti impressi, in modo simile allo stile di San Cono – Piano Notaro (ma le forme sono diverse: prevalgono le ollette globulari, i bocca letti con una sola ansa e i vasetti gemini. Un esemplare particolarmente rappresentativo è il bicchiere di Carini, la cui forma sembra imitare il bicchiere campaniforme della Spagna, probabile indizio, questo, di contatti tra la Sicilia occidentale e la penisola iberica. Ma gran parte dei vasi attesta anche il contatto con le culture della Sicilia orientale ( San Cono – Piano Notaro, Malpasso e Sant’Ippolito)
L’industria dell’età del rame in Sicilia
Mentre per la ceramica è possibile, grazie alla stratigrafia dei siti più rilevanti, stabilire una cronologia relativa, per le altre categorie di oggetti ciò è impossibile, perché in massima parte non sono stati rinvenuti in strati associabili a precisi stili ceramici. Essi si possono così classificare:
• amuleti : cornetti fittili
• oggetti di uso quotidiano: fuseruole, rocchetti, pesi di varie forme, cucchiai, coperchi costituiti da un disco di terracotta forato sui margini, oppure a forma di cono sormontato da una presa
• rari oggetti metallici: un pugnale, un braccialetto, un anello
• armi litiche: asce a “ferro da stiro” con foro cilindrico, teste di mazza tondeggianti con foro cilindrico (cfr. Troia, ed Egitto), accette levigate in basalto o in pietra verde, punte di freccia in selce a ritocco bifacciale, lame di selce e grattatoi
• macine grandi e piccole, arnesi per triturare
• un idoletto di pietra (grotta del Conzo) simile a quelli della penisola iberica.
In questo periodo in Sicilia si diffonde una nuova tecnica di lavorazione della selce (industria campignana) finalizzata alla produzione di strumenti di proporzioni (relativamente) grandi rispetto al passato: da grossi pezzi di selce, mediante percussori, si ricavano arnesi grossolanamente appuntiti, o grattatoi a disco, amigdale con ritocco bifacciale, e i cosiddetti tranchet ( cioè delle asce). Viene utilizzata una selce biancastra opaca, meno “raffinata” di quella usata anticamente, o addirittura calcare silicioso. Dobbiamo a Ippolito Cafici la scoperta di numerosissime officine “campignane” nella zona dei Monti Iblei (territori di Vizzini, Licodia Eubea, Monterosso Almo, Giarratana …), che è ricca di strati di selce affioranti in superficie, insieme a strati calcarei.

La Sicilia nell’età del rame (1)

L’ETA’ DEL RAME IN SICILIA : a) il contesto mediterraneo

L’età del rame in Sicilia costituisce un momento di rottura e di cambiamento radicale rispetto al neolitico , il quale, pur nei suoi vari aspetti, aveva mantenuto a lungo un carattere unitario di fondo che accomunava le culture della Sicilia, dell’Italia meridionale e delle Eolie.
L’età del rame, al contrario, è tutt’altro che unitaria; essa appare, invece, il risultato di influenze culturali diverse. L’origine, come al solito, va individuata nell’Anatolia e nelle isole dell’Egeo, perché solo in questi luoghi si ritrovano, tutti insieme, gli aspetti e gli elementi che troviamo sparsi nelle altre culture. Dall’Oriente si diffonde ben presto in tutto il bacino del Mediterraneo, grazie ai progressi compiuti nella tecnica della navigazione. Si intraprendono nuove rotte: non più lungo le coste o tra le isole. Ora, con le navi che troviamo raffigurate sulle “padelle” cicladiche (fig.1) si può affrontare il mare aperto, il canale di Sicilia in primo luogo, anziché il “ponte” Pelagosa – Tremiti, o lo stretto di Messina. La nuova ondata culturale può ora raggiungere, senza ristagni e mediazioni secolari, la Sardegna e le coste occidentali del Mediterraneo (Francia meridionale e Spagna), oltre, naturalmente, alla Sicilia. Le Eolie sono tagliate fuori dalle nuove rotte e conoscono un periodo di decadenza: l’ossidiana ormai è diventata obsoleta, dati i progressi della metallurgia ( si pratica la fusione non solo del rame, ma anche dell’argento, dell’oro e del piombo). Anche se meno raffinata dal punto di vista artistico ( le ceramiche sono più semplici ed essenziali ) questa nuova civiltà è molto più progredita in molti campi, e in particolare nella struttura degli abitati e nell’organizzazione sociale: si costruiscono città fortificate con mura, strade e piazze, pozzi e granai pubblici. Le case non sono più costituite da capanne, ma sono edifici a più ambienti che si sviluppano attorno a una stanza rettangolare centrale (MEGARON).
Siamo alla fine del IV millennio a. C. : nell’isola di Lemno l’abitato di Poliochni diventa una vera e propria città (Periodo Azzurro,tra il 3200 e il 2800 a. C.) con grandi mura a secco, case a pianta rettangolare di una o due stanze: elemento fondamentale (anche della futura architettura greca) il megaron con l’ingresso sul lato breve rivolto a sud e un piccolo portico affacciato su un cortile lastricato. Un paio di secoli dopo viene fondata Troia ( Troia I, tra il 2920 e il 2350 a. C.) anch’essa circondata da mura di fortificazione a secco e da case – megaron (fig. 2). Caratteristiche simili presenta Thermi, nell’isola di Lesbos. Insomma, la società diventa più complessa e organizzata.
Anche nel Mediterraneo occidentale si sviluppano fiorenti civiltà urbane simili a quelle dell’Egeo orientale e della costa turca: quella di Anghelu Ruju in Sardegna, di Tarxien a Malta (caratterizzata da una spettacolare architettura megalitica), di Almeria in Spagna, di Fontbouisse in Francia.
Ma le innovazioni riguardano tutti i settori, non solo le strutture degli abitati: le credenze religiose, i riti funebri, le tecniche “industriali” (nuovi tipi di armi e di strumenti, nuove forme nella ceramica).
Il fenomeno più vistoso riguarda il rituale funebre: non più tombe isolate in fosse pavimentate con lastre di pietra, come nel neolitico, ma sepolture collettive nelle tombe a grotticella artificiale, vere cappelle “di famiglia” che vengono scavate per lo più nel calcare, a volte invece nel terreno, a forma di un pozzo da cui si accede a una o più stanze funerarie “a forno”, oppure sepolture in grandi giare o vasi (soprattutto per i bambini) dette, con termine greco, “a enchytrismòs”: anche questo è indizio della maggiore importanza acquistata dalla comunità familiare o etnica, e anche delle crescenti differenze sociali (ricchezza dei corredi funebri, maggiore grandiosità delle tombe di personaggi importanti ecc.) Le tombe a grotticella artificiale, non più isolate, ma riunite in vaste necropoli, sono di origine egeo – anatolica, ma si diffondono dovunque, nel Mediterraneo orientale (Palestina, Cipro, Cicladi, Peloponneso, Creta) e in parte anche in quello sud – occidentale, in Italia fino all’Arno, in Sicilia, in Sardegna (in misura limitata), nelle regioni costiere di Spagna e Francia meridionali. Nell’Europa nord – occidentale, invece, dalla Sardegna (in prevalenza), alla Francia, alla Spagna e lungo le coste atlantiche fino alla Scandinavia, viene preferita la sepoltura nei dolmen, anch’esse tombe collettive, anch’esse segno di distinzione sociale (corredi funebri e offerte sacrificali tanto più ricche e abbondanti quanto più era importante il defunto) ma a struttura megalitica.
Per quanto riguarda le credenze religiose – di cui possiamo ricostruire ben poco – possiamo notare l’amplissima diffusione di diversi simboli apotropaici (cioè portafortuna) come gli occhi e le corna, che ancora oggi sono usati con la stessa funzione (gli occhi in Turchia e in Grecia, il cornetto rosso da noi). Forse analoga funzione di “difesa” contro i malintenzionati avevano le statue – stele rinvenute a Troia I, a Malta, in Corsica e nella Francia meridionale (Figura 3). Identici idoletti dalle forme stilizzate sono stati trovati nelle Cicladi e in Sardegna. Gli strumenti litici o di osso cambiano forme e dimensioni: tra i primi notiamo l’ascia da combattimento (assente però in Sicilia) e le teste di mazza (ben presenti da noi); tra i secondi, delle placchette decorate con cerchi o degli strani ossi a globuli, diffusi gli uni e gli altri a Troia, a Lerna nel Peloponneso, a Malta, e anche in Sicilia, soprattutto nella successiva età del bronzo antico (le forme, le decorazioni ecc. hanno una diffusione lenta, secolare addirittura, come, del resto, assai lenta è la diffusione della civiltà del rame: non è strano che un oggetto tipico di questa cultura si trovi in Anatolia o in Grecia diversi secoli prima che esso diventi “alla moda” in Sicilia o nei paesi occidentali).
Anche le nuove forme della ceramica (fiaschetti, brocche con l’orlo obliquo, bicchieri a clessidra, scodelloni con becco cilindrico ecc.) hanno origini orientali e giungono lentamente in Sicilia a soppiantare le antiche forme in uso nel neolitico. Ma se l’influenza più determinante sui paesi del bacino occidentale del Mediterraneo è quella anatolica ed egea, non bisogna però sottovalutare gli importanti contributi nord – orientali delle culture danubiane. Ogni cultura elabora una propria facies individuale tenendo conto sia delle eredità del “suo” passato sia degli apporti nuovi, scegliendo ciò che le è più congeniale, ed influenzando, a sua volta, altre culture più o meno vicine. Ad esempio, l’importante cultura spagnola detta “del bicchiere campaniforme”, come le altre espressioni della cultura di Almeria (i bottoni forati a V, i grandi pugnali e le punte di freccia in selce) trovano una larga diffusione in tutto il Mediterraneo occidentale, dalla Sardegna all’Italia, in Sicilia e a Malta, e giungono fino alle valli del Reno e del Danubio, e alle isole britanniche.
b) Fasi della civiltà del rame in Sicilia
Il panorama culturale della Sicilia nel III millennio a. C. è molto complesso. Possiamo distinguere grosso modo due diverse zone: quella nord – occidentale (attuali province di Trapani e Palermo) e quella nord – orientale che include anche la parte centrale dell’isola. Anche in questo caso, per ricostruire la successione, e quindi la cronologia relativa delle varie culture, dobbiamo avvalerci dello studio della stratigrafia. Le isole Eolie, divenute marginali in questo periodo ed entrate nell’orbita delle culture occidentali, non possono fornirci valide indicazioni. In questo caso è la stratigrafia della grotta Chiusazza, nel siracusano, a mostrarsi determinante. Procedendo dalla superficie del piano di calpestio agli strati inferiori (cioè a ritroso nel tempo, dato che gli strati più bassi sono i più antichi) incontriamo i seguenti strati, corrispondenti a epoche diverse:
1) Uno strato di epoca storica, greca, con tracce di culto: evidentemente la grotta era considerata sacra.
2) Uno strato della media età del bronzo ( dal che si deduce che per molti secoli la grotta era stata abbandonata) cioè riferibile alla cultura di Thapsos (1450 – 1200 a. C. circa)
3) Uno strato dell’antica età del bronzo, della cultura di Castelluccio (1800 – 1450 a. C. circa)
4) Uno strato della tarda età del rame, della cultura detta di Malpasso: malgrado l’abbondanza di oggetti fittili che accomuna questo strato a quello successivo, più antico, bisogna però notare una forte cesura tra questa facies culturale e quella che la precede.
5) Uno strato della media età del rame (cultura di Serraferlicchio) che non presenta, invece, una netta differenziazione rispetto alla cultura dello strato più antico.
6) Uno strato dell’antica età del rame (culture del Conzo, della ceramica buccheroide, e di San Cono – Piano Notaro)
7) Infine, lo strato più antico di tutti, risalente addirittura all’ultimo periodo del neolitico (ceramica dello stile di Diana).
• Altri rinvenimenti significativi sono stati effettuati nelle grotte del Conzo, Genovese e Palombara (sempre nel siracusano), ma mescolati e confusi tra loro, in modo tale da non consentirci di stabilire una successione. Il reperto più significativo è una testa di mazza globulare, di marmo, con foro cilindrico, che presenta forti analogie con quelle coeve di Troia.
La successione delle culture siciliane nell’età del rame è dunque la seguente:
a) Antica età del rame : culture di San Cono e Piano Notaro,del Conzo e della ceramica buccheroide.
Il villaggio preistorico di San Cono ( che non ha niente a che vedere con l’attuale paese omonimo) fu scoperto tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento dai fratelli Corrado e Ippolito Cafici : si estendeva su una collinetta isolata, nella regione dei monti Iblei, a mezza strada tra Vizzinie e Licodia Eubea. Vi sono state rinvenute tracce di capanne, macine e macinelle di pietra, abbondante industria litica di vario tipo, più due tombe (una ancora di tipo neolitico, a fossa e coperta con grosse lastre di pietra; l’altra del tipo caratteristico dell’età del rame: un pozzetto di forma cilindrica scavato nel terreno, dal quale si accede alla vera e propria tomba “a forno”).
Un altro gruppo di tombe ancora di tipo neolitico (fosse circolari coperte da lastre di pietra e scheletro rannicchiato), scoperto nel 1908 da Paolo Orsi a Piano Notaro (presso Gela) conteneva un corredo funebre costituito da un gran numero di ceramiche dello stile da cui ha preso il nome questa antica fase della civiltà del bronzo. Analoghi rinvenimenti nella grotta Zubbia di Palma Montechiaro, e nella grotta di Calafarina presso Pachino mostrano la diffusione di questo tipo di ceramica anche nella parte meridionale della Sicilia (province di Gela e di Agrigento). Altri reperti significativi di questa facies culturale sono stati rinvenuti a Sant’Ippolito (presso Caltagirone), a Trefontane (presso Paternò) e a Ossini (presso Militello). Insieme alla ceramica ( v. figura 4) sono stati trovati numerosi oggetti fittili: fuseruole (per la tessitura), pesi (di vario uso: per lo più da telaio) e cucchiai.
La ceramica di tipo buccheroide (vedi figura 5) decorata a striature verticali, praticate con la spatola, presenta una certa somiglianza con quella coeva delle Eolie e potrebbe derivare dalla ceramica tardo neolitica del bacino dell’Egeo.
b) Media età del rame: cultura di Serraferlicchio
A Serraferlicchio, nei pressi di Agrigento, all’interno di una grande spaccatura nella montagna, sono stati scoperti resti di capanne e una gran quantità di ceramiche decorate in uno stile che dà il nome a questa facies culturale. Si tratta di una ceramica dipinta in modo vivace; sul fondo lucido di un bel rosso vivo, a volte tendente al violaceo spiccano decorazioni geometriche di vario tipo: denti di lupo, fasci di linee, serpentine, bande reticolate ecc. (figura6). Una fase più tarda (ma sempre nell’ambito della media età del rame) è rappresentata da ceramica policroma, a bande nere orlate di bianco sempre su fondo rosso, che si trova nello stesso sito, ma in misura molto minore. E infine, una gran quantità di ceramica chiara, grezza, disadorna o al massimo decorata con cordoni o rari bitorzoli.
La ceramica di Serraferlicchio è stata rinvenuta in numerose stazioni dell’età del rame: a Realmese, presso Calascibetta, nel siracusano (grotte Chiusazza, Genovese e Palombara), a Paternò, e anche a Lipari. Un esemplare particolarmente interessante è il vaso scoperto dall’arheologa Marconi Bovio nella grotta del Vecchiuzzo a Petralia Sottana: qui le linee sottili, riunite in fasce, si incontrano a formare un grande angolo, motivo nuovo che si ritrova anche in un vaso di Capaci (unico esempio di ceramica di questo stile scoperto nella zona di Palermo, dominata dalla cultura della CONCA D’ORO) v. figura 7.
Anche questo tipo di ceramica sembra una derivazione del tardo neolitico egeo.
c) Tarda età del rame: la ceramica dello stile di Malpasso
Il sito da cui prende il nome questa facies culturale è Malpasso, presso Calascibetta, nel cuore della Sicilia: vi sono state rinvenute cinque tombe a grotticella artificiale di un tipo particolare e un corredo di ceramiche a superficie monocroma rossa.
Le tombe, scavate nel calcare ( che è una roccia relativamente “tenera”) non sono del consueto tipo “ a forno”: sono costituite da diverse camerette tra loro comunicanti e con il suolo “a gradini” dato il dislivello del terreno. La ceramica presenta forme nuove (figura 8) come il bicchiere semiovoide caratterizzato da una grande ansa a nastro con piastra sopraelevata: le analogie non vanno più ricercate nel tardo neolitico greco, bensì nella prima età del bronzo dell’Anatolia e delle isole dell’Egeo. Questo tipo di ceramica ha una vasta diffusione: dalla Chiusazza già citata alla grotta Ticchiara presso Agrigento, nella grotta Zubbia, a Sant’Angelo Muxaro, oltre che a Serraferlicchio, a Petralia Sottana e a Sant’Ippolito presso Caltagirone.
E’ proprio quest’ultimo sito – uno dei più importanti della preistoria siciliana – a dare il nome alla fase finale dell’età del rame (e allo stile della ceramica che la caratterizza) e a costituire un momento di transizione alla successiva età del bronzo.
La ceramica dello stile di Sant’Ippolito

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Il neolitico siciliano

IL NEOLITICO SICILIANO
La fase più antica del Neolitico siciliano è rappresentata dalla cultura di Stentinello, identificata nel 1890 da Paolo Orsi, dal nome del villaggio da lui scoperto a pochi km. da Siracusa.
La cultura di Stentinello non si presenta come l’evoluzione delle culture paleolitiche precedenti. Al contrario, essa è radicalmente diversa, apporto di genti nuove, venute dal vicino Oriente.
Prima grande novità è la ceramica, sconosciuta ai paleolitici: una ceramica bruna, dapprima di impasto grossolano eseguito a mano (il tornio è ancora ignoto), decorata a crudo con incisioni o impressioni praticate con le unghie, o con punzoni, o con l’orlo del guscio di conchiglie (il Cardium e il Pectunculus), poi, con l’andare del tempo, sempre più raffinata e artisticamente ornata. Caratteristici di questa decorazione di tipo geometrico (linee parallele, oblique, a zig zag, punti ecc.) sono i rombi, che rappresentano occhi stilizzati (in qualche esemplare più “naturalistico” sono segnate anche le ciglia) i quali costituiscono un motivo apotropaico (cioè una sorta di portafortuna, o meglio una difesa contro il malocchio, come i nostri cornetti rossi, anch’essi, peraltro,sopravvivenza preistorica,come vedremo in seguito). I vasi più antichi hanno prevalentemente forma aperta (hanno, cioè, l’apertura più grande del “corpo”), quelli più recenti hanno invece forme “chiuse”, cioè apertura più stretta. Particolarmente interessanti alcune raffigurazioni fittili (di argilla, cioè) di animali.
Per quanto riguarda l’industria litica, la selce e la quarzite (materiali quasi esclusivi dell’industria paleolitica) diventano più rare, fino ad essere soppiantate dall’ossidiana di Lipari (vetro vulcanico con il quale si ottenevano lame e arnesi taglientissimi), alla quale si affiancano il basalto e la pietra verde (se ne ricavavano accette). Le armi delle genti neolitiche sono più evolute: tra queste la fionda. Ma anche l’osso veniva lavorato.
Le novità più rilevanti, però, riguardano la scoperta di più efficaci mezzi di sussistenza: l’AGRICOLTURA e l’ALLEVAMENTO. L’uomo neolitico non vive più di caccia e di raccolta dei frutti spontanei. Non ha bisogno di spostarsi continuamente per cercare nuovi territori da sfruttare o per seguire i branchi di animali migranti verso nuovi pascoli. Ora è in grado di produrre da sé il cibo necessario. Da nomade diventa sedentario. Non abita più nelle caverne o nei ripari sotto roccia, ma costruisce capanne raccolte in villaggi, spesso fortificati mediante fossati e trincee, come quelli di Stentinello, di Megara Hyblaea, di Matrensa . Sviluppa la navigazione e il commercio per mare, attività che diventano meno rischiose dei primi audaci tentativi messi in atto dai paleolitici. Pratica una qualche forma di religione e il culto dei morti. Ce ne rimane un’unica rilevante testimonianza, la tomba di Calaforno presso Monterosso Almo: una fossa ovale, circondata e pavimentata con grosse lastre di pietra.
Come si diceva, l’origine di questa cultura a ceramica impressa va ricercata nel Vicino Oriente, cioè tra l’Anatolia meridionale e il nord della Siria (lì le testimonianze di essa sono più ricche e abbondanti che in qualsiasi altro luogo). Ma si tratta di un fenomeno di amplissima diffusione che si espande, nel corso della sua lunghissima durata, nell’intero antico continente, Asia, Europa ed Asia: in principio dall’ Anatolia (Turchia) passa alla Grecia e al resto della penisola balcanica, quindi all’Italia centro – meridionale (Puglia e Abruzzo) per via marittima. Ma i neolitici non dispongono ancora di navi sicure con le quali poter affrontare lunghe traversate. Il Canale d’Otranto costituisce un ostacolo serio: quindi la navigazione è ancora verosimilmente costiera. La diffusione avviene attraverso le isole: Leucade, Corfù, Malta, le Eolie, e infine l’Elba e la Corsica (non a caso, in questi luoghi si trovano numerose testimonianze di questa cultura).
Qui in Sicilia essa arriva tardi, quando nel paese d’origine è ormai in declino, e sta per essere soppiantata dalle nuove culture a ceramiche dipinte. Gli avventurosi neolitici che sono giunti fortunosamente nel Gargano (attraverso le isole croate di Lagosta e Cazza, quindi Pelagosa, Pianosa e le Tremiti) trovano un nuovo ostacolo nei monti della Calabria. Preferiscono, dunque, attraversare i più accessibili valichi dell’Appennino centrale per espandersi nelle regioni centro – settentrionali che si affacciano sul Tirreno, e da qui poi spingersi verso la Provenza.
Non è un caso se il neolitico siciliano a ceramica impressa appare per diversi aspetti più evoluto che altrove: i villaggi fortificati, le decorazioni più raffinate e complesse, la presenza di idoletti fittili e di alcuni esemplari di ceramica dipinta associati a quella tipica di Stentinello sono un chiaro indizio del fatto che il “nostro” neolitico è più tardo rispetto non solo a quello anatolico, ma a quello continentale italiano.
Questo ci fornisce elementi utili per la datazione: nel Vicino Oriente la cultura a ceramica impressa viene soppiantata da una nuova cultura a ceramica dipinta (culture di Samarra e di Tell Halaf in Mesopotamia) all’inizio del IV millennio a. C. Quindi la diffusione della cultura a ceramica impressa nella penisola balcanica e in Italia deve essere iniziata prima che nella sede originaria cominciasse il suo declino ( cioè nel corso del V millennio), ma,dato che la cultura di Stentinello appare più evoluta rispetto alle altre a ceramica impressa dell’ Italia meridionale, possiamo supporre che essa si affermi più tardi qui in Sicilia, quando altrove già cominciavano ad espandersi le nuove culture a ceramica dipinta, dalla Mesopotamia alla Siria e all’Anatolia, quindi alla Grecia centrale (cultura di Sesklo), e da qui all’Italia meridionale, alle Eolie e infine alla Sicilia.
La seconda ondata di culture neolitiche a ceramica dipinta rappresenta una fase di notevole progresso rispetto al passato: oltre alla ceramica, nella quale si evidenzia un più raffinato gusto artistico, e ai numerosi idoletti fittili, che testimoniano un diffuso senso religioso, si comincia a praticare la lavorazione dei metalli (fusione del rame); anche la navigazione diventa meno rischiosa, grazie alla costruzione di imbarcazioni più efficienti.
Questa seconda ondata di culture neolitiche a ceramiche dipinte viene distinta, nella Grecia centrale (regione che influenza in modo particolare l’Italia e la Sicilia) in tre fasi successive, che trovano una precisa corrispondenza nel neolitico pugliese, lucano e abruzzese: una prima fase caratterizzata da ceramica dipinta a due colori, una seconda dipinta a tre colori, con motivi meandro – spiralici, una terza decorata con incrostazioni di colore bianco.
Una analoga successione – che ci offre la possibilità di stabilire una cronologia relativa – può essere riscontrata negli scavi di Lipari ( effettuati da Bernabò Brea, massimo studioso della preistoria siciliana e autore del testo da cui sono tratti questi appunti ). Le isole Eolie, grazie alla lavorazione e al commercio della pregiatissima ossidiana, eruttata dai crateri vulcanici di Lipari (Forgia Vecchia e Monte Pelato), avevano raggiunto nel neolitico un livello elevatissimo di ricchezza e di progresso.
A Castellaro Vecchio, presso Quattropani, gli scavi hanno portato alla luce lo strato più antico (primo periodo del neolitico eoliano): vi abbondano le ceramiche impresse dello stile di Stentinello, ma vi sono presenti anche esemplari di ceramica dipinta a due colori e pochi frammenti di quella a tre colori (bande rosse marginate in nero). A un certo punto non si trovano più tracce di frequentazione umana: il sito, evidentemente, viene abbandonato.
La vita ora si sposta sul Castello di Lipari, che – per nostra fortuna – è una sorta di tell, cioè una piccola altura formata dai depositi degli abitati che si sono succeduti nelle varie epoche. Nello strato più antico, quello più in basso, che poggia direttamente sulla roccia (secondo periodo del neolitico eoliano), la ceramica impressa è rara, quasi scomparsa. Vi è invece presente quella dipinta a bande rosse marginate di nero (dello “stile di Capri”, così chiamata perché a Capri ne sono state rinvenute le prime testimonianze numerose e significative) insieme ad una ceramica (piccole olle sferoidali con un orlo basso,e verticale) grigia o nera, lucida e levigata, di fattura raffinata, per lo più inornata, o decorata sobriamente con dei graffiti a volte sottolineati in rosso ocra. Troviamo anche un terzo tipo di ceramica con decorazione incisa in cui è presente, per la prima volta, il motivo del meandro e della spirale. In questo strato sono stati anche rinvenuti un idoletto fittile, e abbondantissimi frammenti di ossidiana (oggetti e scarti della lavorazione), mentre gli strumenti di selce – importati – sono ormai una vera rarità.
Nel secondo strato a partire dal basso – ovviamente più recente del precedente : terzo periodo del neolitico eoliano – troviamo una ceramica ornata con il motivo del “tremolo” o con decorazioni meandro spiraliche che caratterizzano anche le anse (i “manici”) complicatissime, costituite da nastri tubolari di argilla ripiegati e avvolti su se stessi ( questo stile è detto di “Serra d’Alto” dalla località in cui è stato scoperto, in Lucania, il villaggio più rappresentativo di questa facies culturale). Vi sono presenti anche alcuni sigilli fittili a forma di timbro, chiamati pintadere (con nome spagnolo) perché sono stati rinvenuti in abbondanza nella penisola iberica.
Lo strato successivo (quarto periodo del neolitico eoliano) ha uno spessore sottile, sul Castello di Lipari, il che significa che il villaggio ha breve durata. Nei reperti ceramici risulta evidente un cambiamento di gusto: scompare lo stile eccessivamente adorno di Serra d’Alto, e si diffonde una ceramica monocroma rossa (monos = solo, chroma= colore, cioè di un solo colore), con anse piccole, costituite da semplici nastri tubolari o a forma di rocchetto. Una novità rilevante è costituita dal rinvenimento di scorie di fusione del rame: a quest’epoca la metallurgia è già nota nelle Eolie.
Ma il villaggio sul Castello viene presto abbandonato, soppiantato da un altro, molto più sviluppato, ai piedi dell’acropoli, nella contrada di Diana (da cui prende il nome la ceramica monocroma rossa). Qui i reperti archeologici sono molto ricchi e abbondanti, e attestano il trapasso graduale dallo stile di Serra d’Alto a quello di Diana. Nello strato più alto, infine, l’ultimo in ordine cronologico, si nota una certa decadenza nel gusto artistico e nella fattura dei vasi, grigiastri o violacei. Il neolitico eoliano ha probabilmente chiuso la sua fase creativa.
Se ci siamo tanto soffermati sul neolitico delle Eolie , che apparentemente sembra “fuori tema” o marginale rispetto all’argomento di cui ci occupiamo, c’è un preciso, e non secondario, motivo: In Sicilia sono state trovate testimonianze degli stili fin qui descritti, ma in modo sparso, isolate, piuttosto rare: se non conoscessimo l’evoluzione delle culture neolitiche grazie alla stratigrafia di Lipari, non avremmo nessun elemento per delineare l’evoluzione del neolitico siciliano; il quale, come appare chiaro, è identico a quello di Lipari, e non solo: anche in Italia meridionale troviamo la stessa successione di facies culturali. E persino a Malta, nel periodo in cui fiorisce la sua straordinaria architettura megalitica, è presente ceramica rossa dello stile di Diana. Ma, più in generale, questa evoluzione e successione di culture che presenta caratteri simili dappertutto ha – come sempre – origine in Oriente, nell’area egeo – anatolica, da cui si irradia in tutto il bacino del Mediterraneo, mentre invece l’Italia settentrionale è influenzata dal neolitico settentrionale (culture danubiane).

Lezione U.P.G.C. La Sicilia nella preistoria: il Paleolitico

LA SICILIA NELLA PREISTORIA

Nelle fasi più antiche del Pleistocene (1), quando altrove fioriva la civiltà della “Pietra Antica” ( Paleolitico inferiore e medio) sembra che la Sicilia non fosse abitata da esseri umani (2).Nei siti archeologici più antichi, gli strati “culturali” (quelli, cioè, in cui si trovano manufatti dell’uomo) sono sovrapposti a strati argillosi più antichi, in cui non c’è traccia di presenza umana. Questi strati di argilla, che risalgono alla fase più antica della glaciazione di Wurm, sono invece ricchi di resti fossili di animali. Si tratta di una fauna tipica dei climi caldi (grazie alla sua posizione geografica , la Sicilia non conobbe mai un clima veramente freddo, neanche durante la glaciazione): grandi pachidermi, leoni, specie primitive di iene, ghiri, cinghiali e una specie di equide zebrato, l’equus hydruntinus (cavallo d’Otranto) ecc. La specie più caratteristica e singolare era però quella degli elefanti nani (3), specie diffusa in diverse isole del Mediterraneo (Sardegna, Cipro, Malta alla quale la Sicilia a quel tempo era collegata) i cui resti ossei, in particolare quelli del cranio, potrebbero costituire l’origine del mito dei Ciclopi: la cavità della proboscide sarebbe stata scambiata, dai nostri antichi antenati delle epoche successive, per cavità oculare, di un unico grande occhio in mezzo alla fronte.
Quando l’uomo fece la sua prima apparizione in Sicilia, nel Paleolitico superiore, all’incirca 30.000 anni fa, la glaciazione di Würm era già in una fase avanzata. Il clima della Sicilia era più piovoso che freddo. Comunque la fauna tipica dei climi caldi – ad eccezione dell’equus hydruntinus) – era scomparsa da millenni e sostituita da una fauna più tipica dei climi moderati; l’uomo di Neanderthal era già da tempo estinto, e il nostro diretto avo, l’Homo Sapiens Sapiens si era diffuso in Europa, dando vita a culture litiche (4) più evolute: a una di queste, cioè all’Aurignaziano avanzato risalgono le tracce più antiche fino ad ora scoperte in Sicilia, nel sito di Fontana Nuova, presso Marina di Ragusa. Ma la maggior parte dei siti e dei reperti noti risalgono a una fase ancor più avanzata del Paleolitico Superiore (5), cioè al Gravettiano ( tombe di S. Teodoro, presso Milazzo), facies culturale caratterizzata dall’industria microlitica (cioè dalla produzione di strumenti di pietra di piccole dimensioni – dal greco “mikros” piccolo e “lithos” pietra -).
Non ci dilungheremo qui a ad elencare la distribuzione topografica dei siti (basta dire che la maggior parte di essi è prevalentemente costiera), né a descrivere minuziosamente i reperti litici ( sarebbe un discorso troppo tecnico). Ci limiteremo, invece, a citare le cinque tombe di S. Teodoro, unico esempio, in Italia, insieme a quelle liguri dei Balzi Rossi e delle Arene Candide, di sepolture paleolitiche. Si tratta di semplici fosse, nelle quali erano deposti i corpi, supini e con le braccia distese lungo i fianchi (ad eccezione di uno, che aveva una mano accanto alla testa). Intorno ad essi, il corredo funebre: una collana di denti di cervo, un pezzo del corno di un cervo, dei ciottoli levigati. Sulle tombe era sparso uno strato di ocra rossa macinata: il rosso, simbolo della vita, è un probabile indizio della credenza in una vita ultraterrena.
Ma i reperti più significativi del Paleolitico Siciliano sono costituiti da due serie di raffigurazioni rupestri, alcune incise, altre dipinte,scoperte verso la metà del secolo scorso, la prima in una grotta di Cala dei Genovesi, nell’isola di Levanzo (Egadi), la seconda all’Addaura, vicino Palermo. A quel tempo, nel Paleolitico superiore cioè, Levanzo, come la vicina Favignana dovevano essere unite alla Sicilia, e la grotta doveva essere più accessibile di quanto non lo sia oggi ( la grotta, che si affaccia su una caletta rocciosa, è raggiungibile per mezzo di una barca, quando il mare è perfettamente calmo, oppure attraverso un lungo e accidentato percorso campestre). Vale comunque la pena di affrontare qualche disagio per vedere uno tra gli esempi più rilevanti e pressoché unici dell’arte paleolitica in Italia (v. figure 1 e 2) . Le figure, tracciate sulla parete interna della grotta, furono eseguite in epoca diversa, da autori differenti, con tecniche diverse: parte incise, parte dipinte in rosso e in nero. Il primo gruppo – il più antico, sicuramente databile alla cultura gravettiana e associabile ai reperti litici scoperti nella grotta – è costituito prevalentemente da figure di animali, di cui viene inciso il profilo (senza dettagli anatomici) con tratto sicuro ed esperto, in modo naturalistico ed artisticamente efficace. Vi possiamo riconoscere una fauna tipica dei climi freddi (glaciazione di Würm): cervi, bovidi (Bos primigenius) e l’Equus hydruntinus, equide che – insieme ai crostacei e ai frutti di mare come la Patella ferruginea- doveva costituire uno dei piatti forti nella dieta dei nostri lontani antenati, a giudicare dall’abbondanza dei resti ossei che se ne sono rinvenuti tra gli avanzi di pasto.
Le figure dipinte, invece, sono schematiche, geometrizzanti, lontanissime dal vivace naturalismo di quelle incise. Sono prevalentemente figure antropomorfe di colore nero accostabili agli idoletti stilizzati diffusi nel Mediterraneo durante il neolitico: l’esempio più noto è quello degli idoli cicladici (v. figura a) a forma di violino, di bottiglia, ecc.
Una sorta di collegamento tra le figure del primo e quelle del secondo gruppo è costituita da tre immagini di uomini danzanti, uno dei quali barbuto, stilizzate come quelle delle figure dipinte, ma, al contrario di queste, incise; e da un’altra figura antropomorfa, dipinta in rosso, ma più naturalistica e più simile alle figure graffite (v. figura 3). Questa seconda serie di raffigurazioni è sicuramente di epoca più tarda rispetto alla prima: sulla base delle somiglianze con le pitture e le sculture rinvenute nelle Cicladi, a Troia e a Creta, il Graziosi – eminente studioso di preistoria e della grotta di Levanzo in particolare – ritiene che esse debbano essere datate alla prima fase età del bronzo.
Più complesse e interessanti le raffigurazioni scoperte dalla Marconi Bovio nella grotta dell’Addaura, sulle pendici settentrionali del Monte Pellegrino ( vedifig.4). Qui non troviamo più in prevalenza immagini di animali, o figure umane isolate, bensì gruppi in cui gli uomini interagiscono tra loro. Ma procediamo con ordine.
Il primo gruppo è costituito da figure umane (tra cui una donna incinta con un grosso fardello sulle spalle) e animali incise con mano sicura e leggera, poco marcate e apparentemente non legate tra loro da alcuna connessione. Uno degli uomini ha sul viso una strana maschera da uccello (per la celebrazione di un rito a noi ignoto?)
Le figure del secondo gruppo, più fortemente incise, rappresentano una scena complessa che è stata oggetto di varie discussioni e diverse interpretazioni. Dieci uomini nudi danzano in cerchio attorno a due figure maschili giacenti, presumibilmente uno accanto all’altro (in realtà uno sopra l’altro, ma ciò è dovuto alla mancanza di prospettiva, sconosciuta – ovviamente – agli artisti paleolitici) e apparentemente costretti in una posizione innaturale (li si direbbe, con termine moderno, “incaprettati”). Altri uomini assistono alla scena. Uno accorre portando una lunga asta. Poco distante, in basso, un grosso daino. Gli uomini sono rappresentati in modo naturalistico, ma senza dettagli anatomici (né piedi, né mani, né i tratti del viso). Sembrano dotati di folte e lunghe capigliature, e alcuni portano una strana maschera a forma di testa di uccello. Secondo alcuni studiosi (Blanc, Chiappella) si tratta di una macabra scena raffigurante un supplizio o un sacrificio umano. Secondo altri (la Marconi, scopritrice delle raffigurazioni) si tratterebbe, invece, di un rito di iniziazione sessuale (dato che gli attributi sessuali maschili sono rappresentati con una certa attenzione).
Due figure di bovidi, isolate e tracciate con mano pesante, piuttosto rozze e approssimative costituiscono un terzo gruppo, di livello artistico decisamente inferiore.
Altre raffigurazioni rupestri, simili a quelle dell’isola di Levanzo, sono state scoperte anche nella grotta Niscemi, sulle pendici orientali del Monte Pellegrino: anche qui troviamo vivaci figure di animali, tra cui spiccano, con la loro corporatura massiccia e le zampe corte e sottili alcuni bovidi, e poi il solito equus hydruntinus con la sua criniera a spazzola che lo fa rassomigliare a una zebra.

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La nascita della polis e della moneta

SCHEDA: LA NASCITA DELLA POLIS E L’INTRODUZIONE DELLA MONETA IN GRECIA
L’elemento che più di ogni altro caratterizza la storia greca dell’età arcaica (secoli VIII – VI a. C.) e classica (V – IV a. C.) è la polis, la città – stato. Ma che cos’è esattamente una polis? E quando nacque?
POLIS non è semplicemente la città, ma uno stato, che comprende un territorio (χώρα) più o meno vasto ( da un’estensione di pochi km ² a un’intera regione, come, ad esempio, l’Attica), ed è dotato di un centro urbano (ἄστυ), che ne costituisce il “cuore” politico, amministrativo e culturale.
Il centro urbano può essere costituito da una “normale” città, con i suoi quartieri, le sue vie, i suoi monumenti e la sua cinta muraria (Atene), o da un insieme di villaggi disseminati nella campagna, senza mura (come Sparta: perché sono i cittadini a dover difendere la loro città, e non viceversa). Ma ha comunque un’acropoli (l’altura sulla quale in età micenea sorgeva il palazzo del wanax, la rocca in cui i cittadini trovavano rifugio in caso di pericolo, e che, in età storica, è sede dei principali templi e degli edifici destinati al culto) e una agorà (la piazza, cuore dell’attività politica e commerciale); è governata da una serie di organismi politici che sono espressione della comunità dei cittadini (in contrapposizione ai non cittadini), maschi (le donne ne sono escluse), e liberi ( in antitesi agli schiavi e ai servi di vario tipo). Alcuni storici moderni (Austin e Vidal – Naquet) distinguono tra due diversi tipi di polis: quella classica ( Atene ne è l’esempio più rappresentativo) e quella arcaica (come Sparta) non solo sulla base dell’assetto urbanistico, ma anche – e soprattutto – sulla base del maggiore o minore livello di demarcazione tra le categorie sociali degli abitanti. Nella polis di tipo classico le differenze tra cittadini e no, tra liberi e schiavi sono nette e invalicabili. Lo schiavo è una merce; appartiene al singolo individuo che lo acquista al mercato, come un qualsiasi animale da soma. Nella polis di tipo arcaico le differenze non sono così nette: esistono diverse categorie intermedie di cittadini. Ed esistono “schiavi” che non sono proprietà dei singoli, bensì dello stato: una sorta di “servi della gleba”, probabilmente discendenti di una popolazione più antica sottomessa dai nuovi dominatori (come gli iloti di Sparta; ma esistono, con nomi diversi, categorie simili in varie altre regioni e città della Grecia e delle colonie), oppressi e sfruttati, ma tuttavia, sia pure in modo subordinato, anch’essi partecipi, in una certa misura, della cittadinanza, in una situazione intermedia tra liberi e schiavi. Questa definizione di “polis” è il risultato di una astrazione, ottenuta mettendo a confronto le poleis che meglio conosciamo, cioè Atene e Sparta, e cogliendo, al di là delle differenze, gli elementi che sono comuni a entrambe e alle altre poleis a noi note. Si tratta, cioè, di un modello astratto, che serve a spiegare la concreta realtà storica, senza però identificarsi del tutto con una determinata, singola realtà.
Come succede con i telefonini o i computer: le funzioni fondamentali sono le stesse. Le applicazioni, gli “optional”, variano secondo la marca, il costo, il tipo … ma quando acquistiamo un nuovo cellulare o un nuovo computer, sappiamo quali prestazioni “di base” dobbiamo aspettarci ( secondo il “modello” astratto e generale che abbiamo in mente) e studiare, invece, ciò che vi è di nuovo e particolare …
E’ comprensibile, quindi, come sia difficile rispondere alle domande fondamentali (quando, come e perché) sulla nascita della polis. Gli scavi archeologici ci possono rivelare l’esistenza di centri urbani: ma questa non è una prova dell’esistenza della polis, perché gli scavi non possono dirci nulla sul modo in cui era organizzato e governato il suddetto centro urbano, se esso, cioè, possedeva i requisiti che sono stati esposti sopra. “Città” non significa, automaticamente, “polis”. Anche nei tempi più remoti poteva benissimo esistere una città. Ma non è detto che fosse una polis. Ancor meno facile è definire il modo in cui la polis è nata, le varie tappe della sua costituzione, come pure le cause della sua nascita. Sappiamo che le poleis classiche si trovano, di solito, nelle regioni che erano state, secoli prima, sede di centri micenei (v. cartina): il “fenomeno polis”, infatti, non riguarda l’intera Grecia, ma solo alcune regioni: la Beozia, l’Attica, la Megaride, l’Argolide, la Laconia e la Messenia. La maggior parte del territorio greco rimane estranea ad essa, e conserva i modi di vita del medioevo ellenico (in questi casi si parla di stati – ethnos, come, ad esempio, l’Acarnania, l’Etolia, la Doride, la Focide ecc.).
Non è esatto, quindi, dire che studiamo “la storia greca”: in realtà studiamo prevalentemente la storia della polis più importante, Atene, e delle sue rivali, Sparta e Tebe.
La polis nacque nel corso dei secoli oscuri. Omero, nell’Iliade (Ρ), cita delle città, ma non si può dire che esse siano delle poleis. L’unica prova concreta in nostro possesso risale all’VIII secolo a. C. ed è legata alla fondazione di colonie in Occidente: esse venivano fondate per decisione della metropoli, la madre-patria, che organizzava la spedizione; ed erano, fin dall’inizio, delle poleis. Il che significa che la polis doveva esistere già da parecchio tempo: da quanto, è impossibile dirlo. La più antica iscrizione riguardante una polis risale al VII secolo a. C. ed è stata rinvenuta a Creta: essa contiene la formula ”è stato deciso dalla polis” e riguarda il divieto di ricoprire per due volte la stessa magistratura prima che siano trascorsi 10 (iscrizione di Dero).
Legata alla nascita della polis, sempre nell’VIII secolo a. C., è l’introduzione della moneta, attuata –secondo la tradizione – dal tiranno Fidone di Argo. Fino ad allora, si era praticato in prevalenza il baratto, cioè lo scambio di determinate merci con altre merci. A volte erano stati usati come mezzi di scambio – con una funzione,cioè, premonetaria – armi e utensili di metallo pregiato: lo sappiamo perché gli archeologi hanno rinvenuto spade, lance ecc. che non sono mai state affilate, e quindi mai usate in combattimento: evidentemente la loro destinazione era diversa. La moneta vera e propria esisteva già da tempo in Oriente: è proprio dall’Asia Minore – le cui coste, nel corso del Medioevo greco, erano state colonizzate dai Greci – che essa venne importata in Grecia.
Ma quando ci occupiamo di monete antiche, si faccia attenzione a un dato importante: per noi moderni la moneta ha un valore puramente nominale, di per se stessa è solo un pezzo di carta o di metallo di scarso pregio. La moneta antica, invece, aveva un valore reale, il valore, cioè, dei metalli di cui era fatta. Si trattava, di solito, di una lega di oro e di argento con il rame o con altri metalli meno pregiati (l’oro e l’argento, da soli, non si possono lavorare). Particolarmente pregiato era l’elettro di Sardi, un “miscuglio” di oro e argento che in Asia esisteva allo stato naturale, e che altrove, invece, veniva realizzato artigianalmente. Il valore della moneta, dunque, dipendeva dalla quantità di metallo pregiato che conteneva. Quando veniva svalutata, si diminuiva la quantità di metallo pregiato contenuto nella lega.
Ma la moneta non aveva un’importanza esclusivamente economica: essa era l’emblema della polis. Solo la polis aveva il diritto – esclusivo – di coniarla. Su di essa veniva inciso il simbolo della città: ad esempio, sulle monete di Siracusa era raffigurata la testa della ninfa Aretusa circondata dai delfini; su quelle di Selinunte era raffigurato il sedano, la pianta (selinous) da cui la città prendeva il nome, sulle monete di Gela il toro, e così via. In particolari occasioni – una vittoria, un evento rilevante nella vita della polis – venivano coniate monete particolari, che celebravano e commemoravano l’avvenimento (un po’ come succede oggi con i francobolli): le monete, insomma, sono oggi una fonte importante per ricostruire la storia di una città. La scienza che studia le monete antiche si chiama numismatica.
Ma l’introduzione della moneta non è rilevante solo dal punto di vista archeologico – antiquario: essa pone dei problemi cruciali, la cui soluzione condiziona l’interpretazione di tutta la storia successiva. Qual è il ruolo e il significato che la moneta assume nell’economia della Grecia Antica? Questa è la domanda fondamentale alla quale gli storici odierni cercano di dare risposta.
Secondo la tesi tradizionale, ancor oggi dominante, e risalente allo storico Meyer (fine Ottocento – primo Novecento), l’introduzione della moneta segna una svolta cruciale nella storia greca. Sono fenomeni ad essa connessi:
- La ripresa del commercio, dopo la parentesi dei “secoli oscuri”
- Lo sviluppo degli scambi tra colonie e madrepatria
- L’inizio di un’economia monetaria destinata ad affiancarsi a quella agraria, che nell’VIII sec. a. C. è in crisi, e ad assumere un ruolo preminente nei secoli successivi.
Lo sviluppo dell’artigianato è condizionato e stimolato dal movimento colonizzatore, che gli offre nuovi mercati. La fioritura dell’artigianato e del commercio, a loro volta, provocano l’emergere di una classe media, il δῆμος, costituito appunto da artigiani, commercianti, marinai. Questa classe, dotata di spirito di iniziativa e capacità imprenditoriale, diventa la principale antagonista dell’antica aristocrazia terriera e l’artefice delle successive trasformazioni in campo economico, politico, e culturale.
Questa teoria – che a me pare in larga misura condivisibile, perché fornisce un’interpretazione convincente dei fenomeni dell’età arcaica e classica – è oggi discussa e ridimensionata da alcuni studiosi ( Will e Vidal – Naquet sono i più famosi) i quali sottolineano l’importanza preminente dell’agricoltura nell’antica Grecia, anche dopo l’introduzione della moneta, e attribuiscono alla moneta un ruolo più etico che economico: Essa sarebbe – almeno in origine – espressione dei valori della polis, dello spirito comunitario che lega tra loro i cittadini, più che un mezzo di scambio puro e semplice. Essa nascerebbe, quindi, nell’ambito delle relazioni sociali più che in quello economico: lo proverebbe il fatto che, nelle emissioni di molte città, mancavano le monete di scarso valore, gli spiccioli insomma, quelli che avrebbero dovuto facilitare il piccolo commercio locale. Non è questa, comunque, la sede per discutere di questa tesi. Preferisco riportare qui – sia pure in forma problematica – la tesi classica e più largamente condivisa del Meyer. Del resto la storia antica – come qualsiasi altra disciplina – non può mai essere considerata come un sapere acquisito in modo definitivo: la ricostruzione del passato è sempre precaria e provvisoria. Una nuova scoperta, l’emergere di nuovi dati possono rimettere tutto in discussione e indurci a ripensare e a riorganizzare tutto ciò che crediamo di sapere.

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L’OTTAVO SECOLO

2) L’OTTAVO SECOLO- L’ARCAISMO
(secoli VIII-VI a. C.)
L’ottavo è un secolo – cerniera, che funge da “spartiacque” tra il “medioevo” e l’età arcaica della storia greca (secoli VII – VI a. C.). E’ un periodo di crisi economica e di profonde tensioni sociali, che sfociano nel secondo grande movimento colonizzatore, ai quali sono in vario modo connessi alcuni eventi cruciali:
a) Le prime testimonianze sull’esistenza della polis
b) L’introduzione della moneta
c) La redazione di leggi scritte e l’affermazione di legislatori e tiranni
d) L’introduzione dell’alfabeto fonetico (a ogni suono corrisponde un segno)
e) La fioritura dell’arte geometrica e la ” nascita del tempio greco” (v. scheda sull’argomento).

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Dal Medioevo greco All’Arcaismo

STORIA GRECA: 1) DAL MEDIOEVO GRECO ALLARCAISMO

Nel corso dei “secoli oscuri” (XI – IX a.C.), conclusasi la fase delle migrazioni, le varie genti avevano trovato il loro assetto definitivo. La società era radicalmente mutata: il mondo miceneo era ormai solo un ricordo lontano, che forniva materiale leggendario ai canti degli aedi. Proseguiva, però, l’espansione – iniziata dai Micenei – sulle coste dell’Asia Minore. Non si trattava più, però, di semplice ricerca di scali commerciali, ma della fondazione di colonie stabili (apoikiai), con un ampio retroterra: esse costituivano un importante tramite culturale tra Oriente e Grecia. Fu, probabilmente, in questo lungo lasso di tempo che dall’originaria “biforcazione” tra dialetto dorico arcaico e dialetto miceneo si differenziarono i dialetti storici: l’eolico, lo ionico – attico, affine per molti aspetti al miceneo, l’acheo – che del miceneo era la diretta prosecuzione – e il più conservativo dorico, distinto nella variante nord – occidentale e in quella meridionale (è questa la tesi di Chadwick). Quindi nelle colonie greche dell’Asia Minore si distinse tra Eolide (a nord), Ionia (al centro) e Doride (al sud); mentre, nella Grecia continentale e nelle isole, la distribuzione dei dialetti (v. cartina) rispecchia, probabilmente, i complessi esiti delle migrazioni interne verificatesi tra il XII e XI sec. a. C.). Fu, però, nel campo politicoche il medioevo greco produsse le sue innovazioni più rilevanti: l’”invenzione” della polis (v. scheda) e il declino delle monarchie di tipo omerico, sostituite dovunque da regimi aristocratici.
Già nei poemi omerici possiamo notare la posizione, piuttosto precaria, del βασιλεύϛ : essa non rispecchia affatto la realtà storica dell’epoca micenea, che si vorrebbe rappresentare. Né Agamennone, né Odisseo, e nemmeno lo stesso Zeus sono dei Ϝάνακτεϛ: Agamennone viene insultato e minacciato da Achille, che si reputa, non a torto, suo pari, ma non solo: anche il plebeo Tersite lo attacca pubblicamente, rinfacciandogli esattamente le stesse cose di cui lo accusava Achille. Odisseo a fatica e con grave rischio personale riconquista la sposa, la casa e i beni che i turbolenti aristocratici delle isole Ionie gli insidiavano, ben decisi a non cedere né di fronte alle legittime pretese dell’erede Telemaco,né di fronte a un eventuale ritorno dell’eroe, e disposti a ricorrere persino al delitto … Lo stesso Agamennone – come ci testimonia il mito – al suo ritorno a Micene cade vittima di una congiura di palazzo, ordita dalla moglie e dal cugino Egisto (un principe della sua stessa stirpe, dunque). I miti contengono un nocciolo di verità storica: probabilmente Agamennone, Odisseo, ecc. non sono mai esistiti. Ma è certamente vero che, alla fine dell’età micenea e nel corso dei secoli oscuri la regalità è dovunque insidiata – e poi sopraffatta – dall’aristocrazia, che ne eredita i poteri e le prerogative, distribuendoli tra quei magistrati – tutti di estrazione aristocratica, ovviamente – che alle soglie dell’età arcaica troviamo al governo delle poleis. Questi aristocratici sono i grandi proprietari terrieri (“grandi” nel senso che detengono la maggiore estensione dello scarso terreno coltivabile: come è noto, la Grecia, per la sua configurazione fisica, non dispone di grandi pianure) e gli allevatori dei ghene e degli oikoi (cioè delle grandi famiglie e delle casate nobiliari): turbolenti, orgogliosi, animati da un forte senso di appartenenza a una classe sociale di “origini divine o eroiche”, da un fortissimo senso di indipendenza, per nulla disposti a sottostare ad un’autorità estranea a loro, e ancor meno disposti a subordinare i loro interessi o le loro aspirazioni a quelli della collettività. Così, alle sue origini la polis è spesso un “club” di nobili, gelosi della loro libertà, fieri di non dover sottostare a nessun re, “uguali” tra loro. Il popolo e i contadini stanno ai margini, sono esclusi da ogni decisione politica, guardati con diffidenza e disprezzo dagli aristocratici. Fin dalle origini, dunque, la polis si fonda su un’esclusione; e la sua storia è contrassegnata da lotte infinite per l’inclusione di sempre più numerose categorie sociali nella categoria di cittadini di pieno diritto.