UPGC Presentazione della commedia di Aristofane “Ecclesiazuse”

ARISTOFANE: Le donne all’assemblea (Ecclesiazuse)

Quando mette in scena questa commedia, la penultima tra quelle a noi pervenute, cioè nel 392 a. C. , Aristofane si avvia alla conclusione della sua carriera poetica e della sua vita (morirà pochi anni dopo, presumibilmente nel 385). Il “secolo d’oro” di Atene è ormai tramontato. La città è stremata da decenni di guerra (la trentennale guerra del Peloponneso contro Sparta), umiliata dalla potente rivale, logorata da sconvolgimenti interni (due colpi di stato, la sanguinaria dittatura dei Trenta Tiranni, la guerra civile per il ristabilimento della democrazia, con il suo strascico di rancori e di vendette … ). All’alba del IV secolo essa tenta, faticosamente, di riconquistare l’antico splendore, in un quadro politico generale profondamente mutato, caratterizzato da un perenne stato di guerra tra le poleis per l’affermazione di un’egemonia che nessuno più è in grado di esercitare, e dall’interventismo della Persia, che attizza le rivalità intestine tra le città greche, per affermare meglio i suoi interessi . Insomma, la crisi della polis è ormai inarrestabile, e la sua vicenda storica si concluderà, negli ultimi decenni del secolo, con l’avvento della monarchia macedone.
Il teatro, profondamente legato alla vita della polis, ne condivide la sorte: la grande tragedia classica è morta insieme ai suoi massimi rappresentanti, Euripide e Sofocle ( tra il 406 e il 405); la commedia antica, (Arkhaia), fondata sulla satira politica e culturale, con la scomparsa dei suoi principali bersagli polemici (Cleone, Euripide, Socrate …) ha ormai perduto mordente, tende a staccarsi dall’attualità, a rifugiarsi nel mondo dell’utopia, dando inizio a quella evoluzione che, attraverso la fase intermedia della Mese (la commedia di mezzo) sfocerà nella nuova (Nea) commedia borghese di Menandro.
In effetti, Le Ecclesiazuse è una commedia diversa dalle altre: in primo luogo, perché manca la parabasi (letteralmente: “marcia da vicino”) che è un elemento caratterizzante della commedia antica, e poi perché i riferimenti all’attualità sono ridotti al minimo (si limitano a battute beffarde nei confronti di personaggi minori). Essa dà l’avvio a quella “seconda maniera” di Aristofane che noi conosciamo poco e che prelude ai successivi sviluppi del teatro “comico” greco. Eccone, in sintesi, l’argomento:
E’ l’alba. Entra in scena, travestita da uomo, Prassagora, che ha convinto le altre donne di Atene a realizzare un audace progetto politico: prendere il potere, togliendolo ai maschi, che si sono rivelati incapaci di gestirlo , amministrando lo stato nel modo peggiore che si possa immaginare: guerre,squilibri sociali, corruzione, dissesto economico … ben presto si riuniscono intorno a lei le donne del coro, in abiti maschili e camuffate con barbe posticce. Così travestite, andranno in assemblea per far approvare – in modo legale- la loro audace riforma. Davanti a loro Prassagora tiene, per prova, il discorso che ha preparato: si tratta di una divertente parodia di orazione politica, in cui viene enunciato un programma rivoluzionario, che prevede l’instaurazione del comunismo. Dopo aver preso gli opportuni accordi, le donne escono per recarsi all’ecclesia.
Entra in scena Blepiro, il marito di Prassagora, ridicolmente acconciato in abiti e calzature femminili (il giallo è colore tipico da donna, nell’antica Grecia, come lo è per noi il rosa): spinto da un urgente bisogno corporale a uscire di casa, non ha più trovato né il suo vestito, né le sue scarpe, inspiegabilmente scomparsi insieme a sua moglie ed è stato costretto a utilizzare quelli di Prassagora. Dopo un breve, buffo dialogo con un vicino di casa, che si stupisce nel vederlo conciato in quel modo, e lamenta la stessa “misteriosa” sparizione di sua moglie e dei suoi indumenti, Blepiro , che ha problemi di … evacuazione, leva i suoi lamenti, invocando persino Ilizia, la dea del parto. Torna dall’assemblea Cremete, un altro vicino, con una notizia sensazionale: l’assemblea ha deliberato di dare tutto il potere alle donne. Dopo un breve intermezzo corale, rientra Prassagora, la quale fa credere al marito di essere uscita all’alba per assistere un’amica durante il parto, e finge di apprendere da lui ciò che ha deliberato l’assemblea. Ma quando Blepiro comincia ad enunciare le nuove leggi, messa da parte ogni esitazione, Prassagora espone la sua riforma, che prevede il comunismo dei beni, degli uomini e delle donne (con l’abolizione, di fatto, della famiglia e della proprietà privata): essendo tutto comune, non ci saranno più squilibri sociali, né motivi per delinquere, né cause di conflitto. Tutti hanno uguali diritti e uguali doveri, o meglio, i maggiori oneri di gestione dello stato e di ciò che prima era il privato, spetteranno alle donne. Agli uomini toccherà una “vita beata”, senza preoccupazioni di sorta, perché a tutto penseranno le donne: banchetti, feste e “libero amore” saranno le loro uniche attività (il che significa che si è verificato – sia pure solo a livello immaginario – un radicale rovesciamento della prospettiva tradizionale: gli uomini, presentati nell’espletamento delle loro funzioni più “corporali” e animalesche, sono ridotti alla loro funzione riproduttiva. Come stalloni, insomma). E, dato che tutti hanno uguale diritto al piacere sessuale, i giovani belli e aitanti non potranno fare l’amore con la loro donna, se prima non avranno soddisfatto anche una donna vecchia e brutta, e lo stesso vale per le ragazze attraenti, che avranno l’obbligo di “accontentare” le voglie di un uomo brutto e vecchio, prima di andare col loro innamorato … Anche se esposta in forma comica, con dei risvolti paradossali, l’utopia del comunismo dei beni e dell’abolizione della famiglia era tutt’altro che peregrina: se ne discuteva da tempo, era – come si suol dire – “nell’aria”. Già un tale Falea di Calcedonia l’aveva ipotizzata. Ma sarebbe stato il grande Platone, pochi anni dopo, a teorizzarla compiutamente (Repubblica e Leggi).
Dopo le iniziali perplessità, Blepiro e Cremete sono conquistati dalle idee rivoluzionarie di Prassagora. Blepiro è fiero di essere il marito della leader … (ancora il consueto rovesciamento dei ruoli: di solito era la donna “del capo”a essere fiera della sua posizione di “gloria riflessa”). Il coro esegue una breve danza, che fa le veci della parabasi (che si sarebbe dovuta trovare a questo punto) dopo di che tutti escono di scena.
Nella Commedia Antica, alla parabasi seguiva l’Agone tra due personaggi del coro che sostenevano tesi opposte. Qui , invece dell’agone troviamo un buffo dialogo tra l’entusiasta Cremete, che si affretta a raccogliere tutti i suoi averi per consegnarli e metterli in comune, e uno scettico, che non intende consegnare un bel nulla, e prima vuole vedere che faranno gli altri, e inventa ogni pretesto per tenersi la sua roba. La discussione è interrotta dall’arrivo di una donna – araldo che invita tutti al banchetto comune, già pronto. I due uomini si avviano a godere dei vantaggi del nuovo ordinamento, anche l’uomo che non ha voluto contribuire per nulla alla “ricchezza comune”, felice di “scroccare” allo stato il più possibile.
Ora la scena cambia: alla finestra c’è una vecchia imbellettata, che attende con ansia l’arrivo di qualche giovanotto. Alla finestra di fronte, una ragazza aspetta il suo innamorato. C’è uno scambio di battute salaci e piuttosto velenose tra le due donne, quindi, al sopraggiungere del malcapitato, la vecchia impone l’osservanza delle nuove leggi. Ma appaiono improvvisamente altre due vecchie, l’una più brutta e ripugnante dell’altra, che accampano i loro diritti di precedenza … il povero giovane conteso potrà andare dalla sua amata solo avere soddisfatto le megere …
Mentre il poveretto esce di scena, trascinato via dalle sue “rapitrici”, arriva un’ancella ubriaca, che torna dal banchetto e, per ordine di Prassagora, va in cerca di Blepiro, l’unico che non ha ancora pranzato. Trovatolo, lo invita al banchetto comune insieme alle ragazze del coro. Intanto la corifea si rivolge al pubblico e in particolare ai giudici ( si tenga presente che la commedia partecipava ad una gare tra cinque concorrenti, tra le quali i giudici dovevano scegliere la vincitrice) esortandoli ad assegnare la vittoria alle Ecclesiazuse (anche l’invito ai giudici di gara e la polemica contro gli altri commediografi tradizionalmente facevano parte della parabasi). Infine l’ancella invita tutti allo straordinario banchetto in cui verrà servito un fantastico manicaretto fatto con gli ingredienti più assurdi e disparati (come se noi volessimo servire ai nostri ospiti una torta di cioccolato, salsicce, vongole e pesce alla griglia … ) e tutti si avviano intonando un canto dionisiaco.
Secondo la maggior parte degli studiosi, Aristofane vuole mettere in ridicolo il comunismo e le donne. Io non ne sarei così certa. Sicuramente la commedia antica si fonda sulla satira e la ridicolizzazione di chi sta al potere. Obiettivo principale del poeta comico è far ridere. Ma Aristofane ha un atteggiamento ambivalente nei confronti dei bersagli delle sue canzonature: prende in giro Euripide, ne fa la parodia … e lo imita. Beffeggia violentemente Socrate ( non poteva prevedere che trent’anni dopo le sue burle avrebbero fornito argomenti ai suoi uccisori), ma, nei dialoghi platonici, lo vediamo interloquire tranquillamente con il filosofo, e sostenere tesi non troppo distanti dalle sue. Certo, il potere delle donne e il comunismo sono utopie presentate nei loro risvolti comici … non diversamente da quanto accade, ad esempio, negli Uccelli. Ma è come se il Poeta, stanco e amareggiato dalla negatività del suo presente, volesse rifugiarsi nell’utopia, con la pessimistica consapevolezza, però, che ogni regime finisce inevitabilmente per guastarsi, e trasformarsi in un nuovo stato di servitù. Il fantasioso manicaretto finale non è, in definitiva, che il simbolo dell’ irrimediabile guazzabuglio della storia umana.
Lucia Cutuli

UPGC A proposito del teatro comico dell’antica Grecia

Al primo approccio, la commedia greca antica – quella di Aristofane, per intenderci: è lui l’unico autore a noi noto – colpisce lo spettatore/lettore per una serie di motivi: In primo luogo, per l’oscenità e la crudezza del linguaggio e le continue allusione alle parti basse dell’anatomia umana, e alle loro funzioni; per la maggiore libertà compositiva di cui gode l’autore comico rispetto a quello tragico, per la scarsa organicità della trama in confronto a quella della tragedia; infine per la disinvolta violenza degli attacchi contro i personaggi più in vista della politica e della cultura (tanto che, a volte, quando si tratta di personaggi a noi poco noti, non sempre ci riesce facile capire le allusioni e le battute), e per l’irriverenza persino verso gli dei.
Questi caratteri, a prima vista “strani” diventano comprensibili se prendiamo in considerazione le origini della commedia e la funzione che essa svolgeva nella polis.
Come apprendiamo da Aristotele (Poetica IV) la commedia era nata dalle processioni falliche (falloforie) e dai riti in onore di Dioniso: dal κω̃μος (l’allegra baldoria delle feste dionisiache) deriverebbe il nome della commedia stessa. Della processione possiamo avere un’idea precisa perché, negli Acarnesi, una delle più antiche commedia di Aristofane a noi giunte, il protagonista, Diceopoli, per festeggiare la pace da lui privatamente stipulata con Sparta, ne organizza una di tipo familiare : precede sua figlia in funzione di canefora, cioè di colei che porta il cesto con le primizie da offrire al dio; seguono due schiavi, che reggono un enorme fallo (raffigurazione del sesso maschile, simbolo di fecondità e prosperità). Chiude il corteo lo stesso Diceopoli, in qualità di sacerdote, con una pentola in mano, mentre sua moglie funge da pubblico, affacciata dalla terrazza. Ed ecco l’invocazione che Diceopoli, dopo avere intimato il silenzio rituale, rivolge al dio: “O Dioniso mio signore, ti sia gradita questa processione che io, con i miei, conduco in tuo onore dopo aver sacrificato, celebrando felicemente le Dionisie agresti … O Fales (personificazione della potenza generatrice della natura, dio compagno di Dioniso), amico di Bacco e suo compagno di bagordi, nottambulo adultero e amatore di bei ragazzi, dopo cinque anni, tornando felicemente al mio villaggio, ti saluto, dopo avere stipulato per mio conto una tregua, ed essermi liberato dai guai, dalle battaglie e dai Lamachi (Lamaco era un famoso generale sbeffeggiato da Aristofane). Certo, è molto più piacevole, incontrando la procace schiava di Strimodoro che torna, con un fascio di legna rubata, dalla cava, sollevarla prendendola per la vita, gettarla a terra e … farsela! O Fales, o Fales, vieni a bere con noi, e, dopo la baldoria, all’alba, berrai una coppa di pace; e lo scudo resterà appeso al focolare”.
Come si può notare, la concezione dell’osceno dei moderni è distante migliaia di anni luce da quella degli antichi: Fales, la personificazione del fallo, è un dio. E tutto ciò che riguarda la sfera del sesso, e il corpo umano “dalla cintola in giù” con il comico, che ad esso è associato, è sacro e fa parte di un rituale religioso.
Che il sesso e il riso derivante dal riferimento ad esso abbiano funzioni propiziatorie è convinzione antichissima di tutti i popoli, presso tutte le latitudini, come ci attestano l’archeologia, il mito e il folclore: basta visitare un museo, nella sezione preistorica: si noteranno, nelle tombe (almeno dal neolitico in poi) in mezzo al corredo funebre del defunto, degli oggetti fittili che le guide, pudicamente, definiscono “cornetti”, spesso associati a uno strato di ocra rossa sparso sui resti: sono gli antenati dei nostri cornetti rossi contro il malocchio, e simboleggiano la vita e la rinascita dopo la morte(c’è bisogno di ricordare che non si tratta proprio di cornetti?.. O che i cornetti simboleggiano altro?). I popoli italici – e i Latini – in occasione di certe feste della fecondità, avevano l’usanza di fare l’amore nei campi appena seminati. E la fiaba russa di Nesmejana, la principessa che non sorrideva provocando il declino del suo popolo, ribadisce il legame tra fecondità – benessere – sorriso – sesso. Nel mito greco, Demetra, afflitta per il rapimento della figlia, non ride più: e la terra è preda di un perpetuo inverno, sterile e triste. E allora è la vecchia Baube a risolvere la situazione: si alza le vesti in un comico movimento di danza, mostrando quelle parti del corpo che di solito restano nascoste. Demetra scoppia a ridere: e il sole torna a brillare sulla terra, e ricomincia il ciclo della vita. I soldati romani, mentre seguivano il loro generale nella cerimonia solenne del trionfo, lo facevano oggetto di beffe salaci (“ Ecco, ora trionfa Cesare, che sottomise le Gallie; ma non trionfa Nicomede, che “sottomise” Cesare”). Come si può notare, noi moderni , con i nostri cornetti portafortuna e certi gesti “volgari” contro la sfortuna, siamo lontani dai nostri remoti antenati solo in apparenza …
Associato al linguaggio scurrile è l’attacco, spesso pesante, contro i personaggi più in vista nel campo della politica e della cultura. Se il poeta tragico Euripide, il politico Cleone e il filosofo Socrate sono i bersagli preferiti del sarcasmo di Aristofane, non bisogna però dimenticare una folla di personaggi minori della cronaca cittadina del V secolo, sbeffeggiati per le loro disonestà, per i loro difetti, per i loro comportamenti sessuali … la commedia antica, insomma, è all’origine della satira politica, per sua natura rivolta contro chi sta al potere o comunque in una posizione di prestigio.
Anche per questo aspetto può essere illuminante la notizia – sempre riferita da Aristotele nella sua Poetica,- la quale, purtroppo, è molto lacunosa proprio nella parte dedicata alla poesia comica – , che i Dori rivendicavano l’invenzione della commedia: essa sarebbe stata etimologicamente connessa non al Komos, cioè alla festa e alla baldoria dionisiache, ma a κώμη, villaggio, e in particolare all’usanza dei contadini e di coloro in genere che erano scontenti per avere subito prepotenze e torti dai potenti (o degli attori comici, disprezzati in città), di andare in giro per i villaggi di campagna, travestiti e con il viso imbrattato di feccia per non essere riconosciuti, denunciando i soprusi e le ingiustizie di cui erano stati vittime e beffeggiando i potenti. Certamente, anche se l’etimologia più corretta (per Aristotele come per noi) è quella che fa derivare “commedia” da κω̃μος, bisogna ipotizzare, per questo genere teatrale, un’origine composita, costituita da vari apporti: tra questi, un ruolo molto rilevante ebbe quello dei “comici” siciliani, come Epicarmo, e altri di cui non conosciamo che il nome. In origine la commedia doveva essere costituita dai cori delle feste dionisiache che indossavano bizzarri costumi a volte animaleschi, con buffe imbottiture sul sedere e sulla pancia, e con falli finti di dimensioni spropositate. Da rozzi primitivi contrasti tra semicori ebbero origine gli agoni, e, probabilmente, le parti dei singoli attori. Anche la tragedia , che, come genere “teatrale” ufficiale è più antica della commedia ( l’introduzione dei concorsi comici nelle feste dionisiache avvenne nel 486 a. C., circa 50 anni dopo l’istituzione degli agoni tragici) influì in modo rilevante su quest’ultima. I vari episodi – che, però, erano meno “costruiti” di quelli tragici, più liberi, meno legati gli uni agli altri, sono senz’altro dei “prestiti” del dramma serio, come pure l’alternanza tra parti corali e recitazione, l’introduzione del prologo e della parodo, la caratterizzazione linguistica, cioè l’attico dei personaggi e il dorico dei cori …)
Ma anche la poesia giambica del VII-VI secolo a. C. (Archiloco e Ipponatte) con la virulenza dei suoi attacchi personali, con la sua estrema libertà di linguaggio, che varia dal registro elevato a quello basso e scurrile, con la sua disinvoltura nei discorsi di argomento sessuale, può avere contribuito in misura significativa alla nascita della commedia. Così pure il teatro siceliota nelle sue varie forme, e in particolar modo quello del megarese Epicarmo. Ma il dramma antico – sia quello tragico che quello comico – come fatto artistico rilevante è un fenomeno essenzialmente ateniese: forse perché ad Atene in modo più consapevole che altrove l’ascesa del demos fu legata ad una profonda rivoluzione culturale che produsse risultati straordinari in tutti i campi. Il teatro è legato strettamente alla polis (e Atene è la polis per eccellenza…) e infatti vive in simbiosi con essa e muore insieme ad essa (o le sopravvive di poco). Il teatro non è evasione o spettacolo: è rito e fatto politico. E’ uno dei momenti fondanti l’identità del popolo ateniese. La tragedia ha la funzione di rimettere in discussione il passato storico – mitico (che per gli antichi coincidono) e la cultura aristocratica che i Greci di età classica hanno ereditato dai loro padri. Il conflitto tra vecchio e nuovo codice etico, e tutte le lacerazioni ad esso legate, rendono la vita dell’uomo un enigma segnato dal dolore e dalla sconfitta. La commedia, all’opposto, ha la funzione di suscitare il riso, mediante la parodia e la deformazione caricaturale di tutti quegli eccessi, quei comportamenti, quelle scelte personali e politiche che portano la città alla rovina. Questo, in una sintesi essenziale anche se riduttiva, è il senso e la funzione del teatro classico. Non a caso, la tragedia muore con Euripide e Sofocle, alla vigilia della caduta di Atene (404). La commedia ha una vita più lunga: quella Antica (Arkhaia), a noi nota esclusivamente attraverso le undici commedie di Aristofane a noi pervenute(ma i commediografi attivi ad Atene erano almeno una quarantina), fondata sulla satira politica e culturale, vive, come la tragedia, fino alla fine del V secolo (ma già le ultime commedia aristofanesche, come ad esempio le Ecclesiazuse e il Pluto, che è l’ultima, sono “diverse”); quella di mezzo (Mese) di cui non possediamo nulla, era basata soprattutto – pare – sulla parodia mitologica (del resto era stata emanata una legge che vietava di “onomastì komodein”, cioè di rivolgere beffe pesanti verso persone indicate per nome): la sua “vita” si estende dal 400 circa al 330 a. C.; e infine la Commedia Nuova (Nea), il cui massimo esponente è Menandro ( a noi noto perché ci sono pervenute alcune sue commedie quasi per intero e larghi frammenti di altre) con il quale la commedia vive una nuova stagione fortunata (fino al 260) per essere poi trasmessa ai Latini Plauto e Terenzio. Ma la commedia di Menandro è tutt’altra cosa rispetto a quella di Aristofane: castigata nel linguaggio e nelle situazioni, dramma borghese di individui, fondata su peripezie, riconoscimenti, equivoci, problemi nei rapporti di coppia e familiari, estranea alla politica, assai poco comica (la polis, del resto, è morta: prima Filippo e poi Alessandro, infine i Diadochi l’hanno sepolta, instaurando la monarchia), essa è diventata ormai spettacolo di intrattenimento, cessando di essere rito religioso e politico.
Lucia Cutuli

Le Baccanti : presentazione (U.P.G.C.2012)

Le  Baccanti di Euripide : trama

 

Quando Euripide scrive “Le Baccanti”, la sua vita volge al termine, e, insieme a lui, si avviano al tramonto la potenza di Atene e la tragedia stessa. Ultima espressione del dramma classico, Le Baccanti è un’opera inquietante, crudele, problematica, l’unica in cui sia presente da protagonista Dioniso, ispiratore e “creatore” del teatro antico.

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Presentazione de “Le Baccanti” di Euripide

Euripide, Le Baccanti: trama

 

 

“Le Baccanti” è un dramma singolare: ultima tragedia di Euripide (composta nel periodo del suo soggiorno in Macedonia, cioè tra il 408 e il 406 a. C.) fu rappresentata, postuma, dal figlio dell’autore, in un’Atene ormai stremata dalla pluridecennale guerra contro Sparta, lacerata da contrasti e pervasa da profonda inquietudine. Ultima espressione del teatro antico a noi pervenuta, essa è anche, per uno strano paradosso, l’unica tragedia  in cui sia presente, da protagonista, il dio ispiratore della tragedia stessa, Dioniso.

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Osservazioni sull’Ifigenia

Osservazioni sull’ Ifigenia in Aulide

A differenza dell’Ifigenia in Tauride, composta verso il 412 – 11, grosso modo, nello stesso periodo dell’Elena, l’Ifigenia in Aulide appartiene alla fase macedone, conclusiva dell’attività e della vita di Euripide (in verità, alcuni ritengono che essa sia l’ultima tragedia composta ad Atene. Ma gli indizi sul luogo di composizione sono piuttosto fragili, e la questione a me sembra del tutto irrilevante). Tanto che l’Autore non la mise mai in scena, come, del resto, accadde per le Baccanti. Come sappiamo, egli lasciò Atene nel 408 a. C., stanco del difficile rapporto con i suoi concittadini, e si trasferì alla corte di Archelao, sovrano – mecenate della Macedonia, dove morì tra la fine del 407 e l’inizio del 406: ne siamo certi, perché nel proagone del 406 Sofocle si presentò in abiti di lutto per onorare la memoria di Euripide, morto di recente. Fu suo figlio, o suo nipote, a mettere in scena, postume, sia l’Ifigenia sia le Baccanti, insieme alla perduta Alcmeone a Corinto, di cui conosciamo poco più che il titolo: una tragedia “leggera” probabilmente, basata sugli espedienti dell’intrigo, della peripezia e dell’anagnorisis (riconoscimento), come nello Ione, nell’Elena, nell’Ifigenia in Tauride; quegli espedienti, cioè, che anticipano la Νέα; dramma forse destinato ad attenuare l’impatto che due tragedie dure, crudeli, cariche di interrogativi angosciosi dovevano avere sul pubblico. Sia nell’Ifigenia in Aulide che nelle Baccanti non ci sono eroi del tutto positivi. Non c’è più spazio per gli affetti familiari, né per la giustizia, né per la pietà. Se si applicassero alle tragedie greche le stesse categorie che usiamo per definire i film, dovremmo catalogarle nel genere “noir”. Dominano sovrani l’ambizione, l’interesse personale o di gruppo, l’arrivismo cinico dei politicanti di mestiere, la meschinità … e, per contro, i personaggi “ingenui” sono caratterizzati da una certa fragilità di fondo, dalla tendenza a divenire vittime, prima ancora che della violenza altrui, di pregiudizi e “valori” acriticamente accettati che li portano all’esaltazione e alla follia. E all’autodistruzione. Si tratta di due tragedie diversissime tra loro. Non sappiamo nemmeno se nelle intenzioni del Poeta dovessero far parte di un’unica trilogia. Eppure … siamo proprio certi che non abbiano nulla in comune, soprattutto nelle problematiche di fondo? E se facessero parte di un unico “discorso” estremamente inquietante e “urticante” del Poeta più scomodo per gli Ateniesi di quegli anni tumultuosi?
Si discute sull’autenticità del prologo dell’Ifigenia: alcuni lo ritengono spurio. A me personalmente sembra bellissimo, con quel contrasto tra la pace della natura e il tormento interiore di Agamennone: se non dovesse essere di Euripide, dovremmo credere che il suo continuatore (suo figlio? Suo nipote?) fosse veramente un grande poeta. La parte finale dell’esodo, invece, è sicuramente scritta da altri. Forse, addirittura, è stata aggiunta da uno scrittore bizantino. Il finale euripideo (ammesso che l’Autore l’abbia davvero scritto) doveva essere costituito, verosimilmente, dall’apparizione di Artemide, “dea ex machina”, che rivelava il prodigioso salvataggio della protagonista, sostituita in extremis da una cerva, e il suo altrettanto prodigioso trasferimento nel santuario della dea, di cui sarebbe diventata sacerdotessa (vedi l’Ifigenia in Tauride, che, dal punto di vista dell’argomento, costituisce il seguito dell’Ifigenia in Aulide).
Ma dobbiamo chiederci: perché la tragedia ci è pervenuta incompleta? Poteva, quel tipo di finale, con il solito espediente del deus ex machina, soddisfare la volontà creatrice dell’Autore? Era mai stata davvero una soluzione a un dilemma senza sbocco l’apparizione del dio? O non si trattava, piuttosto, di un puro espediente teatrale tendente a “rassicurare” gli spettatori? E se fosse una scelta precisa del Poeta lasciare il dramma incompiuto? Nella tradizione mitica sono presenti entrambe le varianti: il sacrificio reale di Ifigenia (v. Parodo dell’Agamennone di Eschilo e delle tragedie in genere che riguardano il mito di Oreste) e il miracoloso salvataggio della fanciulla. Comunque si concludesse la tragedia, il finale è estremamente ambiguo. Non è un “lieto fine”. Clitemestra ha perduto sua figlia. Per sempre. E Ifigenia, anche se “salvata”, non vedrà mai realizzati i suoi sogni di “quel vago avvenire” che si attendeva (v. supplica al padre): non avrà una famiglia sua. Non conoscerà l’amore di un uomo, né l’esperienza della maternità (potrà davvero la gloria futura compensarne la mancanza?). Benché salvata in extremis, avrà una sorte poco invidiabile: quella di sacerdotessa e ministra dei riti selvaggi della dea. Le parole di Agamennone, poi, sono un capolavoro di cinismo e di ambiguità:”Possiamo essere contenti per nostra figlia: vive insieme agli dei” (il che può benissimo essere detto di una persona defunta”. Anche il racconto del messo è giudicato poco credibile da Clitemestra, null’altro che una pietosa menzogna consolatoria.
Non a caso, quando, una decina di anni fa, abbiamo messo in scena l’Ifigenia (la sezione H, Marco Longo e io) abbiamo eliminato il finale (ci sembrava poco convincente), e concluso il dramma nel modo più crudo: Ifigenia che si avvia al supplizio per mano del padre. Sacrificio empio e contro natura, come sottolineava giustamente Eschilo nell’Orestea. Rituali selvaggi (che purtroppo hanno un fondamento storico reale), vendette disumane, catene di crimini ai quali la polis democratica, allora nella sua fase “aurorale”, e l’affermazione del diritto avrebbero finalmente posto fine. Ai tempi di Eschilo, beninteso. Poco prima della metà del V secolo ( l’Orestea è del 458). Ma ai tempi di Euripide, un quarantennio dopo, nel corso di una interminabile guerra più che ventennale (di cui non si intravedeva la fine e il cui esito era piuttosto incerto), Atene, la polis per eccellenza, era in piena crisi, e non solo in campo politico – istituzionale (degenerazione della democrazia in demagogia, tentativi di restaurazione della patrios politeia), ma anche in quello socio- economico e culturale. Le disuguaglianze su cui era fondata la polis classica esplodevano. Prendiamo in considerazione i temi dominanti dell’ Ifigenia:
- Il tormento interiore di Agamennone, diviso – a suo dire – tra ragion di stato e amore paterno. Ragion di stato? O non, piuttosto, meschina ambizione personale, come gli rinfaccia suo fratello? In quanto a lui, Menelao, perché esige in modo così inumano il sacrificio della nipote? Per riprendersi Elena, certamente, per vendicarsi del suo tradimento. Ma è possibile considerare le donne e i figli – propri o altrui – come una proprietà privata di cui si può disporre secondo il proprio capriccio, o interesse, come se fossero puri oggetti? Fino al punto di sacrificare una fanciulla innocente per una moglie infedele?
- Il conflitto insanabile tra uomo e donna: che quello tra Clitemestra e Agamennone non sia stato propriamente un “matrimonio d’amore” è cosa ovvia. Anzi, esso è nato dalla violenza. Agamennone, nel corso di chissà quale mitico conflitto, ha brutalmente ucciso il primo marito e il figlioletto di lei. Quindi l’ha stuprata, come il vincitore era solito fare con le prigioniere di guerra (a proposito: il nome Ifigenia significa etimologicamente “generata con la violenza”). Poi sono intervenuti i Dioscuri, i divini fratelli della donna, e hanno avuto il sopravvento. Agamennone si presenta, in veste di supplice, al vecchio Tindaro, padre di Clitemestra, gli chiede pace, diventa suo alleato: il nuovo patto è sancito dalle nozze tra Agamennone e la sua “prigioniera”. Clitemestra obbedisce al volere paterno. Non ha mai amato Agamennone. Tuttavia gli perdona i precedenti delitti e la violenza subita, e cerca di essere una moglie irreprensibile. Sarà il sacrificio della figlia a fare esplodere il suo odio: il suo silenzio finale è carico di minaccia e lascia presagire gli eventi futuri.
- Infine, la rhesis finale di Ifigenia e il suo “patriottismo razzista”: i Greci sono “nati per comandare” e i barbari “per essere servi” Come spiegare la subitanea trasformazione della mite fanciulla in una “pasionaria” esaltata, sostenitrice delle tesi militaristiche e guerrafondaie che si affermavano ad Atene verso la fine del V secolo, e sarebbero state ampiamente riprese nel dibattito politico del IV?
Che i “barbari” (cioè, principalmente, i popoli asiatici e in particolare i Persiani) fossero uomini inferiori perché “schiavi” di un sovrano assoluto quasi – dio è un’antica convinzione greca. Vedi ad esempio I Persiani di Eschilo: la regina Atossa si stupisce del valore dei soldati ellenici perché, senza essere costretti dal timore di un’autorità superiore, sono disposti a rischiare la vita. – Ma è proprio per questo motivo, ribatte il messo, perché combattono da uomini liberi, per se stessi, per le loro famiglie, per la loro terra, che sono così “invincibili” – I Greci, che “non piegano le ginocchia davanti a nessun essere umano” sono gli unici uomini degni di questo nome. Gli altri sono servi per natura.
La posizione di Erodoto, che, grazie al suo “relativismo culturale”, mostra rispetto per il mondo, la cultura, le usanze dei “barbari”, resta abbastanza isolata nell’Atene classica. Il primo dei “padri della storiografia” può attribuire ai persiani Otane, Megabizo e Dario lo straordinario dibattito costituzionale sulla migliore forma di governo, e la loro libera e ragionata scelta della monarchia. Ma tra il popolo l’idea più radicata resta sempre quella dell’inferiorità naturale dei popoli asiatici.
Queste convinzioni e questi atteggiamenti sono rafforzati dalle vicende storico – militari dell’ultimo scorcio del V secolo, e lo saranno ancor più nel secolo successivo: da tempo le sorti della guerra del Peloponneso dipendevano dal sostegno della Persia (come aveva ben compreso Alcibiade). La Persia diventerà sempre più l’ago della bilancia nei primi decenni del IV secolo,, quando l’intera Grecia sarà perennemente dilaniata da guerre intestine per la supremazia. Alcuni sosterranno la necessità di allearsi con la Persia per assicurare ad Atene il primato sulle poleis rivali (Sparta in primo luogo). Altri, invece, come ISOCRATE, ribadiranno le antiche ragioni di inimicizia tra Greci e barbari, citando ed esaltando proprio Agamennone e la sua spedizione contro Troia, e la necessità di un’alleanza tra Atene e Sparta, e le poleis greche in genere, in funzione anti-persiana.
Dunque Ifigenia si fa sostenitrice di questa precisa scelta politica? O è solo un’adolescente plagiata dal padre? E’ questo il pensiero di Euripide, l’autore di tragedie come Le Troiane, l’Ecuba, l’Andromaca? No, naturalmente. Pensare che Ifigenia sia la portavoce delle idee dell’Autore è frutto di ingenuità critica. Tra il Poeta e le sue creature “fatte della materia di cui sono composti i sogni” (non bisogna dimenticarlo) c’è sempre una DISTANZA incolmabile: Euripide non “è” Ifigenia, per quanta tenerezza e compassione possa ispirargli il personaggio della vittima innocente. Non si identifica MAI con un singolo personaggio dei suoi drammi, e nemmeno con il coro, bensì, di volta in volta, ora con l’uno, ora con l’altro: è in tutti e in nessuno.
Del resto, CHI è Ifigenia? CHI Agamennone, Clitemestra, Menelao? La caratteristica più vistosa dei personaggi del dramma è la loro mutevolezza, o, per dir meglio, il ROVESCIAMENTO radicale dei loro atteggiamenti e del loro volere: Agamennone è deciso a sacrificare sua figlia per “ragion di stato”, perché costretto da Ananke, la Necessità; poi però decide di rimandare a casa moglie e figlia; poi di nuovo si convince dell’ineluttabilità del sacrificio (non l’ha mai sfiorato, però, il minimo dubbio sulla necessità, o almeno sull’opportunità di scatenare una guerra contro Troia: la ragion di stato coincide con la sua bramosia di potere e di un ricco bottino); Menelao esige il sacrificio con brutale egoismo, poi si pente e sostiene le ragioni degli affetti familiari; lo stesso Achille, che tra i personaggi è forse il più coerente, insieme a Clitemestra e al vecchio servo, dapprima si infuria perché il suo nome illustre è stato usato, a sua insaputa, per un meschino inganno. Sarebbe toccato a lui, semmai (qualora le sue nozze con Ifigenia fossero state reali) “fare dono” della sua sposa agli Achei (insomma per le donne non c’era scampo: se si salvavano dal padre, potevano essere tranquillamente ammazzate dal marito per “un gesto di cortesia” verso altri maschi). Poi, però, preso da ammirazione – e forse da un iniziale embrione di innamoramento per la fanciulla- è disposto a rischiare la vita per salvarla, solo contro tutti. Ma il rovesciamento più stupefacente è quello riguardante la protagonista stessa, che passa dalle lacrime e dalle suppliche accorate al padre, agli atteggiamenti e ai discorsi “eroici”, facendo sue le convinzioni razziste e guerrafondaie della società di quel tempo. Il mutamento repentino ha stupito diversi critici, che ricercano la coerenza come virtù positiva nei personaggi poetici. Ma in un mondo come quello di Euripide, in cui sono venute meno tutte le certezze, in cui tutto è fluttuante e problematico, direi che anche Ifigenia ha una sua coerenza interiore. Ifigenia è una ragazzina, un’adolescente (dobbiamo immaginarla sui 15 – 16 anni), non una donna adulta. Ha gli slanci e gli entusiasmi improvvisi – e la straordinaria abnegazione- di cui sono capaci, a volte, i giovanissimi (Euripide ne era ben consapevole: vedi Macaria, Meneceo …). I suoi affetti principali sono quelli familiari, il padre soprattutto, cui è particolarmente legata. Quel padre le ha presentato il suo sacrificio come inevitabile: altrimenti gli Achei si rivolterebbero contro di lui, lo ucciderebbero insieme alla moglie e agli altri figli. Una sorta di ricatto affettivo. Nello stesso tempo, lei sa che nella società dell’epoca le donne non contano nulla (“… è meglio che viva un solo uomo, piuttosto che moltissime donne”) e che la loro vita è irrilevante. Forse c’è anche un timido, pudico inizio di attrazione per il bell’Achille. Ma un uomo –un eroe- non deve rischiare la vita, o addirittura morire, per una donna. (Elena, che causa la morte di molti uomini, è un essere esecrabile). Sua padre, la persona a lei più cara, esige la sua morte. Il sacrificio spontaneamente accettato le assicurerà l’approvazione e l’ammirazione di suo padre, e gloria perenne tra gli Achei: morirà per il bene di tutti, sarà ricordata come un’eroina. Anche Achille l’ammira, pur giudicando la sua scelta come frutto di ἀϕροσύνη (una folle esaltazione). E allora è meglio morire. Per esistere almeno nella memoria delle persone care, che saranno salve grazie a lei. Per il bene di tutti, insomma. Allo stesso modo delle altre eroine euripidee.
La scelta e l’atteggiamento di Ifigenia sono l’espressione di uno dei nuclei problematici più rilevanti nel teatro euripideo: la condizione della donna nella società classica. Ogni personaggio femminile compie scelte diverse per sopravvivere in un universo dominato dai maschi. Ifigenia accetta totalmente i “valori” di quell’universo. Per esistere, paradossalmente, deve accettare di morire. Altrimenti cadrebbe nell’irrilevanza totale, il che, per un’adolescente, è intollerabile (almeno per quanto riguarda le persone a cui tiene maggiormente).
Gli dei, infine. Non mi pare che abbiano un gran ruolo, in questa tragedia. Nei racconti dei tardi mitografi è Artemide a imporre il sacrificio di Ifigenia per punire Agamennone dell’uccisione di una cerva a lei sacra. Nel dramma euripideo Artemide è citata come puro pretesto da Calcante (ma la categoria degli indovini è disprezzata ed esecrata dagli altri personaggi, tanto che Menelao suggerisce di ucciderlo). Nessuna vendetta divina, nessuna cerva. Tutto ciò che accade è determinato da ragioni umane, e anche decisamente squallide. Neanche nel (discusso) finale gli dei hanno un ruolo importante. La “dea ex machina” , ammesso che appaia in un finale autenticamente euripideo (che non abbiamo) non è che un espediente drammatico- narrativo che serve a rassicurare il pubblico (il quale ben conosceva il mito e la sua conclusione “positiva”. Il racconto del messo (assai scialbo e sicuramente tardo) e il breve, cinico commiato di Agamennone dalla moglie nulla aggiungono a quanto già si è detto. Del resto, Clitemestra mette in dubbio qualsiasi versione consolatoria.
Io preferisco pensare che Euripide abbia volutamente lasciato l’opera incompiuta. Probabilmente non ne poteva più. Atene gli stava ormai “stretta”. Doveva esplorare vie nuove. E il nuovo è la sua ultima tragedia, le Baccanti, “simmetrica”, per certi versi, all’Ifigenia, in cui vengono riprese, ma “a rovescio”, contrassegnate da segno inverso le tematiche già affrontate in quella.

Elettra di Sofocle: impressioni

ELETTRA DI SOFOCLE: IMPRESSIONI
A una prima lettura, l’Elettra di Sofocle suscita una vivissima impressione di “dejà vu”: non c’è parte della tragedia in cui non riecheggi una citazione, un motivo, un’espressione di altre tragedie, di Eschilo, di Euripide, dello stesso Sofocle (1). Come se l’Elettra fosse una “summa” in cui confluisce tutto – o quasi – il materiale mitico – letterario a cui attinge il teatro classico. A partire dal tema, che è il matricidio e la vendetta, tema centrale nell’Orestea di Eschilo – in modo particolare nelle Coefore – e nell’Elettra di Euripide; e poi la coppia antinomica Elettra/Crisotemi, che sembra riprendere quella Antigone/Ismene. Sembra: ma tra l’Elettra e l’Antigone c’è una differenza abissale. Così pure tra il dramma sofocleo e la tragedia di Eschilo che ha per oggetto lo stesso mito.
Dramma, non più tragedia. Perché la tragedia classica – come diceva Goethe, e come sostengono ancora i moderni (2) – è fondata su un dilemma insolubile, su un conflitto che non ammette composizione, o , se si preferisce, su una dialettica senza sintesi: una Dike contro un’altra Dike, un codice etico contro un altro. Due mondi in guerra, il passato aristocratico e il presente della polis. E gli “eroi” dell’uno o dell’altro ordinamento, di solito, ne risultano stritolati.
Nell’Elettra non c’è più alcun dilemma tragico, nessun interrogativo angoscioso sull’uomo e sul suo destino. Il matricidio non è più un problema etico che coinvolge uomini e dei. E’ solo lo sbocco finale di un odio e di una vendetta a lungo covati e alimentati. Senza tentennamenti, senza ripensamenti, né angosce. Come avviene di solito nelle opere di Sofocle, al centro del dramma si trova una personalità fuori dall’ordinario, che potremmo definire “rocciosa”: quella della protagonista, inflessibile nel suo odio (“Colpisci due volte!” grida al fratello che ha vibrato il colpo mortale sulla madre), impavida nella sfida a chi detiene il potere, determinata e spietata nella sua vendetta. Antigone affronta la condanna a morte, pur di dare sepoltura al fratello. Elettra è disposta a morire, pur di vendicare il padre e punire con la morte i suoi assassini, come prevede il codice etico aristocratico (3). All’affermazione di Creonte:” Un nemico, anche quando è morto, non può diventare amico” Antigone replica in modo lapidario: “Non per odiare, per amare sono nata” (4). Elettra, invece, sembra incarnare la vendetta e l’odio, portati alle estreme conseguenze, senza misura, anche se motivati dai gravi torti da lei subiti: è, per certi versi, la stessa situazione di Filottete, al quale l’eroina sembra, tra i personaggi sofoclei a noi noti, la più affine. Sofocle ha esaminato, nelle Trachinie e nel Filottete, gli effetti devastanti del dolore fisico sul corpo e sull’animo degli eroi (echi dell’esperienza traumatica della “peste”?); nell’Elettra è il dolore psichico il tema di fondo della tragedia; un dolore sconfinato e senza rimedio, che imprigiona la protagonista in una solitudine disperata: ha perduto le due sole persone che amava, il padre e il fratello; e anche quando quest’ultimo ricompare, vivo, le è ormai “estraneo”, distante anni luce dal suo mondo interiore: freddo calcolatore, capace di pianificare la sua azione con estrema lucidità, con l’obiettivo dichiarato di riappropriarsi del suo “regno” e dei suoi beni usurpati da Egisto e dai suoi fratellastri, e non solo di vendicare il padre ucciso; non a caso, l’incolmabile distanza tra fratello e sorella è messa in evidenza dal diverso modo di esprimersi dei due: in metri lirici Elettra, in trimetri giambici ( che è il metro più vicino alla prosa) Oreste (5). Odio e dolore sono i tratti peculiari dell’eroina. Non a caso, è lei a dominare la scena dall’inizio alla fine del dramma, o meglio, quasi dall’inizio (da quando, cioè, si sentono i suoi lamenti fuori scena) e fin quasi alla fine, quando, con l’uccisione di Egisto per mano di Oreste, essa, semplicemente, scompare. Una volta compiuta la vendetta, il dramma di Elettra ha fine, e la protagonista è diventata “superflua”. Né si fa cenno alla sua sorte futura. Irrilevante. La punizione degli assassini e il ritorno di Oreste non servono a ridarle felicità, o almeno certezza di una vita serena. E’ un finale solo in apparenza “positivo”, come quello del Filottete. La rimozione della causa principale di sofferenza non è un atto conclusivo: il percorso verso un difficile equilibrio è ancora lungo e tormentato.
Degna di particolare attenzione è la conclusione dell’opera, affidata, come di consueto, al coro. Di solito, i versi finali sono teatralmente “deboli”: riflessioni generiche sull’ineluttabilità del destino e sulla vita dell’uomo. In armonia, del resto, con il carattere tipico del personaggio – coro nelle tragedie di Sofocle, non più protagonista esso stesso, o espressione del pensiero del Poeta o del popolo (come in Eschilo), né depositario di confidenze e sfoghi dei protagonisti, o esecutore di intermezzi lirici o moraleggianti (come in Euripide). Il coro sofocleo rappresenta una sorta di “opinione pubblica” che si lascia facilmente condizionare dalle apparenze, o dal punto di vista dei personaggi, incline anche a mutare parere, dopo una più matura riflessione. La conclusione del coro nell’Elettra è importante ai fini della comprensione della tragedia. Riguarda la saga degli Atridi, una delle casate più celebri e “maledette” del mito greco. E non è una massima di saggezza da proporre alla collettività, bensì un’ambigua constatazione. Non trovo del tutto convincente la traduzione che viene proposta di solito dei versi finali: “O seme di Atreo,quanti mali hai subito, prima di giungere, faticosamente, a libertà,” E se la libertà fosse veramente un punto di arrivo, perché non troviamo – come sarebbe ovvio aspettarci – un regolare accusativo preceduto dalla preposizione εις ? Perché quell’insolito δι’ελευθερίας? Il genitivo preceduto da διά suggerisce piuttosto l’idea di un percorso, di una ricerca, anziché quella di un punto di arrivo (il tradizionale “moto per luogo” anziché il “moto a luogo”). A mio parere, il senso dei versi conclusivi è diverso: “ O stirpe di Atreo (ω σπέρμ’ Ατρέως: “seme” non a caso!) dopo quanta sofferenza, lungo il tuo percorso di liberazione, nella tua ricerca della libertà, a fatica sei giunto a compimento, pervenuto al tuo approdo conclusivo, grazie all’impresa attuale” Come dire: quest’impresa rappresenta il “culmine”, la “maturità” della vicenda degli Atridi; è il degno, ineluttabile approdo della storia di un ghenos che ha fondato il suo potere su una catena di delitti contro natura. Il matricidio e l’uccisione del consanguineo Egisto ne sono la conclusione perfetta e appropriata. Il coro, insomma, che fin qui ha preso le parti di Elettra e di Oreste, sembra aprirsi al dubbio, prendere le distanze dall’orrore di cui è stato testimone.
Non ci sono più eroi, in questo dramma. Come, del resto, non ci sono più personaggi positivi – ad eccezione di alcuni personaggi popolari, come il contadino marito di Elettra – nelle tragedie euripidee che si ispirano allo stesso mito. Anzi, è la figura stessa dell’eroe a essere messa in discussione, da Sofocle, in questa fase “crepuscolare” del dramma attico (come Eracle nelle Trachinie, tragedia che a me sembra cronologicamente poco lontana dall’Elettra), isolata nel suo dolore al di fuori del comune (Filottete), maniacalmente legata alle sue passioni distruttive (Elettra e Oreste) che non sono più mosse da ragioni esclusivamente ideali (come le leggi non scritte, che prescrivono il rispetto dei defunti ) (6), o dall’obbligo –tipicamente aristocratico- della vendetta, ma anche da motivazioni ben più “concrete” (il recupero dell’eredità paterna, del potere regale e dello status sociale ad esso legato). L’eroe non è più l’esponente di un vetusto e venerato passato, che viene messo in discussione dalla nuova realtà culturale, politica e sociale della polis. Ma un personaggio che non conosce moderazione né misura, un “alieno” proiettato suo malgrado in un mondo nuovo, in cui diventa un fenomeno da osservare e giudicare con un certo distacco. Nell’età delle guerre persiane e in quella di Pericle, il teatro era rito, dibattito collettivo, riflessione critica sul passato. Ma negli ultimi decenni del V secolo (a mio parere l’Elettra andrebbe collocata, grosso modo, verso il 414) il dibattito si è esaurito, perché la società greca è ormai profondamente mutata. La cultura si è laicizzata. Il razionalismo, ormai affermatosi, almeno negli strati colti di Atene, ha trasformato il patrimonio mitico in un repertorio di leggende a cui attingere per i soggetti letterari o teatrali. Il teatro si trasforma gradualmente in spettacolo e intrattenimento. La tragedia è morta, lo slancio creativo si è esaurito. Le opere di Eschilo, Sofocle, Euripide diventano “classici” da custodire e trasmettere ai posteri. A questa fase “crepuscolare” del dramma antico appartiene senz’altro l’Elettra, che risente, ovviamente, del clima culturale in cui nacque e, per certi versi, anticipa temi che diventeranno dominanti nel secolo successivo, come, ad esempio, il καιρός, il “momento opportuno”, “l’opportunità (che nell’Elettra ricorre con frequenza ossessiva: è una delle parole-chiave che caratterizzano il calcolatore Oreste e il suo precettore).
Una breve riflessione a parte merita la questione femminile. L’Elettra è forse la più “antifemminista” delle tragedie di Sofocle. Colpisce il fatto che sia una donna, la protagonista, a farsi portavoce del più acceso maschilismo. Il conflitto tra diritto paterno e diritto materno, fortemente presente nell’Orestea di Eschilo e nell’Antigone sofoclea, è del tutto scomparso, perché il secondo, semplicemente, non esiste più. Cancellato anche dalla memoria. La democratica Atene è in realtà un “club” per soli uomini. Donne, stranieri e schiavi ne sono esclusi. La figura materna ha perduto la sua sacralità: essa partorisce (il richiamo di Clitennestra ai dolori del parto è una reminiscenza da Medea), allatta e nutre il figlio. Ma è il padre che lo genera. Si è ormai definitivamente affermata – non è più oggetto di dibattito – le singolare teoria esposta nelle Eumenidi: la madre non è che “l’incubatrice” e la custode del seme paterno. I figli appartengono al padre, il quale, in caso di necessità, può legittimamente sacrificarli (Ifigenia). La donna non conta nulla. L’unico mezzo di cui dispone per vedersi riconosciuto un ruolo nella società è il matrimonio e la maternità. Altrimenti è una reietta e un’emarginata. Come Elettra e Crisotemi: le nozze vengono loro negate perché da esse potrebbe nascere un vendicatore. Ed è questo, oltre alla vendetta per il padre ucciso, e al recupero dell’eredità e della dignità regali, un movente non secondario del duplice omicidio, grazie al quale i due fratelli raggiungono, dal loro punto di vista, la “libertà” tanto agognata. Ma si tratta di una libertà molto amara, che fa orrore e che potrebbe dare l’avvio ad una ulteriore scia di sangue. Perché se “sangue chiama sangue”, se Clitennestra ha rafforzato, con il suo uxoricidio, la legge della faida, anche Elettra e Oreste dovrebbero, a loro volta, cadere per mano dei Tindaridi. L’affermazione della polis e delle sue istituzioni ha troncato – come ci ha mostrato Eschilo – questa lugubre catena di delitti. Ma il matricida dovrà pagare a caro prezzo la recuperata “libertà”. In quanto a Elettra, Sofocle non ci dice nulla del suo futuro. Nell’omonima tragedia euripidea essa sposa Pilade, ma, come sempre accade nei drammi di Euripide, il “lieto fine” ha un sapore agro: l’eroina deve comunque abbandonare per sempre casa e patria, e dire addio al fratello tanto amato.
Infine: appare stupefacente la disinvoltura e la brevità con le quali Elettra – cioè Sofocle – liquida la ragione fondamentale dell’odio di Clitennestra per il marito, cioè il sacrificio di Ifigenia ( che, non molti anni dopo, sarebbe stato ampiamente analizzato e giustificato nell’Ifigenia in Aulide da Euripide). Proprio il problematico Sofocle, che così efficacemente rappresenta la rivolta di Antigone contro l’ingiustizia degli dei (“Guardate che cosa sono costretta a subire … per avere onorato la pietà!”), che pone in bocca a Illo – e al coro delle fanciulle di Trachis – le bestemmia conclusiva ( “ E tutto questo è opera di Zeus!”), e all’angosciato Edipo il dubbio sul volere imperscrutabile – e incomprensibile – degli dei (“Zeus, che cosa vuoi fare di me?”); proprio il razionalista Sofocle (troppo frettolosamente giudicato da molti “pio” e “religiosissimo”) prende per buona la motivazione tradizionale dell’ira di Artemide? Quel sacrificio contro natura che faceva orrore a Eschilo è diventato, per lui, legittimo e comprensibile? Certo, ci resta troppo poco della produzione sofoclea perché possiamo renderci conto pienamente della sua visione della vita e dell’evoluzione del suo pensiero. Tuttavia, appare assai poco probabile una sua totale adesione alla religione tradizionale e ai suoi miti crudeli. Sofocle non può essere identificato con i suoi personaggi. Il dubbio, e la problematicità sembrano la caratteristica fondamentale della sua opera, come del resto, di tutta la cultura che è espressione dell’illuminismo greco. Ma forse, nell’Elettra, la fase del dubbio è stata superata: se gli dei permettono il male, o addirittura lo impongono (nell’Elettra euripidea l’ordine matricida di Apollo viene definito “folle”), sono malvagi. O non si curano dell’uomo e della sua sofferenza (per questa via si arriverà alle conclusioni di Epicuro). Insomma, l’Elettra, tragedia senza eroi, cupa, desolata e feroce, segna il “tramonto” dell’età d’oro del teatro classico.
NOTE
1) Ad esempio, la similitudine dell’usignolo che ha perduto i figli (v.107) è ripresa dall’ Antigone (vv. 423-428; vv. 823- 832; e ancora nei vv. 1073 – 1075); è presente in Eschilo (Ag. Vv.1145 – 1146, 1316; nella Parodo sono le aquile che si disperano trovando il nido vuoto); nell’Elettra di Euripide viene introdotta una variazione: la protagonista si paragona a un cigno canoro. Anche il motivo delle nozze negate ( Elettra, Prologo vv. 164-165, ripreso nei vv187-189. ) si trova nell’Antigone, vv. 810 -816 e 867-868; per non parlare dei dialoghi con Crisotemi, che ricalcano da vicino quelli tra Antigone e Ismene, soprattutto per quanto riguarda l’impossibilità, per una donna, di opporsi ai più forti, o il culto dei morti , tema dominante nell’intera tragedia. Le esortazioni del coro ad avere fiducia nella Dike, che prima o poi colpirà gli omicidi sono ricorrenti nell’Orestea; e l’affermazione (del coro) che altrimenti verrebbe meno ogni fede nella giustizia divina e negli oracoli è perennemente presente nell’Edipo Re, mentre “l’urna dai fianchi di bronzo” che racchiude le false ceneri di Oreste (v.54) è ripresa, quasi alla lettera, da Coefore, v.686. A volte, viceversa, sembra che sia l’Elettra a fornire spunti alle più tarde tragedie euripidee: ad esempio, all’inizio del Prologo, la descrizione della natia Micene, che Oreste torna a rivedere dopo tanti anni, verrà ripresa da Dioniso nel Prologo delle Baccanti; i motivi dell’odio di Clitennestra avranno ben altro spazio e incisività nell’Ifigenia in Aulide … ma sarebbe impossibile elencare qui i numerosissimi esempi di influssi reciproci e di scambi fra i tre poeti tragici.
2) Vedi ad esempio Vernant ,Vidal-Naquet Mito e tragedia nell’antica Grecia (uno), Einaudi 1976, il capitolo introduttivo “Il momento storico della tragedia in Grecia: alcune condizioni sociali e psicologiche”.
3) Vv.989 e 1321.
4) Antigone v.523
5) V. l’Introduzione di E. Medda all’Elettra dellaBUR (2016)
6) In effetti anche nell’Elettra, come già nell’ Antigone, vi è un riferimento alle “leggi non scritte”(nel Terzo Stasimo, quando il coro augura alla protagonista vittoria sui suoi nemici, cita la sua fedeltà alle leggi che germogliarono come supreme, vv. 1094-95), ma la situazione è radicalmente mutata. La pavida Ismene esortava la sorella alla prudenza, ma riconosceva che essa aveva ragione, e, di fronte a Creonte, non esitava a dimostrare solidarietà all’eroina. Crisotemi, invece, pur ammettendo, in un primo momento, le ragioni della sorella (“Riconosco che è giusto non come dico io, ma come giudichi tu”, vv.338-339 ), nel secondo colloquio prende decisamente le distanze dalla sorella (“Se sei convinta di essere saggia, pensala pure così. Ma quando cadrai nella sventura, approverai le mie parole”, vv.1055- 1057). Evidentemente il “consenso sui valori ampiamente condivisi “ è in gran parte venuto meno.

Sesta lezione U.P.G.C. 2011 Edipo secondo Fromm

“ EDIPO”  di Erich Fromm                                                                                                                                                                   (da  “Il linguaggio dimenticato”, Garzanti, 1973; ma la prima edizione in inglese è del 1951)

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